“Tra il 1946 e il
1976”, i primi trent’anni della Repubblica, “hanno abbandonato la penisola
esattamente 7. 447.770 individui”. Metà degli italiani, dunque, se li
ricordano, i viaggi non della disperazione – ma della speranza sì. Aperti un
secolo prima dal vapore e dal treno.
Di una speranza, però, mal fondata. Ed è
questa la “scoperta” di questo libro, il circolo vizioso tra emigrazione e
piccola proprietà, che ha dominato a lungo l’Italia agricola, quella
meridionale fino agli anni Settanta, ed è la chiave del suo (relativo)
sottosviluppo. Un’accumulazione faticata, con sacrifici impensabili, dispersa
nella piccola proprietà. Improduttiva, se non di debiti, col fisco e con le
banche, e quindi di emigrazione, per tentare di ricostituire il capitale, e
cioè la piccola proprietà. Con un occhio alla demografia, e alla storia di
genere – come farne a meno?
L’emigrazione è fra i fenomeni più
abusati della storia politica, nel senso di agitatoria. Come segno molto
emotivo di povertà, e esito della stessa. Da intendersi a sua volta come
sfruttamento, ingiustizia, sopruso. O al contrario come esito altro rispetto al brigantaggio, in una sorta di equivalenza, nelle letture di Scalise, De Nobili e altri galantuomini posivitisti, fino a Nitti e Norman Douglas. Tanto basta – bastava – per esaurire il
fenomeno: una presa di distanza. Questi studi aprono altre, più realistiche, prospettive.
C’è ancora molto da sapere
sull’emigrazione, anche su quella italiana, all’apparenza pure molto indagata,
e Andreina De Clementi, che già aveva diretto nel Duemila, con Piero Bevilacqua
e Mimmo Franzinelli, la “Storia dell’emigrazione italiana”, poi confluita in
due corposi volumi, esamina qui i punti controversi della storiografia,
raccogliendo e rivedendo i saggi che via via ha ad essi dedicato. Alcuni
ancorati ai numeri, per una più corretta analisi delle statistiche: i cicli
migratori - transoceanici, europei - e le rimesse, sia nelle dimensioni che
nell’uso. Altri istituzionali: essenzialmente gli accordi della prima
Repubblica con l’Argentina e i paesi europei del carbone, Belgio, Germania,
Francia, Gran Bretagna. Altri raccontati, su scritture inedite, testimonianze
orali, minute corrispondenze o insorgenze familiari.
Questa è la parte nuova della raccolta,
sottotitolata “Donne e uomini nell’emigrazione italiana”. Che la studiosa ha
organizzato come storica di genere, mobilitando i suoi allievi – le sue allieve
– alla ricerca delle trascurate scritture domestiche, cartoline o lettere per lo più e atti legali, nonché di testimonianze di persone che avevano vissuto la vecchia
emigrazione in prima persona. Una ricerca di cui dà conto nei tre capitoli
centrali, “I lavori delle donne”, “A ruoli scambiati”, “La sfida dell’insularità”.
Non ci sono precedenti, se non, incidentalmengte, l’arciprete di Comparni (Mileto) Lorenzo Galasso, “Arabi e beduini d'Italia”, 1911, e il vecchio studio pubblicato da Comunità nel 1961, “Il contadino polacco in Europa e in America”, di Thomas e Znaniecki, e quindi questo apporto si può dire una scoperta. Con molte sorprese. La donna non è solo la fattrice e nutrice della vulgata, in
un mondo contadino privo di sensibilità, tra marito e moglie, tra genitori e
figli. L’emigrazione si configura infine nel suo dato più caratteristico, di sfida e quasi di scelta - “l’umanità viva avida e potente dell’emigrazione di
quarant’anni fa” che Corrado Alvaro rilevava nel 1933, in “Itinerario italiano”. Lo stratagemma storiografico di Andreina De Clementi, il recupero della
carte perdute di un mondo che si presume senza carte, apre un tesoro nascosto
all’opinione ricevuta, e probabilmente un filone d’indagine. L’insularità è più
forte nelle comunità italiane negli Usa. Dove però serve anche come autoprotezione,
a salvaguardia – come tale la rappresenta
“La fine”, un romanzo di non più di una diecina d’anni fa, di Salvatore
Scibona, ancora attiva a Cleveland, Ohio, nel secondo Novecento: non come fatto
di esclusione ma di un’etnicità sentita e anzi rivendicata.
Il racconto va ripreso perché è fermo a
un secolo fa, anche un secolo e mezzo. A Franchetti, Foerster, Nitti, che
costruirono “il Grande Racconto, contraltare dell’effusione di bastimenti,
lacrime, fatiche e struggimenti imbastita dalla retorica popolare” (p.5). Succede.
Si fanno meraviglie dell’innovazione tecnologica, è retorica d’obbligo. Oggi
naturalmente dell’elettronica, che annulla lo spazio e rimpicciolisce il tempo,
sembra anzi annullarlo. Centocinquant’anni fa il vapore e il treno rimpiccolivano
per la prima volta lo spazio, avviando mezzo secolo di emigrazione di massa,
dall’Europa meridionale e centro-orientale verso le Americhe, e dall’Europa meridionale
verso il Centro-Nord europeo. La più grande emigrazione di massa che si
ricordi. Le cui motivazioni e i cui effetti restano in larga misura ancora incogniti.
La
liberalizzazione, benedetta
Il fascismo truccava i dati, la
Repubblica se n’è disinteressata, a parte le lacrime, finte. Le prime pagine
Andreina De Clementi deve dedicarle a demolire gli stereotipi. Il “tutto
povertà” – “I poverissimi abitanti dei Sassi di Matera furono gli ultimi a
mettersi in cammino”. Il “tutto feudo”: “Per tutto il corso dell’Ottocento, la
vendita dei beni ecclesiastici e demaniali e l’egualitarismo del sistema
successorio introdotto dal Codice piemontese, in rotta di collisione con la
crescita demografica, contribuirono l’una alla proliferazione delle
microproprietà e l’altro al suo spezzettamento ossessivo dall’una all’altra
generazione” (p.14) - ma anche nel Novecento, fino alle “riforme” agrarie degli
anni 1950. La “campagna arretrata”, impreparata alla liberalizzazione, allora e
sempre benedetta: “Fu come gettare in acqua un neonato un po’ gracile e vederlo
più volte sul punto di annegare” (p.15). Si vuole che la liberalizzazione
affini e moltiplichi l’industria, mentre favorisce gli speculatori
improduttivi, gli importatori: Le industrie più remunerative e diffuse, della
seta, del cotone, della lana, del truciolo, furono spazzate vie. Il grano e il
vino subirono violenti scossoni: “Nell’ultimo trentennio del secolo, il
ferrarese e il ravennate diventarono teatro di un imponente processo di
proletarizzazione” (p.16). E siamo solo alla terza pagina.
I numeri e le date dell’emigrazione di
massa confermano questi scorci. Parte per primo il Triveneto, per “la grande
diffusione della proprietà particellare sempre più sbocconcellata e la
rarefazione dell’industria domestica” (p. 18) – partono anche le donne. Il
fenomeno si estende presto con la fillossera, certo. Che però è importata dagli
Usa in Provenza, e da qui in Italia. E poi, nel 1883, col colera, ma anch’esso
importato, da Francia, Austria e Baviera.
Un’analisi più ricca forse perché non
pregiudiziata – non ve ne sarebbe motivo tra gli storici, ma i paraocchi sono
quasi un attrezzo del mestiere. Si prendano la demografia e il “genere”. Si fanno più matrimoni, più giovanili. I
paesi sono rivitalizzati. Le mogli, le madri diventano centri di spesa, per i
consumi e anche per gli investimenti familiari. Donne giovani e giovanissime,
d’improvviso affrancate, decidono. C’è l’inquietudine e c’è il bisogno, ma altrettanta
energia, anzi di più. C’è lo spaesamento ma non lo sradicamento – “Io quando
sono qui vorrei essere in America e quando ero in America tutte le notti
sognavo la mia casa”, può dire congruamente uno dei tanti “Emigranti” di Perri,
del romanzo omonimo. Sullo sfondo, non presa a partito, è la partenza come “lutto”
di Ernesto De Martino – o altrimenti dobbiamo dire che abbiamo più vite.
L’emigrazione
è un fenomeno frastagliato, scomponibile in molte realtà, che variamente si
sovrappongono. Si prenda l’insorgenza mafiosa, naturalmente non esclusa
dall’emigrazione, “insulare” e non.
Andreina De Clementi pone “le complicità dei contesti”: “Perché negli
Usa proibizionisti degli anni trenta sì, e in Canada o in Australia o in
Francia no?” Non è un fatto etnico, i contesti contano. E in molte forme.
Proprio in Canada, Australia e Francia si può testimoniare che la mafia si
manifestava ancora di recente, ma
diverso era l’approccio. Attorno al
1980, a Reggio Calabria, indagando sui rapimenti di persona, il comando dei
Carabinieri aveva ricostituito, stante il segreto bancario in Italia, le
diversificazioni finanziarie di cui alcuni mafiosi erano già specialisti attraverso
i loro contatti in Australia e in Canada – e in almeno un caso, i Pesce di
Rosarno, invischiati in altre attività non lecite, in Francia. Una rete dettagliata dei movimenti di denaro con persone e
banche della Locride e della Piana di Gioia Tauro era stata ricostruita grazie
alle segnalazioni delle polizie di quei tre paesi. Che però si guardavano bene
dal farne un fenomeno speciale. Diverso
era - è - l’approccio, una sorta di de-insularizzazione del crimine. Non
dovendone fare terreno di bagarre
politica, l’apparato repressivo di quei paesi non indulgeva in società segrete,
cupole, associazioni e concorsi esterni, ritardando di decenni e di generazioni
la punizione del crimine, bensì colpiva subito i rei, per reati specifici. Molto più semplice, e
anche produttivo.:
Piccola
proprietà, tasse, debiti si mangiano l’accumulazione
Il fatto centrale è il circolo vizioso
proprietà-emigrazione. Una sorte di Grande Scoperta, se condurrà, com’è
possibile, a individuarvi l’origine vera del ritardo del Sud: l’incapacità di
accumulo. Ovvero l’erosione dell’accumulazione primaria per l’offa della
proprietà. Una beffa tragica, che molta letteratura ha già rappresentato – ma non
la sociologia: dai primi “Emigranti” di Francesco Perri, 1928, alla “Cognizione
del dolore” di Gadda, al seminale “Di padre in figlio” di Gay Talese, con gli
epigoni italiani (Melania Mazzucco, “Vita”, Mimmo Gangemi, “La signora di Ellis
Island”, etc.), e ai “germanesi” di Abate e Behrmann, 1986. Un’idea sbagliata del
riscatto produttivo e sociale. Reiterata ancora a metà Novecento, con le ultime
“riforme agrarie”. Tutte destinate al fallimento, tra le tasse e i debiti. Dopo
aver bruciato i risparmi, rimesse comprese, di milioni di persone. E cioè l’accumulazione
primaria che sempre è necessaria a un’economia solida e prospera (autopropulsiva). Nonché milioni di vite di sacrificio, come usava dire, di “promiscuità
estreme, solitudini lancinanti” (p.163), di malattie, di soprusi.
C’è un equivoco all’origine dell’emigrazione
di massa. Che non è una fuga dalle campagne ma, purtroppo, una fuga per
riacquistare le campagne e disperdervi il nuovo capitale. Non si può ridurre
naturalmente l’emigrazione a un equivoco. C’entra anche il bisogno. C’entra l’avventura.
Per chi ha mezzi intellettuali. Per chi ha o intravede un mercato – il gelataio,
l’occhialaio, il decoratore. Ma anche per i più sprovvisti, specie nei decenni
e verso le destinazioni che prevedevano un contratto di lavoro e quindi la
traversata gratuita. C’entra anche la
semplice curiosità, di chi vuole andare a vedere le meraviglie che si dicono – sono
molti milioni anche gli emigrati di ritorno. Ma l’equivoco ha maggiori
responsabilità, ed è l’aspetto nocivo della questione: tanti sacrifici per
nulla.
Andreina De Clementi, L’assalto al cielo, Donzelli, pp. 289 €
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