Vuole
fare la guerra a Putin. Contro i suoi interessi, sembrerebbe, e invece no, perché
i suoi interessi sono le guerre. Non sarà così, ma è quello che Milano dice e
fa: la militanza è il suo motto. Ora costringe il segretario generale della Nato,
che si era avventurato in un’intervista al “Corriere della sera”, a precisare
che la Nato non “avverte Putin” come
il giornale gli ha fatto dire. E anzi di aver voluto sottolineare “come non ci
sia una soluzione militare alla crisi e come l’Ucraina stessa non sia Paese
membro dell’Alleanza Atlantica”. Cioè il contrario: la Nato “avverte” gli
oligarchi capimafia dell’Ucraina, che Milano continua a presentare come i
difensori della democrazia, che l’Ucraina dev’essere governata col rispetto
delle minoranze.
Non
è ignoranza, è come se Milano ci volesse morti. Non ci vuole in guerra solo con
Putin. Anche con Renzi. Nel nome dei centri sociali. Anche con l’Italia tutta –
il Sud perché è il Sud, Roma perché è Roma, etc. Dopo la lunga serie di governi
che ci ha imposto di tasse-e-tagli, quello inimmaginabile dei banchieri di
Monti, e i vari Berlusconi-Tremonti. La ricetta tedesca arcigna sostenendo, che,
ormai è risaputo, ha avvelenato l’Europa, forse a morte. Nonché la politica criminale,
strafottente, divisiva, che domina l’Italia da un ventennio e più, dei suoi
giudici, di Bossi, di Berlusconi, di Banca Intesa e della Bocconi. Dell’abbandono
della scuola pubblica, anzi dell’università, e della sanità. Al mercato, delle
libere avventure finanziarie. L’orecchio ai banchieri d’affari.
sabato 15 novembre 2014
Accordo Usa-Russia, via Pacifico
È stata
la conclusione trionfale di un vertice transpacifico che si voleva trionfalistico,
ma si può ritenere cosa fatta: tra Cina, Usa, Giappone e Russia è uso parlare
poco e fare rapidamente. La globalizzazione che regge il mondo fu una decisione
bilaterale Cina-Usa nel 1987, malgrado Tienanmen. L’area di libero scambio del
Pacifico prenderà solo i pochi mesi necessari ad apprestare le regole doganali.
Dall’asse
Europa-Usa all’asse Cina-Usa, con Russia e Giappone, si sancisce il nuovo corso
della storia. Con una subordinata non di poco conto e non senza significato:
Russia e Stati Uniti commerceranno liberamente come potenze del Pacifico, non
potendo la Russia fare parte dell’Europa.
C’è i cinesi, mah!
Pompa,
intelligenza e attivismo al vertice Apec di Pechino, tra le potenze del
Pacifico. Tutto l’opposto del torpido vertice, un mese prima a Milano,
dell’Asem, tra Asia e Europa. Basterebbe questo per sancire l’isolamento dell’Europa
nello scacchiere mondiale in sommovimento. Un autoisolamento in realtà, imposto
dalle politiche europee, provinciali e limitate, se non sono suicide. Per l’incapacità
del blocco teutonico dominante, la Germania coi suoi satelliti, dal Baltico
alla Spagna. Ma non ci sono altre idee o iniziative in Francia , o in Gran Bretagna,
o in Italia.
Il
vertice Asem si è tenuto anzi proprio in Italia, nella disattenzione. A Roma,
sulla strada per Milano, il primo ministro
cinese Li Keqiang ha portato investimenti per otto miliardi. Con la Cassa
Depositi e Prestiti, col Fondo Strategico Italiano, con l’Enel, con l’Agusta Westland,
Banca Intesa e altri. Silenzio. La Cina è, probabilmente, il primo investitore
estero in Italia, con partecipazioni, anche di controllo, in 327 imprese, per
un ammontare totale di altri otto miliardi. Ma è come se non ci fosse.
C’è
i cinesi si diceva un tempo in Toscana per ridere dei cecinesi, che
all’allocuzione del primo comizio politico scapparono intimoriti dal pericolo
giallo. Si diceva per ridere, gli abitanti di Cecina sono industriosi e sanno
come va il mondo. Ma per la torpida politica italiana forse no. Non sa dov’è la
Cina e non se ne cura.
Oggi
la percezione è diversa, rispetto alla fobia degli anni 1920-1930, e alla paura
della guerra fredda: l’investimento cinese, benché pubblico, quindi di partito
(e di polizia) è ritenuto solido, non speculativo. L’investimento americano è
sicuramente maggiore: si calcola in 35-36 miliardi, il 17-18 per cento della
capitalizzazione attuale di Borsa, sui 200 miliardi, mentre la Cina è ferma a
7-8 miliardi. Ma le quote americane sono volatili, quelle cinesi sono invece ritenute
stabili. “Strategiche”, proprio perché di banche e società di Stato. Tra questi la partecipazione della Banca
Centrale Cinese, col 2 per cento più qualcosa, in Fiat, Eni, Enel, Generali,
Mediobanca, Telecom Italia, Prysmian. Più le quote di rilievo di altre aziende
cinesi, che ora hanno il 35 per cento della Cdp Reti, la società della Cassa
Depositi e Prestiti che controlla le reti elettriche e del gas, e il 40 per
cento di Ansaldo Energia. E hanno consentito di rilanciare la gara per Ansaldo
Trasporti (Ansaldo Breda e Ansaldo Sts), che languiva da dieci anni.
“Come il ginepro”, guida al fenomeno Merini
“Ninfa
innamorata”, la dice Mastrantonio nella presentazione, “casta meretrice, musa di
se stessa”. Nonché patrona dei Navigli popolareschi fino a trent’anni fa, prima
che Milano dimenticasse se stessa, col recupero urbano di immobiliaristi e
archistar. Nel successivo terzo del libro Alda Merini celebra, di ritorno a
Taranto, col secondo marito Michele Pierri, tutti i Pierri e le Pierri. Una
bagno di umanità. Ma non può fare a meno di Milano, dove ritrova, nell’ultimo
terzo della compilazione, la memoria del dolore mentale. Al quale con più convinzione
oppone il rifiuto della medicina – nella persona dello psichiatra Rino
Escalante – e l’intangibilità corporea dei sensi. Che sono la sua poesia, di
musa “nuda nei versi” (Mastrantonio) - ma non fredda.
È un titolo
poco meriniano, crepuscolare. E una raccolta promiscua, Ma su cui, proprio per
questo, si potrebbe cominciare a chiarire il “fenomeno” Merini, fin qui sfruttato
come roba di mercato, se non di baraccone. Che per questo forse Maria Corti
collazionò a suo tempo e confidò all’editore Manni, che la pubblicò postuma nel
2009. La prima plaquette, “Satire”,
una galleria di personaggi dei Navigli, è redatta in puro stile “poetico”, in
endecasillabi per lo più. Con prosodia scostante, spenta anche, malgrado gli eccessi
di figurazioni e comportamenti. Su modelli sbiaditi, Carlo Porta, il teatro
dialettale, e perfino Pigalle – “nei giardini segreti della Ripa\ Pigalle è
presente”. L’“Antologia Pierriana”, la serie di omaggi alle donne e gli uomini
Pierri, è studiata: d’impianto elegiaco,
sul genere dedicatorio, se non di veri e propri calchi classicheggianti, con
rime anche ricercate – tacere-voliere… Nella terza parte, quella del titolo, il
secondo componimento, “Soavità del nulla”, è una successione di echi colti, dalle
“rosee dita” alla “Pentecoste del male”.
Un’antologia
non esemplare della migliore Merini. A parte forse la “Canzone
del’amore spento”. Di umori qui instabili, superficiali: leghista
in anticipo (“La Siciliana”), catturata e confusa dalla “donna del Sud” (“Antologia
Pierriana”), stramilanese (“benedetta Milano”). La deiezione vivendo ancora con
risentimento. Ma abbastanza per incidere la coltre d’inconoscibilità che il “fenomeno”
ispessisce. Molte radici scoprendo: la follia naturalmente, e l’umiliazione, l’offesa
più grave - anche con Manganelli e gli altri cui piaceva la carne tenera – e l’autobiografia
alla quale lei stessa volentieri indulge. Ma con fondi compositi solidi: di
formazione classica, umorismo, civismo, e religiosità, senso acuto della vita.Accentuati,
senza più riserve, nelle “Quattro prose” finali, speciale “La fede” e “La magia”.
Giulio Ferroni curiosamente, introducendo l’edizione Manni cinue ani fa, dice l’opposto, la vulgata accreditando di una “assoluta, immediata, intenzionalità poetica (quasi fuori tempo estranea ad ogni programma di poetica, ad ogni identificazione di modelli intellettuali, ad ogni confronto con la “storia”)”. Come di un furore da medium. Che è possibile. Un’indagine resta da avviare sulla schizofrenia, una delle forme di schizofrenia alla quale evidentemente si accompagna la facilità di versificazione, da Hölderlin, in epoca conosciuta, fino oggi a Saro Napoli (“Incom”). Ma col dubbio, nel caso Merini, di un medianismo consapevole, addestrato. Isolato nella comunità letteraria, ma questo è un altro problema.
Giulio Ferroni curiosamente, introducendo l’edizione Manni cinue ani fa, dice l’opposto, la vulgata accreditando di una “assoluta, immediata, intenzionalità poetica (quasi fuori tempo estranea ad ogni programma di poetica, ad ogni identificazione di modelli intellettuali, ad ogni confronto con la “storia”)”. Come di un furore da medium. Che è possibile. Un’indagine resta da avviare sulla schizofrenia, una delle forme di schizofrenia alla quale evidentemente si accompagna la facilità di versificazione, da Hölderlin, in epoca conosciuta, fino oggi a Saro Napoli (“Incom”). Ma col dubbio, nel caso Merini, di un medianismo consapevole, addestrato. Isolato nella comunità letteraria, ma questo è un altro problema.
“Io sono
come il ginepro”, Alda si professa al secondo marito Michele Pierri, e intende
inafferrabile, che come la gazzella scappa “al primo rullo,\ perché anche un
bacio, amore,\ fa un rumore sottile”. Legandosi forse all’unisessualità. Ma
anche al gin, di cui si saziava, l’alcol a buon mercato, e chissà alle
proprietà lenitive.
Alda Merini,
Come polvere o vento, Corriere della
sera, pp. 112 € 6,90
venerdì 14 novembre 2014
Il grillo parlante d’Europa
Si
può dire la Germania “il paese più corrotto d’Europa”? Forse no. Ma, appunto,
forse: a questo punto siamo. O che “siamo in una dittatura sottile fatta di
banchieri e massoni”. Forse no, forse sì – perché non si vede chi ci governa,
non per il nostro interesse. A otto anni dall’inizio della crisi, l’Europa ha
un prodotto lordo inferiore del 3 per cento a quello del 2007, una
disoccupazione al 12 per cento, il doppio di quella americana, con un debito
pubblico cresciuto di un terzo. Tutto troppo al di sotto della soglia
dell’errore, e dunque non lo è: ci vuole applicazione per coniugare recessione
e deflazione, e dove è finito tutto quel debito pubblico in eccesso?
Si
dice: la colpa è della Germania. Ma è dell’Europa. Si può anche intendere: la
Germania è l’Europa. Che però non ha armi micidiali in mano. Dove sono tutti
gli altri, e che fanno?
Questo Grilo dà sempre l’impressione di essere un po’ “cotto”. Ma è lo stesso che diceva Telecom fallita dieci anni fa. Ed era vero. Anche
allora tutti lo sapevano, ma non si doveva dire.
Problemi di base - 204
spock
È
il soprano una soprano?
E
internet: è provvido o provvida?
Anche
google: è importuno o importuna?
Perché
la modernità non è transgender?
Perché
la vigna e il vino, e non il vigno e la vina?
E
s’incontra sempre una persona, e mai l’amante? Anche non di nascosto
Si
vuole corretta la politica, o politica la correzione?
E
sbiancante: s’intende che rende più bianco, o che toglie il bianco?
spock@antiit.eu
L’Internazionale del risentimento
Pochi anni,
nemmeno un decennio di vera attività, ma bastanti per intossicare il socialismo.
Nella cronologia apposta al volume Bravo lo documenta. Involontariamente: il suo
“volumetto”, datato 1979, è la storia di come Marx si impadronì della Prima
Internazionale – con Engels, oggi si aggiungerebbe. Una storia che riletta dopo
il diluvio sembra caricaturale, il racconto trionfale di una sconfitta. Ma non
solo per questo, per il “giudizio della storia”. Marx si impadronì – con Engels
- dell’Internazionale in senso letterale, con manovre, trappole, risentimenti.
Che avrebbero fissato per sempre il socialismo nella faziosità e nella
divisione, distruttivo di una speranza e non costruttivo.
Il
programma fallì, significativamente, in Inghilterra, dove i due risiedevano e operavano,
presso gli stessi lavoratori che avevano dato vita all’Internazionale con l’assemblea
del 28 settembre 1864. C’erano le rappresentanze dei fuoriusciti, Marx vi fu
invitato, per interposta persona, quale rappresentante dei lavoratori tedeschi,
ma la massa erano delle Trade Unions. Che rimasero fuori dell’Internazionale. Marx
voleva solo farsi un partito con i sindacati, a spese degli altri socialisti su
piazza. Con la “liquidazione” degli stessi Proudhon, Blanc, Bakunin, che negli
anni dell’esilio parigino, nel 1843-44 lo avevano aperto al socialismo.
Marx resta,
con Engels, analista acuto della politica internazionale. Marx molto vivace
rispetto a Engels, e godibile scrittore.
Gian Mario
Bravo, Marx e la Prima Internazionale,
Pantarei, pp. 164 € 10
giovedì 13 novembre 2014
Recessione – 28
Tutto quello che dovremmo sapere e non si dice:
Anche nel 2015 il pil potrà avere
segno negativo – le previsioni si aggiornano in peggio.
“Il mondo non può permettersi un
decennio perso per l’Europa”, è il messaggio del ministro del Tesoro Usa Jack
Lew al G 20 di Brisbane sabato. Sette anni sono dunque passati? O i dieci anni
sono a venire? Tuto il mondo galoppa, eccetto l’Europa.
La disoccupazione in Europa è all’11,7
per cento, comunica fredda la Bce. È quasi il doppio degli Usa.
Nel 2015 la disoccupazione in
Europa potrebbe scendere all’11,4 per cento, nell’ipotesi migliore. Non
scenderà sotto il 10 per cento prima del 2019, cioè fra cinque anni, stima sempre
impassibile la Bce..
40 mila aziende piccole e medie
chiuse dal 2008: 23 mila liquidate volontariamente, 13 mila fallite, oltre 5
mila in concordato prefallimentare. Su un totale di circa 185 mila pmi censite
nel 2007.
La produzione industriale continua
a contrarsi, di un 3 per cento a settembre rispetto a dodici mesi prima, a un
livello inferiore al 2009.
Diminuiscono a settembre di un 3
per cento i consumi elettrici rispetto a dodici mesi prima, e il credito
bancario, alle imprese e alle famiglie.
L’Istat
ha sempre più difficoltà a contenere il dato sulla disoccupazione al di sotto
del 13 per cento.
Letture - 192
letterautore
Gramsci
– Un gesuita? Non nel senso di ipocrita, ma di
combattente. Così lo disse Francesco Perri, lo scrittore da lui ingiustamente
stroncato in un’annotazione che dopo la guerra fece parte della raccolta “Letteratura
e vita nazionale”: “Quel giovane aveva certo delle grandi qualità, che nessuno
può disconoscere, ma era di una presunzione incommensurabile e aveva una
mentalità di tipo teologico che atterrisce. Una specie di gesuita”.
Per la critica, ingiusta (v. sotto), di Gramsci,
Perri è stato escluso nel secondo Novecento e dopo da ogni considerazione, e
perfino dall’industria editoriale. Quanto altro Gramsci pesa sulla letteratura
italiana?
Italia
– “Un paio d’anni fa ero qui per un casting”, qui a
Roma, Stefani Ulivi rapida e brillante fa dire a Peter Greenway in un’intervista
su “la Repubblica-Roma” mercoledì 12, “ho chiesto a un attore: «Voglio che
cammini come Mastroianni». «Chi è Mastroianni?», mi fa. «L’attore preferito da
Fellini». «Chi è Fellini?»”. Forse Greenway esagera, ma la memoria è sempre più
corta, in tutte le università tutti i docenti se ne lamentano, da una
generazione almeno.
Mercato – “Credo che la reazione alla crisi sia
stata isterica da parte del mercato. Così si è inseguito il lettore debole,
sottovalutando la cultura. Ciò ha danneggiato i lettori più della crisi
economica”. Luigi Spagnol, ad di Gems, alla presentazione del portale illibrario.it
alla milanese Book City. Il mercato escluso Gems?
Perri – Francesco
Perri, uomo e letterato d’un pezzo di sinistra, ma non comunista, fu
svillaneggiato da Gramsci per il suo romanzo “Emigranti”, 1928, uno dei
migliori del primo Novecento alla rilettura, d’impianto complesso, ma non
politico - o meglio politico nel senso conoscitivo e comprensivo, e non tattico.
In un appunto del carcere, che poi ha tenuto banco nella critica accreditata
per tutto il secondo Novecento e oltre, alla p. 573 di “Letteratura e vita
nazionale”: “Negli «Emigranti» tutte queste
distinzioni storiche, che sono essenziali per comprendere e rappresentare la
vita del contadino, sono annullate e l’insieme confuso si riflette in modo
rozzo, brutale, senza elaborazione artistica. È evidente che il Perri conosce l’ambiente popolare calabrese non immediatamente, per
esperienza propria sentimentale e psicologica, ma per il tramite di vecchi
schemi regionalistici (se egli è l’Albatrelli occorre tener conto delle sue origini politiche, mascherate
da pseudonimi per non perdere, nel 1924, l’impiego al Comune o alla
Provincia di Milano). L’occupazione (il tentativo di) a Pandure nasce da «intellettuali», su una base
giuridica (nientemeno che le leggi eversive di G.Murat) e termina nel nulla, come se il fatto (che pure è
verbalmente presentato come un’emigrazione di popolo
in massa) non avesse sfiorato neppure le abitudini di un villaggio patriarcale.
Puro meccanismo di frasi. Cosí l’emigrazione. Questo villaggio di Pandure, con la famiglia di Rocco Blèfari, è (per dirla
con la parola di un altro calabrese dal carattere
temprato come l’acciaio, Leonida Rèpaci) un parafulmine di tutti i guai. Insistenza sugli errori di
parola dei contadini, che è tipica del
brescianesimo, se non dell’imbecillità letteraria
in generale. Le «macchiette» (il Galeoto ecc.), compassionevoli, senza arguzia
e umorismo. L’assenza di storicità è «voluta» per poter mettere
in un sacco alla rinfusa tutti i motivi folcloristici generici, che in realtà
sono molto ben distinti nel tempo e nello spazio”.
Il romanzo di Perri è fatto di arguzia e umorismo
– una forma di pietas non beghina. Pandure è Pandore, cioè Careri, un borgo che
Perri conosceva bene, per esserci nato e cresciuto, e fa vivere senza
rimozioni, non quelle sterili di Gramsci, per esempio, inurbato, lui sì, molto “intellettuale” – il fatto
è constatabile ancora oggi, che Careri si raggiunge in pochi minuti di macchina
dal mare. Albatrelli è in realtà Albarelli, pseudonimo che Perri aveva adottato
nel 1924 per “I conquistatori”, romanzo scopertamente antifascista, scritto e
pubblicato a Milano nel 1924, “era” già
fascista. Per il quale Perri aveva già perduto il posto – alle Poste. Una cosa
che in altro conetsto avrebbe portato non alla decurtisiana deformazione ma a
medaglie e abbecedari celebrativi. Allo stesso che modo che Careri, Perri
conosce e sa far parlare i contadini, come nel Novecento nessun altro ha fatto.
Persona peraltro amabile, e sempre attivo nella vita nazionale, sempre dalla
parte giusta, fino alla morte nel 1974, non un imbecille.
Roma
– Peter Greenway, che
dedicò alla città nel 1987 “Il ventre dell’architetto”, film sull’architettura boulleana e sul
senso
di vita che le pietre della città comunicano a un architetto malato
terminale, si dice tuttora che non aveva
torto: “Roma, un posto straordinario, la più antica città che continua a
vivere. Atene è più antica, certo, ma a un certo punto si è spenta. A Roma si
sente un’evoluzione continua, è un posto così potente”. Lo dice a “la
Repubblica-Roma”, nella stessa intervista a Stefani Ulivi con cui si sorprende del
recesso italiano. A una delle redazioni specializzate cioè nel dire Roma morta.
Bisogna aprire le finestre nelle redazioni romane?.
Sue – Marx lo snobbò, con ferocia. Definendolo “piccolo borghese sentimentale, socialista della fantasia”, candidato socialista “per far
piacere alle grisettes”. Un’anticipazione
forse dell’odio dei comunisti verso i socialisti – tuttora forte e anzi
dominante in Italia, che i socialisti non esistono più, e nemmeno i comunisti. Ma su Sue bisogna intendersi,
Marx è ingeneroso, come a volte lo è il destino. Uno che aveva avuto padrini di
battesimo Giuseppina di Beauharnais e l’Aiglon, il principe Eugenio. Che
passava le serate al Jockey Club. E nel 1850 si fece candidare
per battere la legge Falloux che aboliva la scuola pubblica, e in qualche modo
ci riuscì, Parigi lo elesse. L’anno dopo Luigi Napoleone Bonaparte lo
esiliò, e in nessun luogo poté andare per l’opposizione dei preti, solo in Savoia, sotto la
protezione del governo liberale di Massimo D’Azeglio, dove presto morì.
letterautore@antiit.eu
La magia è morta, con la vita
La fascinazione, il tarantolismo
pugliese, la magia “lucana”, la jettaura a Napoli, saggi vecchi e vecchissimi.
Probabilmente già sessant’anni fa, quando venivano elaborati. Sopravvivenze.
Nemmeno: pratiche rimembrate, di tempi remoti, folklore.
Nella
riedizione, però, Galimberti rileva in De Martino una robusta nozione del
magico – “molto più di quanto l’abbiano colta le pagine numerose e documentate
di L.Levi-Bruhl e di M.Mauss” - e Frazer? - che restano in tema i punti di riferimento: il
senso religioso del magico, come di ogni mitologema. Insieme irrazionale e razionale.
Un punto di vista molto semplice, anche istruttivo in questa epoca in cui si
cancellano le processione e i riti in genere come “pagani”. Per uno scadimento
delle scienze umane e cognitive. A cominciare dalla nozione di paganesimo, confusa
ma dotata di senso spregiativo, e questo basta. Mentre sta, si sa, per religiosità “popolare”, o incorporazione della religiosità.
La
pratica magica, quando ancora si dava, e tuttora la pratica religiosa, sono “i
luoghi delle sicurezze”, come argomenta Galimberti, così come ogni elaborazione
mitologica, “abitando i quali è possibile affrontare l’incertezza della vita
quotidiana”. Metafisica e anche pratica, di mezzi e sforzi – così come “luogo
della sicurezza è anche la ragione
con le sue pratiche operative”. Galimberti trova la specificità di De Martino,
rispetto ai repertori di Levi-Bruhl, Mauss e dello stesso Jung, nella “saldatura
tra magia e storia, e nel rapporto tra storia
e metastoria che ogni magia
inaugura”. Che coglie “l’essenza del magico” e la sua “ineliminabilità” – che
“questo sfondo sia ordinato da Dio o dalla ragione non è importante perché importante
è quel vissuto soggettivo” che dà e prende forza dalla credenza contro “il
negativo che minaccia di continuo l’esistenza dell’uomo”. Bisogna avere fede
per credere nella ragione - chi non ha fede (non è capace di, non ha voglia di)
non crede in nulla.
La riedizione è anche
una testimonianza involontaria di com’è cambiato il Sud. In cinquanta o
sessant’anni. Posto che fosse come De Martino lo rileva, affatturato: soggetto
alla “antica fascinazione stregonesca, in connessione con altri tratti magici
affini, quali la possessione e l’esorcismo, la fattura e la controfattura”. O
dei limiti del folklore, in quanto studio di sopravvivenze inerti.
Un repertorio da
servire, forse, allo studio dei linguaggi, delle mentalità. Ma in quanto
“storia religiosa del Sud”, come Galimberti la ripropone, ha un che di
provvidamente anacronistico.
Ernesto De Martino, Sud e magia, Ue Feltrinelli, pp. 207 €
9
mercoledì 12 novembre 2014
L’anti-Iliade, e il Dio-patria-famiglia
Con le immagini di Olmi sempre suggestive,
perfino aggressive, la guerra senza epos. In trincea, in attesa, l’azione
minima, mortale, il centenario si celebra senza sbocco. In ambiente e aura claustrofobiche, la
metafisica della guerra: una violenza subita. Senza rivolta possibile, solo
rassegnazione.
Se l’“Iliade”, la prima guerra, è il
poema della forza, poco ne resta, se non l’oblio – “torneranno i prati, e
nessuno si ricorderà di noi”. Con la condanna del “Dio, patria, famiglia” che era la
retorica del tempo, piana, come un dato di fatto: Dio “non ha saputo salvare
suo figlio”, e la moglie il soldato trova, a una breve licenza dopo sei mesi di
trincea, a letto con un altro, pratico – “la donna ha bisogno del’uomo più di
quanto l’uomo abbia bisogno della donna”.
Ermanno Olmi, Torneranno i prati
Secondi pensieri - 195
zeulig
Amicizia – Si vuole un comune sentire, ma è probabilmente un diverso
sentire. Per una sorta di rispetto per l’altro, che è invece il suo fondo: è
una forma di amore senza corrispettivo, applicata sempre al bene dell’altro.
Conosce il dispetto, ma come autopunizione. È in questo senso che va letta la
sentenziosità, biblica, classica -, che sull’amicizia è concorde.
Amore – È più forte della morte, ma non per modo di dire:
necessariamente anzi un’ovvietà: senza,
non c sarebbe che morte. Non si vive senza, non ci sarebbe che morte. Cioè non ci sarebe niente, l’essere sarebbe
la morte, il non-essere, un vuoto costante.
Se l’amore non fosse più forte, anche della sofferenza, la vita non ci
sarebbe.
È più forte anche della morte
dell’altro, sia pure essa inflitta. È una macchia-traccia persistent, così come
sarà stato una fragranza.
Adorno ne fa il punto di forza
nella debolezza, “Minima moralia”, parte terza, Monogrammi: “Sei amato solo dove puoi mostrarti debole senza
provocare in risposta la forza”. Ma questa è piuttosto la compassione. Da cui
l’amore non andrebbe esente, è vero.
Lo stesso Adorno, nello stesso
luogo, ne fa “la capacità di avvertire il simile nel dissimile”. O non è il
contrario?
Fede - È costanza. La fede religiosa è fede nella vita nelle
miserie della vita, morte, malattia, delusione.
È la forza di ogni pratica mitica,
dalla magia alla religione. E compresa naturalmente la ragione: bisogna avere fede
per credere nella ragione. Chi non ha fede – non è capace di, non ha voglia di –
non crede in nulla.
Marx – Liberale? È ipotesi non del tutto arbitraria – tra le tante
che si opinano per tenerlo in vita. Già Keynes - a sua volta oggetto del
ricorrente quesito: è un liberale – lo collocava nel liberismo:
“La scuola di Manchester e il marxismo
derivano entrambi in ultima analisi da Ricardo, conclusione solo a prima vista
sorprendente”. Da Ricardo che più di Adam Smith è il cardine teorico del
liberismo. Keynes Lo scrive nella prefazione all’edizione tedesca della “Teoria
generale”, nel 1936, e si può ritenere l’accostamento una petizione di
benevolenza presso gli economisti tedeschi all’ora del totalitarismo
antisovietico, ma non è sorprendente, in questo Keynes ha ragione.
Il primo antimarxista, anzi, si può dire
lui stesso. Che dà
una garanzia che è poco più di una metafora: ogni società, dice con Hegel,
contiene in germe le epoche successive come ogni organismo vivente porta i semi
dei suoi discendenti. Ma questa gracilità Marx condivide con tutti i filosofi.
È
liberale, invece, con più sostanza. Non anarchico, qual è il liberale coerente:
costituzionale. Da qui il catechismo volgare. Per
abbattere lo Stato e i padroni ci vuole la rivoluzione. E la rivoluzione è solo
della classe operaia, che è libera dall’ideologia, di servitù e violenza.
Oc-corre dunque essere operai. Mentre da tempo la classe operaia si libera da
se stessa, non vuole essere più operaia. La rivoluzione è allora antimarxista.
O non sarà Marx un catechista, se kat-echon
è ciò che arresta? Un
teologo che si rifiuta? L’asceta che ribalta l’ascetismo, il rifiuto del mondo,
in odio di classe, cioè nella conquista del mondo.
“Una meravigliosa illusione fa sì che
l’alto volo della speranza si leghi sempre all’idea del salire, senza
riflettere che, per quanto si salga, si deve pur ricadere, per porre piede
forse in un altro mondo”, questo diceva Kant, che era alto un metro e mezzo.
Sì, Marx
è Sorel, che anche lui diceva come Keynes, “l’economia marxiana è
manchesteriana”, con proprietà, mercato e profitti. Solo che, come Machiavelli,
mette piede ricadendo sul mondo di prima – gli uomini più
interessati che cattivi sono nel “Principe”.
Marx sarà stato l’ultimo dono dell’Europa al
mondo. Heidegger, Freud, Nietzsche stesso sono dei maghi, Marx invece no, e
questo è rassicurante. Confinato al sovietismo, la vecchia agiografia, lui
critico impietoso, se n’era caricato i riti, inclusi i miracoli. Da ragazzo c’era
portato, che diciassettenne scrisse di Augusto, in latino: “Un capo assoluto e
non la libera repubblica fu capace di dare al popolo la libertà”. La chiesa
sovietica non poteva che farne il profeta di Lenin, ogni messia ha un precursore.
Ma era di Lenin il partito chiesa, che non lascia scampo.
L’abbandono dell’analisi per l’ideologia, della
critica dell’economia politica per la mistica della rivoluzione è di
Lunačarskij e Bogdanov, comprimari di Lenin. La religione è leninista. È
Lenin che ha dato alla politica il primato sull’economia e la struttura, Lenin
è il primo antimarxista. Lenin il
sarmata, che il comunismo ha trascinato fuori dalla tradizione occidentale del
dubbio. L’azione politica di Marx ha tramutato nella fabbricazione della
storia. Il marxismo come fabbrica, Marx ancora ne riderà.
Maternità – In una poesiola spersa (di Vincenzo Padula, scrittore
calabrese dell’Ottocento), una ragazza
“peccatrice e poverella” chiede “il
conforto della maternità”. La chiede a Dio, la chiede come grazia: non la
salute, il benessere, lo sposo, magari riparatore, no, vuole rifarsi con la
maternità. L’eugenetica e molto femminismo l’hanno delegittimata, ma resta al
fondo un compimento e una devozione, anche a se stessi.
Opinione pubblica – La voce pubblica è la voce di Dio secondo il
proverbio. Può essere, dipende dalla concessione che si ha di Dio. L’opinione
di Bertrand Russell., “Matrimonio e morale”, che “è molto più probabile che un
giudizio diffuso sia sciocco piuttosto che morale”, non è in contrasto cn
quella di Pascal, “L’opinione è la regina del mondo”. Che però era un credente,
e non ne aveva buona opinione. Fermo restando il precetto dell’Epitteto di Leopardi:
“Gli uomini sono agitati e turbati, non dalle cose, ma dalle opinioni che essi
hanno delle cose”.
L’opinione crea turbamento, questo
si può dire. A differenza della verità. È mestatoria.
zeulig@antiit.eu
Il giallo beffa, o beffa al giallo
Il colpevole non si può immaginare: è
presente ma non come possibile autore del misfatto. Che è una serie di
innocenti lettere anonime, in un minuscolo paesino di campagna. Non è l’ultima
delle trasgressioni dell’autore, americano trapiantato in Inghilterra, di cui
fa la parodia. A lui dobbiamo le sequele di Mr., Mrs. e Miss, a volte il solo
nome di battesimo o un diminutivo, che
tormentano gli affezionati di Barnaby: è sconveniente farli riconoscere,
dicendoli pastore, maestra, avvocato, pasticciere – molto è sconveniente in
Inghilterra. Qui fa la parodia del giallo all’inglese – “trovate il colpevole”.
Col suo Henry Merrivale che doppia Sherlock Holmes in stravaganze e
fumisterie. E della
nevrosi – con la psicoanalisi.
Carter Dickson è negli annali per aver
introdotto l’umorismo nel giallo. In forma tenue, come in questo “Vedova”, che
però sempre si ristampa. Ma più di tutto, bisogna dire, in forma di satira del
genere.
Carter Dickson, La vedova beffarda, Giallo Mondadori, pp. 242 € 4,90
martedì 11 novembre 2014
A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (225)
Giuseppe Leuzzi
“Maledetta? Come, maledetta”, si irrita Rocco,
il personaggio più derelitto e sfortunato di “Emigranti”, il romanzo della
Calabria profonda di Francesco Perri: “Ma non sai che questa è la più bella
terra del mondo? Qui abbiamo tutto, ogni bene e ogni grazia di Dio”. E al figlio
che protesta fa l’elenco, stagione per stagione, mese per mese, della natura
provvida. In successione: la lattuga, la fava, il pisello, la ciliegia, la
nespola, il fico, l’orzo, il grano, il granturco, la pera, la mela, la pesca,
il ficodindia, la mela granata e di nuovo il fico, l’uva, la noce, e la mela e
la pera invernali, poi la castagna, e “comincia l’ulivo”. Da ignorante, ma non
ha torto.
“’Cca ‘ndavimu l’aria”, ironizza invece Otello Ermanno
Profazio. Anche lui ha ragione.
Fuori la
religione, troppo pagana
Non si è fatto un riesame delle processioni,
dell’estate delle processioni proibite, ed è male. Perché la cosa non è
scontata come sembra, la processione dei mafiosi, ed è anzi sorprendente, per
più di un motivo-fatto.
I preti, che non le hanno mai amate, troppa
fatica, le hanno fatte sprofondare nel ridicolo. Un qualsiasi antropologo
protesterebbe. Anche uno storico, per esempio delle emigrazioni. Che la
processione e la festa hanno ritrovato oltre gli oceani come un fatto di autoaffermazione.
Di autotutela e identità. Un fatto positivo, del valore civile anche del fatto
religioso.
I preti non amano la religiosità “popolare”, l’incorporazione della religiosità. Che pure è stata
il sostegno dei poveri, di mezzi e di spirito, per millenni. Più e meglio delle
Caritas e delle social card per i
bisognosi con cui la sostituiscono, e mense, dormitori, case famiglie, case riposo, tutte cose opportune che tuttavia sanno di simonia mascherata,
l’intermediazione della spesa pubblica a fini sociali. Con più senso del divino
che una confessione o una fredda comunione al termine di una fredda messa. La
“religione popolare” degradando a “paganesimo”. Che non vuole dire nulla ma ha
un sentito spregiativo..
I preti celebrano ogni giorno
l’eucaristia, ma non sanno che si dicono. I canti della festa e della
processione, sguaiati è vero, non intonati, non ritmati, sono più ricchi di
fede, e anche di conforto, che i loro lunghi, secchi, sermoni. O il miracolo,
l’invocazione, l’attesa, così confinanti con la grazia. Mentre una teologia
arida s’impone, asfittica. Politica: mi
conviene di più se…. Il fatto religioso, popolare e non, semplicemente
misconoscendo: la religione, come ogni pratica mitica, è l’irrazionalità
dominata e condotta a forza. A fattore di identità e di sicurezza. Fino a che
resta un fattore identitario. Il carattere della fede misconoscendo, che non è
adesione alle regole del prete o del suo vescovo, ma pratica per ogni aspetto mitica,
dalla magia alla religione. E compresa naturalmente la ragione: bisogna avere
fede per credere nella ragione - chi non ha fede (non è capace di, non ha
voglia di) non crede in nulla.
Bisogna intendersi: se il divino è sentimento,
e partecipazione, sia pure coi denti cariati e le voci stonate, oppure fredda
preghiera, secondo le regole e le formule di un astratto concilio o di un
monsignor arcivescovo. La religione, come ogni mitologia, convive con la
ragione come fattore identitario e di sicurezza. Non tanto come fatto
irrazionale, di volta in volta invocazione o anatema del diavolo, quanto come
tradizione, tesaurizzazione di un insieme di credenze e pratiche. E come tale
dura finché si crede. La religione funziona come la ragione, fino a che e nella
misura in cui viene creduta.
Non è nemmeno difficile conciliare il rito con
la fede. Ma è vero che la chiesa non è più il rifugio dei peccatori. Delle
anime semplici. Dei poveri e poverissimi, di spirito più che di mezzi. Dei tormentati.
Degli ammalati. I preti non ce li vogliono: la chiesa vogliono sanitarizzata,
con gli orari, col tariffario.
Il mutuo
Andreina De Clementi, storica da ultimo dell’emigrazione
(“L’assalto al cielo. Donne e uomini nel’emigrazione italiana”) individua un
circolo vizioso tra “proprietà” e emigrazione. Il feudo parcellizzato ha creato
debiti, col fisco e con le banche, che si è mangiato il reddito, il poco che c’era,
quando c’era, e induceva all’emigrazione ere ricostituire il capitale. Da
reinvestire nella stessa (piccola) proprietà, fare nuovi debiti. Etc.
È possibile. Un circolo vizioso analogo è però
certo per la casa, sostituto dell’dea della proprietà. Riscontrabile da ognuno
che si avventuri in Calabria in Sicilia,
dove la scena è dominata da case, per lo più abusive, non terminate: scheletri
di casoni, colonne di tondini, terrazze senza tetto, pareti senza infissi, la
desertificazione urbana. Perché la casa dev’essere gigantesca, il “palazzo”, con
la scusa dei figli, anche se questi mai l’abiteranno. E si prende anch’essa
tutti i risparmi e induce al debito. L’emigrazione adesso non è necessaria, ci
sono i mutui. E così, nonché bruciare tutti gli averi in un progetto che non
potranno completare mai, ogni famiglia s’indebita a vita – 25-30 anni – con la
banca. Si vota cioè a una non-esistenza dovendo pagare un muto comunque esoso,
in rapporto al reddito.. Nonché alla sussistenza: non potrà mai avviare un nuovo
progetto, ampliare o affinare un’arte produttiva, moltiplicare il reddito, poiché
non disporrà più di risparmi, o altre forme di capitale utilizzabili. La casa
sessa, qualora uno volesse liberarsene, è inservibile, perché non ha mercato.
Il Sud
Goffredo Fofi ricorda nel suo “Immigrati
meridionali a Torino”, ora riedito, pubblicato nel 1975, su una ricerca svolta
ai primi dl decennio, che gli immigrati non si distinguevano o riconoscevano
come meridionali ma come siciliani o calabresi. E meglio ancora per le zone di
origine, l’agrigentino, la Piana di Gioia Tauro, il catanese. Il cartello “niente
immigrati” non faceva distinzioni, ma gli immigrati sì. Fa differenza? Sì: il fondo
non detto della comune disgrazia, il bisogno di sradicarsi per cercare un reddito,
era localizzato, ed era un fatto preciso, una particolare condizione di una particolare
comunità, in un dato momento. Non era un fato etnico né una condanna biblica.
La stessa identificazione si incontra nelle
storie dell’emigrazione. Sia nella Americhe che in Germania o in Francia. E nei
racconti di questa emigrazione, numerosi e vivaci soprattutto nella letteratura
nordamericana. Anche in quella che, dagli anni 1960, ha creato le mafie come
organizzazioni: la fedeltà è sempre localizzata, tra napoletani, tra siciliani,
tra calabresi. Il fenomeno cosiddetto della “insularizzazione” dell’emigrazione:
la comunità veniva distinta come italiana, e al suo interno si distingueva per
luogo di origine.
Il Sud, la condanna del “meridionale”, è una generalizzazione
venuta con l’unità, che ha creato i dominanti e i dominati. Torna dominante
nell’ultimo tentennio, per le pulsioni leghiste che tentano di rivitalizzare
quella dicotomia.
leuzzi@antiit.eu
La miseria è politica, che non si può dire
“Noi grazie a Dio siamo liberali in
politica e in religione, e riconosciamo non l’autorità del Re o del Papa, ma
quella del Parlamento e del Concilio”. Contrario anche all’autorità papale in
materia non di fede, con sillabi e
altri decreti. E nelle questioni filosofiche, il pantesimo, il materialismo, il
razionalismo, che sono opinabili e anzi errori, ma tutti debbono poter
discutere senza condanne: “Il papa ha fatto benissimo a condannare questi
errori”, ma “la quistione è se il Papa, come Papa, dovea condannarli, e noi
rispondiamo che no”. La ragione è perfino ovvia, ma bisogna dirla: “Il Papa,
come Papa, non è filosofo; decide in argomenti di fede, non di ragione; le
verità che si provano col raziocinio, e che col raziocinio si combattono non
gli appartengono”.
Detto oggi, sembra ancora eretico.
Detto un secolo e mezzo fa, da un prete, si direbbe blasfemo. Mentre è solo la
verità dei fatti - che la chiesa in realtà conosce anche se non riconosce
(anche da prima del sinodo che il papa ha ora aperto per l’aggiornamento).
Padula ci vedeva chiaro, dal fondo della sua remota provincia, Cosenza, dove
“frati, preti e bizzocchi, avvocati, farmacisti ed i mille ex impiegati del
cessato governo ingannano il volgo sciocco, smaltiscono frottole, inventano
accuse”. Non solo in fatto di Stato e chiesa: contro l’appropriazione della
manomorta, invece del suo utilizzo per usi e finalità di pubblico servizio, per
l’insegnamento laico, per il matrimonio civile, etc. Ma, sempre modernamente,
da contemporaneista in anticipo, contro la burocrazia e la burocratizzazione di
cui il Piemonte subito affliggeva l’Italia.
Questo “stato delle persone in
Calabria”, da cui Carlo Muscetta estrasse nel 1950 il titolo della sua
antologia del “Bruzio”, il settimanale di Vincenzo Padula, il curatore voleva
“la prima inchiesta sul Mezzogiorno dopo l’unità”. Non era avventato, ed è
vero, comparativamente, anzi, un’inchiesta più incisiva e precisa, benché
rapida, delle successive, per quanto organizzate ed elaborate. Ma isolata e
ignorata. In un certo senso dallo stesso curatore.
Il “Bruzio” Padula redasse e editò da
solo – usava: il caso più famoso sarà “Die Fackel” di Karl Kraus, da fine
Ottocento per quarant’anni, anche se nelle prime annate fu aperta a molti collaboratori
- in Cosenza per poco più di un anno,
tra il marzo 1864 e il luglio 1865. L’antologia comprende anche una diecina di
pagine tratte “Da uno zibaldone inedito”, sulle magare e sul santo Martino.
Viene ripubblicata con i testi e nell’ordine impressi da Muscetta per l’editore
Parenti – senza la sua introduzione: Capricci e bizzarrie, Cronache di Cosenza,
Stato delle persone, Storia di briganti, Le industrie e la terra.
Muscetta ritornerà su Padula con
altre antologie. Questo scrittore quindi in qualche modo sentiva suo. Ma dopo
averlo coperto di insulti e apparentamenti derisivi. Forse volendo strappare lo
scrittore a Croce, che lo aveva riscoperto e riproposto cinquant’anni prima, per
farne creatura sua, il permaloso letterato irpino lo insegue per 250
pagine - tanto era lunga la sua
introduzione alla prima edizione di questa raccolta, due terzi della raccolta
stessa – per coprirlo di improperi, acidissimo. Ne legge con attenzione tutti
gli scritti, anche inediti, e la corrispondenza, ma a ogni pagina lo minimizza
e anzi polverizza. Epigono lo dice di Parzanese (? uno di Lariano Irpino),
Betteloni Prati, Poerio, imboscato nel ’48 – quando invece fu sparato, ed ebbe
un fratello ucciso -, etc. Curiosamente incapace di apprezzarne la vena
bizzarra, satirica, scherzosa, bernesca. E la multiformità, in poesia, racconti,
teatro, prose politiche e morali, perfino teologiche, il miglior latinista su
piazza ai suoi anni – da ragazzo in seminario aveva appreso l’“Eneide” a
memoria.
Alla fine Muscetta lo diceva
“geniale e sfortunato”, ma non più che ingenuo, velleitario, al meglio
utopistico. Mentre è realistico all’estremo, e moderno, quasi un contemporaneo,
in palla e col tocco giusto su tutte o quasi le questioni irrisolte dell’unità,
la politica, il Sud, il Vaticano, la scuola, la borghesia, l’agricoltura, le
tradizioni, in una prospettiva pluralista, federalista, moltiplicativa invece
che riduttiva. “Articoli stupendi di pensiero e di forma” trovava Croce questi
stessi scritti. “La sfortuna di Padula” è il titolo dell’introduzione, quasi
una biografia letteraria, di Muscetta. E questo è vero.
Padula chiuse bruscamente il
“Bruzio” il 28 luglio 1865, alla vigilia delle elezioni, le prime vere
politiche, per non poter dire, dirà poi in una rievocazione di Antonio
Genovesi, quello che l’illustre economista stesso non aveva potuto dire un
secolo prima ma confidava all’amico Leone Cortese: “La nazione è povera, volete
sapere perché? Non dite: è la poltroneria, è il lusso, è il malcostume, è il
non esserci più fede, né privata né pubblica. Ciancie. Tutti questi mali non
sono cause, ma effetti della povertà. E donde nasce questa povertà? Non dal
suolo, non dal clima, ma dalla
costituzione politica”.
Vincenzo Padula, Persone in Calabria, Rubbettino, pp.
259 € 5,90
Montecovello,
pp. 218, € 16,90
lunedì 10 novembre 2014
Il mondo com'è (194)
astolfo
Debito – L’economia si direbbe del debito più che del mercato. Dopo trent’anni di “crisi fiscale
dello Stato”, teorizzata e combattuta da metà degli anni 1970 dallo schieramento
liberista anglosassone, lo stesso ha
richiesto e imposto nel 2007-2008 un
indebitamento colossale agli Sati, dell’ordine del venti-trenta per cento del
pil, per consolidare i mercati finanziari. L’assunzione cioè del rischio, al
limite dell’insolvenza, da parte delle finanze pubbliche.
In
alcune aree l’indebitamento ha funzionato in questo senso, nell’area del dollaro
e della sterlina. Nell’eurozona il consolidamento è sempre a rischio. Anche nel
settore bancario, malgrado gli stress test della Bce, dove le debolezze e le
quasi insolvenze, specie in Germania, restano sotto traccia o sono mascherate. Ma
ovunque l’economia è del debito più che del mercato.
Europa – Coniuga la
disintegrazione su base etnica (Jugoslavia, Ucraina, Belgio, Gran Bretagna,
Spagna) col massimo di autoritarismo centrale a Bruxelles. E con una immigrazione
extraeuropea che in pochi anni è cresciuta al dieci per cento della popolazione
e sarà al venti tra una generazione, per
prolificità, ricongiungimenti e flussi migratori. Mentre è al top, ancora,
delal classifica della ricchezza mondiale. Una quadruplice contraddizione che
non trova ragione plausibile se non quella del cupio dissolvi, del disfacimento, e della confusione, del si salvi
chi può. Che intervengono nella storia per pressioni esterne, ma in questo caso
no, sono procurati.
Marx - Il problema con Marx è che voleva eliminare il proletariato. Qui
si lotta invece per farlo trionfare. Il
proletariato, i servi cioè retribuiti. Per forza che Marx è morto. Uno che peraltro
per
primo non credeva alle “leggi” dell’economia, che sapeva falsate da autodidatta,
e della storia. E la vita spese a costituire la sua fazione, contro ogni altro
socialista e comunista prima che contro la polizia segreta prussiana.
Sapeva
riconoscere un nemico, questo sì. Per questo eresse un monumento al capitale, con
la proposta di arrestare la storia e la filosofia, l’impercettibile ma costante
mutamento attraverso cui l’uomo esce dalla sua pelle, con gli amori, il lavoro,
la generazione, la convivialità, nell’arte, canti, balli, racconti, silenzi, e negli
elementi, la terra, il legno, la pietra, il ferro. Non bisogna equivocare sul
Marx borghese, non c’è infamia nel volere il pianoforte per le figlie. Il rifiuto del ruolo, per l’uguaglianza del merito e una vita da
vivere a ogni istante, non è la realtà o la contemporaneità, e non è Europa,
semmai è America. Tutti nel mondo che Marx conosceva volevano, vorrebbero, una
moglie nobile, la ca-sa in Toscana o in Provenza, con contadino, da guardare da
lontano come il vecchio feudatario, e i ricevimenti del Gattopardo coi gelati
squagliati, il rifiuto della buona borghesia è assillo borghese, un’ideologia.
Si fa
presto a dire Marx, ma che rivoluzione ha organizzato, che partito, a parte la
rissosa Prima Internazionale, che sindacato? Bisognerà aspettare Lenin per
avere una rivoluzione marxista, di borghesi cioè con la classe operaia. I libri
e le sue innumerevoli lettere sono frammenti. Il cui filo non può essere la
struttura, cioè il potere secondo il Diamat: il lavoro produttivo è
sovrastrutturale, un qualsiasi esperto di mercato lo sa. Altrimenti è un
comunismo da schiavi: non può “realizzare l’uomo” se elimina ogni spazio
comune. Ed è la verità della sua prima rivoluzione, in Russia, paese di servi,
e non in Germania, dove c’era la più vasta e organizzata classe operaia e il
contesto era maturo, per la crisi del nazionalismo, dell’economia e
dell’imperialismo. I lavoratori tedeschi vollero anzi ridare ai borghesi il
potere che la guerra perduta aveva loro sottratto. L’astronomo olandese
Pannekoek - che ne sapeva più di Lenin, disse lo stesso Lenin - scoprì subito
pure perché: in una società integrata, che viene da lontano, egemonie e sudditanze
si legano per molti fili, culturali, storici, tribali. Non maturano solo i
processi produttivi, di più ma-turano e anzi induriscono le ideologie, e si
dovrebbe dire le psicologie.
Spesa pubblica – Ha funzione anticiclica, specie contro
le recessioni? È inutile, e anzi dannosa, specie per l’economia? Se ne dibatte
in termini quasi ideologici. I keynesiani, neo e post, i socialisti e una parte
dei liberali la dicono necessaria per stimolare la ripersa economica e
concorrere ad essa. Molti economisti, alcuni politici e gli affari la contestano
come uno spreco.
Si porta la linea Harding, il primo presidente americano liberista, e dei
successori fino al crac del 1929, come esemplare della cecità di fronte alla
funzione anticrisi della spesa pubblica. Ma lo stesso Harding, pur
proibizionista, aveva risolto col liberismo la recessione del 1920. Un anno in
cui, con la smobilitazione postbellica, il pil si era ridotto del 17 per cento e la
disoccupazione era passata dal 4 al 12 per cento. Herbert Hoover, segretario
all’Industria di Harding, preparò una serie di misure di stimolo. Harding le
scartò e tagliò il bilancio federale di quasi la metà. Con riduzioni delle aliquote
fiscali per tutte le fasce di reddito, e la riduzione del debito pubblico. Col
supporto indiretto della Federal Reserve, che non incrementò l’offerta di moneta.
Pochi mesi dopo l’economia era in ripresa. Nel 1922 la disoccupazione si era
dimezzata, nel 1923 era scesa a un minimo del 2,3 per cento. Il vice di Harding,
Coolidge, e suo successore quello stesso anno, alla morte improvvisa di Harding,
accentuò la defiscalizzazione, il rimborso del debito, la riduzione della spesa.
Hoover succederà a Coolidge a fine 1928, in tempo per “ereditare” il crac del
1929. Che solitamente viene imputato alle politiche di Harding e Coolidge, alla
redistribuzione del reddito che il liberismo aveva operato a favore dei ricchi
con una maggiore concentrazione della ricchezza. Ma in realtà il crac del 1929 arrivò al culmine di un trend al rialzo di salari e retribuzioni,
pro capite e come quota del reddito nazionale, e di un trend
al ribasso per la quota del reddito che andava a interessi, dividendi, redditi
da impresa.
Una sorta di linea Harding-Coolidge si imputa ai governi di Angela Merkel, che terrebbe l’Europa in scacco imponendo la contrazione della spesa pubblica. Un’accusa inconsistente politicamente, dato che i governi Merkel sono di centro-sinistra il primo, di centro-destra il secondo, e ora di nuovo di centro-sinistra, con i socialdemocratici ferventi keynesiani, sostenitori della spesa pubblica. Il caso Merkel, che è politico e non economico, di ricetta economica, impone semmai un affinamento delle opposte linee in riguardo della spesa pubblica - anch’essa per sua natura un fatto politico. Su due punti: 1) Merkel ha imposto il rigore nella spesa pubblica, ma non in Germania, e ha beneficiato semmai del rigore altrui per ridurre il costo del finanziamento della spesa èubblica tedesca per interessi, mentre dilata la spesa sociale e produttiva; 2) Merkel non ha contestato la spesa pubblica in favore di liberismo totale, per esempio in Grecia, ma l’ha ridotto e centellinata, rendendola esosa più che liberatoria – il “troppo poco, troppo tardi” che le si imputa in Germania non è divisa da intendere più, dopo tanti anni e tanti governi, come un dato caratteriale quanto come una strategia politica. Fermo restando il potere di condizionamento politico della cancelliera, in Germania e in Europa.
Una sorta di linea Harding-Coolidge si imputa ai governi di Angela Merkel, che terrebbe l’Europa in scacco imponendo la contrazione della spesa pubblica. Un’accusa inconsistente politicamente, dato che i governi Merkel sono di centro-sinistra il primo, di centro-destra il secondo, e ora di nuovo di centro-sinistra, con i socialdemocratici ferventi keynesiani, sostenitori della spesa pubblica. Il caso Merkel, che è politico e non economico, di ricetta economica, impone semmai un affinamento delle opposte linee in riguardo della spesa pubblica - anch’essa per sua natura un fatto politico. Su due punti: 1) Merkel ha imposto il rigore nella spesa pubblica, ma non in Germania, e ha beneficiato semmai del rigore altrui per ridurre il costo del finanziamento della spesa èubblica tedesca per interessi, mentre dilata la spesa sociale e produttiva; 2) Merkel non ha contestato la spesa pubblica in favore di liberismo totale, per esempio in Grecia, ma l’ha ridotto e centellinata, rendendola esosa più che liberatoria – il “troppo poco, troppo tardi” che le si imputa in Germania non è divisa da intendere più, dopo tanti anni e tanti governi, come un dato caratteriale quanto come una strategia politica. Fermo restando il potere di condizionamento politico della cancelliera, in Germania e in Europa.
atstolfo@antiit.eu
Ma chi sono i russi?
“Ai russi piacciono le donne grasse”. L’informazione
è d’uso nel mercato dell’arte russa, in particolare del pittore Kustodiev, e
anche nella storia russa, della cultura. Kustodiev vi si rassegnava volendo. rappresentare
la Russia secondo il punto di vista dei russi, lui ponendosi russo-non-russo. Una
distanziazione che c’era prima della rivoluzione, quando i russi-europei parlavano
francese, ed è rimasta dopo. C’è in Blok, “Il popolo e l’intelligencija”.
Colombo la ritraccia analizzando il rapporto Kustodiev,Zamjatin, Leskov. E
permane evidentemente dopo la caduta del bolscevismo, la svalofilia di sicuri
europei, da Solženicyn a Dugin, non essendo riuscita a farsi accettare.
La “Russia” è il popolo. Nel grande
romanzo russo i servi e la campagna. Poi le “masse” bolsceviche, per un fatto
di lingua più che di usi e credenze. Oggi gli elettori di Putin, la chiesa
ortodossa, gli alcolisti, etc. L’intelligencija, che comprende chi ha studiato,
e\o viaggia, e\o parla le lingue, se ne chiama fuori. “Ai russi, sembra dire
Kustodiev, le donne piacciono grasse. I russi sono l’altro popolo, distinto dai
russo-europei”, Colombo conclude con superbo under statement.
Kustodiev, che negli autoritratti si
direbbe il prototipo del russo delle steppe (quindi di una terza Russia?), “sembra
dirlo” con una punta ironica. Ma non propriamente, ha premesso Colombo: “L’artista
non si identifica con il loro punto di vista”, dei russi-russi, “né lo
satireggia apertamente. Ne è senza dubbio affascinato, e molto probabilmente
spaventato”. Pper il processo d’immedesimazione-distanziazione che va sotto il
nome di skaz, di discorso diretto-indiretto
che Gogol’ esemplifica nel “Cappotto” e che si vuole “tipico” della narratività
russa. Che contagia anche l’intelligencija quando, direbbe Moravia, “va verso
il popolo”.
La paura che l’Occidente agita dei russi
è quella della loro intelligencija? Una sorta di odio-di-sé.
Duccio Colombo, Ma chi sono i russi?, pp. 213-228 ill. - in Cristiano Diddi-Daniela
Rizzi (a cura di), “Europa Orientalis”, speciale “Paralleli: studi di letteratura
e cultura russa per Antonella D’Amelia”, pp. 576 s.i.p.
domenica 9 novembre 2014
Ombre - 243
Perché no la corsa delle bighe al Circo
Massimo? Questo sito la proponeva l’altra settimana per ridere. E invece no:
Pallotta ci vuole fare le partite della Roma. E nessuno ride.
Draghi dice che la Bce comprerà titoli di
Stato, libererà gli investimenti pubblici, rilancerà l’economia europea, la
sola in crisi da sette anni ormai. Un giorno dopo, un’ora dopo, Weidmann dice
che no. L’ha detto il 10 settembre, il 10 ottobre, e questo mese ha anticipato al
9. È regolare, non si può dire. E ha ragione.
Non da ora. Sono quasi tre anni che
Draghi lo dice, e Weidmann dice di no.
Crocetta silura a Siracusa i dirigenti
dei Beni Culturali che si oppongono alla speculazione immobiliare in ambiente
protetto. Silenzio.
Il triveneto Gian Antonio Stella ci
scrive sopra una pagina senza nominarlo mai. Dunque l’omertà non è solo
siciliana.
Tutti guariti all’Inter, anche i
lungodegenti, per la partita di Europa League. Dove ci sono le tv e si fa il
mercato.
Viene a Roma il primo ministro
finlandese e ci fa la ramanzina: dovete “fare le riforme”. Poi dice che il suo
paese è dal 2007 che non fa le riforme. Nessuna reazione degli intervistatori,
nemmeno un “oh!” di sorpresa.
Prima di questo primo ministro, Helsinki
ne aveva uno di nome Katainen. Il quale si è dimesso per andare a Bruxelles e
fare ogni giorno la lezione all’Italia. Di cui si dice innamorato. Questa
Europa, se non ci fosse, sarebbe difficile inventarla..
Si distrugge Bellavista Caltagirone, la
persona e le aziende, per colpire Scajola. Ora che Scajola è sotto tiro a
Reggio Calabria, Bellavista Caltagirone è scagionato. Senza più imprese e con
qualche anno di carcere. Tutto regolare.
E anche il processo di Reggio che si ritarda: non è che dovranno scarcerare Scajola, che poi ci toccherà rimborsare?
E anche il processo di Reggio che si ritarda: non è che dovranno scarcerare Scajola, che poi ci toccherà rimborsare?
Ferdinando Esposito è un giudice
corrotto. Non ci sono dubbi. Ma non si può dire, e nessuno fa nulla contro di
lui, perché suo padre condannò Berlusconi.
Esposito, napoletano, è giudice a
Milano, nella stessa Procura di cui è a capo Bruti Liberati. Napoletano non
morde napoletano?
Per il venticinquennale del crollo del Muro,
la Germania si riscopre mezza comunista. Ma senza i russi? Poi non potranno
dire che non erano comunisti.
“Il petrolio crolla sotto i 79 dollari a
barile”. Che disgrazia.
Ignoranza? Sudditanza?
I costruttori romani denunciano
all’Autorità anticorruzione, del giudice Cantone, il sindaco e il comune di
Roma. Il mondo va ‘narreri, direbbe il poeta siciliano Tempio. Ma non per
ridere: i costruttori denunciano “le continue proroghe ai bandi di manutenzione
stradale”. In attesa dei quali venti milioni sono stati spesi in un anno, per
“fare le buche”.
Prima dell’esposto al giudice Cantone
l’Acer ha chiesto un incontro al sindaco di Roma Marino. Che glielo ha fissato
a trenta giorni, prima non poteva.
Ci spingono da tutte le parti alla
guerra alla Russia. La Russia è asiatica, la Russia è selvaggia, la Russia non
è Europa. Poi succede di andare nella stessa giornata a due convegni, uno di
slavisti e uno di germanisti. Trovando nell’uno russi ben vestiti, ben
pettinati, non atteggiati, dall’italiano scorrevole, e nell’altro la caricatura
del tedesco, brusco, senza disinvoltura, quasi meccanico nelle reazioni e nei
gesti. Che pensarne?
Si fanno esami rigidissimi alle banche
europee, che hanno attivi per 23 mila miliardi. D cui la metà la severissima
Bce decide che sono a rischio. Mentre marcia indisturbata, senza alcuna regola
e alcun vincolo, la finanza ombra, shadow
banking, di fondi di varia natura, finanziarie etc.. Che muove quasi altrettanto,
19 mila miliardi. Solo nell’eurozona – a livello mondiale lo muove tre volte
tanto, 60 mila miliardi. Non è stupidità, è la libertà degli affari.
Il romanzo della natura
Pubblicato nel 1928 e quindi inviso al
fascismo, ma “segato” pure da Gramsci nei “Quaderni” - forse faziosamente - e quindi inviso al
secondo Novecento, è una delle poche opere del secolo breve che reggono alla rilettura.
Tratta anche dell’emigrazione, ma poco, per far maturare gli eventi che
compongono la trama.
È una storia locale, di una comunità
chiusa, ma nient’affatto provinciale. Ariosa anzi, e piena di vita, pur in
mezzo alla povertà, la malattia e la morte. È un racconto unico di vita
contadina. Con una eccezionale, ineguagliata che si ricordi, capacità di far
parlare la natura. Rende vivi e partecipi la terra, gli ulivi, le querce, le
albe, le notti, la rugiada, la pioggia, i venti, le stagioni, la sporcizia
anche e il fango, i frutti, ogni
ortaggio, e all’ora e alla stagione giusta i cardellini, le capinere, l’assiolo,
i tordi, i fringuelli, ogni filo d’erba, ogni goccia d’acqua. Rileggendolo in
questo mezzo autunno di temporali, o bombe d’acqua come si vogliono, tutti i
fenomeni che oggi ingombrano l’informazione come di evento eccezionale si
trovano previsti e descritti in dettaglio in questo che pure è un romanzo, di
quasi un secolo fa, di una piccola e arretrata comunità rurale.
Con la natura si esaltano i destini
della gente che la vive senza storia. Che la vive però intensamente sempre e anche
drammaticamente, alla nascita, alla morte, negli attimi rubati al piacere. Senza
soccombere: i suoi innominati sono legati alla vita, alle abitudini, agli
affetti anche, e alla fede, che è, come deve essere, cieca e assoluta, e ogni
ostacolo soverchia.
Vicino anagraficamente e geograficamente
di Corrado Alvaro - “Pandore”, il luogo del racconto, è Careri, paese natio dell’autore,
sotto il monte Pandore, a pochi minuti da San Luca, il paese di Alvaro - Perri ricrea i suoi luoghi con altrettanta
verità, ma in tutt’altra temperie. Di vita nella morte. Nella fede. Nella procreazione
pure. Nel bicchiere di vino. E nella disgrazia: la bufera, la frana, l’emigrazione.
Senza diventare stereotipi, né i personaggi né le situazioni. Pieni di umori
sempre, vogliosi, reattivi. Tutti caratterizzati e in divenire, seppure su
fondo arcaico.
Un altro Aspromonte, negli stessi
luoghi, paesi, anditi, e con le stesse persone di Corrado Alvaro. Due anni prima di “Gente in Aspromonte”, con
cui Alvaro ne fisserà invece la leggenda nera. Sempre rimanendone angustiato,
se non disgustato, malgrado i vincoli familiari. L’ostracismo a Perri e i suoi “Emigranti”
è per questo due volte censurabile. Che lo stesso San Luca, le sue donne, sa
far rivivere come un altro mondo, la loro parlata trovando armoniosa e
musicale, i loro abiti sgargianti una gioia dell’occhio, i loro sguardi
sfuggenti una sfida. Un mondo dove c’è umanità, e non per obbligo di fede
politica.
La lettura superficialissima di Gramsci
si ferma all’iniziale occupazione delle terre. Di cui non ha colto la natura sinfonica,
introduttiva: a un mondo povero perché incolto, e viceversa, ma non di
intelligenza, e di una sua etica. Dominata dalla fede, cioè da una volontà invincibile,
a qualsiasi avversità. Come poi sarà in questo “romanzo dei poveri”. Non un
romanzo sociale, né politico, se non per poche pagine, stinte per di più nella
storia, la lunga durata. La sottile parodia che sottende l’abborracciata
occupazione è perfino brechtiana in anticipo, una presa di distanza per meglio
mettere a fuoco il chiuso mondo di Pandore. Che si piegherà all’emigrazione, ma
controvoglia e quasi contro natura, per restarne subito contaminato e infetto.
Francesco Perri, Emigranti, Qualecultura-Jaca Book, pp. 248 € 14,50