Giuseppe
Leuzzi
La mafia dei Parioli
Nell’operazione
Roma Mafia si confondono i ruoli. Per primo quello tra cittadini e malfattori.
La
mafia, ognuno lo vede, è negli uffici capitolini, dove i concussori e i corruttori
sono diffusi. Non con la violenza, ma col potere di decidere della spesa
pubblica – la spesa sociale, che lo Stato (amministrazione centrale, Regioni,
Comuni) non sa gestire in proprio e dà in appalto: immigrati,
tossicodipendenti, rom, senzatetto, ex carcerati, carcerati, malati psichici. È
per loro che, fra le tante, la cooperativa 29 giugno è stata fondata da Di
Liegro (Caritas) e Laura Ingrao, col doppio obiettivo di assistere i deboli e
reinserire al lavoro i detenuti. Ma non c’è altro criterio per l’appalto
pubblico, anche piccolo e piccolissimo, che le “utilità”: tangenti, regali,
comodati, assunzioni. Gli ex carcerati che sanno come barcamenarsi in questa
mafia, indenni e anzi con qualche vantaggio, sarebbero da considerare
imprenditori capaci.
È
invalso invece l’uso sbirresco di confondere i ruoli: le vittime di mafia
trasformare in concorrenti esterni e perfino associati, comunque farne dei
mafiosi. È una confusione che viene comoda agli inquirenti, sia agenti che
giudici, per accrescere i volumi. Più persone si denunziano maggiore sarebbe
l’efficienza dei militari. Più si estende il volume degli affari inquisiti,
migliore è la tardiva opportunistica coscienza classista dei Procuratori – che
rischiano ora però di non diventare senatori: è per questo che ce l’hanno con
Renzi?
Confusa
anch’essa, ma solo in apparenza, è la ricezione. Non tanto tra fascisti e no,
come dicono i giornali, che invece non esiste. Ma tra indignati e apatici, o
perplessi. Vivace ai Parioli, indifferente nelle periferie, che normalmente
sono il teatro delle turpi gesta, e nella città di mezzo. Risentita è
l’indignazione ai Parioli dove tutti i protagonisti vivono e bazzicano:
corrotti, croniste giudiziarie, direttori dei giornali, avvocati, ufficiali dei
Carabinieri, e gli stessi ex carcerati che si vogliono protagonisti del
malaffare. Nelle radio, in tv e sui giornali, con dichiarazioni e lettere.
Nessuno si sente invece defraudato nelle periferie, dove non c’è la buona
coscienza da inalberare, e anzi i collettori facevano affluire belle risorse,
con le famose cooperative, in salari, servizi, forniture.
Una
parentesi è utile. Andreotti vinse le politiche del 1983 anche a Roma, città
governata da sindaci comunisti popolarissimi presso i media, Petroselli e
Vetere, e poi anche le comunali del 1985, con le cooperative. Aveva favorito
l’insediamento nella capitale (università, ospedali) delle cooperative di
servizi della Compagnia delle Opere di Comunione e Liberazione, per crearsi una
base partitica anche a Nord. Il suo fidato Sbardella le introdusse poi nelle
periferie, per “dare lavoro” come diceva orgoglioso, e lì vinse le elezioni: le
urne delle sezioni elettorali si aprirono con grande sorpresa. La Lega delle
cooperative tentò successivamente il recupero aprendosi agli emarginati: ex
carcerati, tossicodipendenti, ragazze
madri, gli ultimi delle allora liste di collocamento.
La
confusione è solo apparente perché da un venticinquennio, dalla prima giunta
Rutelli, l’unica forma di impegno politico che si pratica, a sinistra a Roma, è
il benpensantismo. Dei Parioli, perché è lì che vive e prospera il partito
degli Architetti e degli Ingeneri, che ora si scontra con quello povero degli
ex carcerati, concorrenti per gli appalti pubblici. Il problema reale è: chi ha
defraudato i Parioli e di che.
L’indignazione
per questo è grande. Con la voluttà di dirsi antifascisti, ai Parioli, contro i
proletari della Lega delle cooperative. E contro i ladri, anche se segretari di
Veltroni e onorevoli del Pd.
La
processione
In una delle lettere al domenicano padre
Perrin, una sorta di padre spirituale dei suoi ultimi mesi, nel 1942, a guerra
perduta, e con essa la speranza, Simone Weil si consola col ricordo delle prime
“esperienze” religiose, di contatto col cristianesimo. La prima fu una
processione di paese, uno qualunque che non nomina, nel corso di una vacanza
coi genitori in Portogallo nel 1935:
“Era al bordo del mare. Le donne dei pescatori facevano il giro delle
barche, in processione, portando dei ceri, e cantavano dei canti certamente
molto antichi, di una tristezza straziante”.
La conclusione non è edificante - non lo
sembra: “Là ho avuto d’improvviso la certezza che il cristianesimo è per
eccellenza la religione degli schiavi, che degli schiavi non possono non
aderirvi, e io tra gli altri”. Ma è solo un modo di dire, della religione come
la intendeva la filosofa – del Cristo come servitore. I vescovi che le hanno
proibite hanno confuso il tipo di servitù?
Sicilia
È stata
a lungo luogo di piaceri, e lo è tuttora. A lungo di piaceri anche proibiti, a
Taormina e altrove. Nadia Fusini lo documenta su “Repubblica” giovedì,
pubblicando una lettera finora inedita di Wilde all’amico e complice Robert
Ross - il “San Roberto tentatore” dello scrittore, che da lui fresco diciassettenne
era stato indotto a provare a trentadue anni i piaceri omosessuali. Wilde è
reduce dal carcere, dopo la condanna per sodomia, e in teoria impoverito, ma a
Palermo è felice spendaccione: riempie di mance i ragazzini che gli fanno da
vetturino, e un seminarista quindicenne, che sorprende “ogni giorno” dietro
l’altare maggiore.
È
tuttora luogo di molti piaceri: della cucina, dei dolci, dell’accoglienza, da
qualche anno anche dei vini, che non sapeva di avere. Dei mari e dei monti.
Della protezione e dell’uso dei beni culturali. Ma più di tutto ama parlare male
di se stessa. È pettegola? È forse per questo che si trova bene a Milano.
Oscar Wilde le attribuisce la commedia (“Il
ritratto di Mr.W.H.”): “Il riso leggero della Commedia, con la sua gaiezza
spensierata e le sue repliche vivaci, non è nato sulle labbra dei vignaiuoli
siciliani?”
Il senatore Schifani a Palermo è scagionato dai
giudici e dalla stessa Procura inquirente, dopo quindici anni, da ogni sospetto
di mafia. Senza scuse.
La lotta è sempre furibonda, da quarant’anni
almeno, per la poltrona di Procuratore Capo a Palermo. Che pure dovrebbe essere
una posizione rischiosa.
43 su 90 deputati alla Regione Sicilia hanno
già cambiato casacca, a due anni dalle elezioni, un paio fino a quattro volte
nei due anni. Tutti convergono verso il presidente della Regione Crocetta.
Nella precedente legislatura avevano cambiato
casacca 34 deputati su 90, in cinque anni. C’è un progresso.
La filosofa Pina “Giusi” Furnari, insediata a
fine aprile, manda subito la Finanza nella villa al mare di Maria Rita
Sgarlata. Anna Rosa Corsello smonta tra i lazzi il Piano Giovani di Nelli
Scilabra. Sono tutte assessori dell’innocente – è gay – Crocetta in Sicilia.
L’unico uomo nella tenzone, il presidente della
Commissione Formazione Marcello Greco, sviene.
Giusi Furnari, assessore ai Beni Culturali e
all’Identità Siciliana (sic!), è sotto accusa da parte di Marika Cirone Di
Marco perché vuole mettere alle Soprintendenze architetti in qualche modo
familiari. Marika Cirone Di Marco non è assessore, ma deputato regionale del
Pd, il partito della filosofa, e presidente regionale di Legambiente.
Nelli Scilabra, assessore alla Formazione di
Croce-Crocetta, è studentessa fuori corso a 31 anni. Le donne al potere
meriterebbero un Aristofane.
Sono tutte belle donne, Scilabra, Furnari,
Sgarlata eccetera, ma perché la Sicilia si vuole maschilista? Oppure sì, è
vero?
Geraldine Ferraro nel 1983 maturò l’idea di
candidarsi alla vicepresidenza degli Stati Uniti l’anno successivo in ticket col candidato democratico di
sinistra Walter Mondale. Subito un investigatore fu inviato dal partito
Democratico a Messina e sui Peloritani, per cercare tra i parenti di Geraldine
un qualche mafioso. La famiglia di Geraldine risultava originaria di
Marcianise, in provincia di Caserta, ma un suo parente prossimo, pare uno zio,
forse materno, risultava essere o essere stato nel messinese. O così si
premurava di far sapere l’investigatore subito mandato dagli Usa, anche alla
“Gazzetta del Sud”, il quotidiano locale: l’amerikano non si nascondeva, e anzi
si premurò di far sapere che era lì per quello.
Non ebbe da faticare, la lauta parcella anzi se
la guadagnò con gaudio: tutti furono felici di raccontargli che Geraldine aveva
un zio pregiudicato. Che lei non ne sapesse l’esistenza non voleva dire nulla.
Una lezione per i Carabinieri, che sempre lamentano l’omertà.
L’investigatore anti-Ferraro voleva “sapere”
tutto, a prescindere dal fatto che lo zio ci fosse, o ci fosse una parentela
riconosciuta. Aveva il compito d’indagare, disse, su tutto: sulla cartella
penale ma anche sulle cartelle fiscali, su quelle mediche, se l’uomo non aveva
barato con le assicurazioni o la sicurezza sociale, se aveva pagato i
contributi delle sue colf e baby-sitter, etc. Costruiva con elementi sicuri un
colpevole. Di cui gli sarebbe rimasto da provare – se necessario (non lo fu, il
ticket Mondale-Ferraro si scontrò male col Reagan bis) - un qualche legame
familiare con la vice-presidente candidata.
È un metodo più serio o meno serio delle intercettazioni?
Benché sia dichiaratamente di parte, e non a fini di giustizia, è una
metodologia più seria, e quindi più equa. È basata su dati di fatto. Mentre le
intercettazioni sono la vecchia berlina, il ludibrio.
ata su dati di fatto. Mentre le
intercettazioni sono la vecchia berlina, il ludibrio.
leuzzi@antiit.eu