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sabato 3 gennaio 2015

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (231)

Giuseppe Leuzzi

“Dal 2014 al 2020”, dice Renzi a un Alan Friedman ammirato, che per questo ha riedito il suo fortunato “Ammazziamo il Gattopardo” con due nuovi capitoli, “l’Italia ha meno denari europei, siamo passati da 99 miliardi a 58 miliardi. Ma sono 58 miliardi di euro. Possiamo rifare il Paese con 58 miliardi. Pensi soltanto quello che possiamo fare al Sud”.
Seminarli, per esempio? In effetti, anche Renzi ci “giobba” - mena il can per l’aia in toscano. Ammesso che sappia dov’è il Sud, là sotto Roma.

Dijana Pavlovic, rom di Serbia milanesizzata, attrice e attivista rom, racconta a Vittorio Zincone su “Sette” il 12 dicembre: Qualche tempo fa ero a Lugano, in Svizzera, e sono stata derubata. La polizia mi ha detto: «Saranno stati gli italiani!»”. C’è sempre uno più a Nord.

La scoperta del Sud
Tim Parks, dopo trent’anni a Verona, è andato al Sud, dovendo completare un suo opus sui viaggi in treno, “Coincidenze”. Ora ci vuole tornare, spiega a Michele Neri in un’intervista su “Sette” del 19 dicembre. Quel viaggio è stata una sorpresa, anche se lo scrittore inglese è uno che legge molto. “Ora vorrei passare più tempo al Sud”, confida, “per poi scriverne in modo diverso da ciò che si trova in giro”.
Non sa ancora che, ma sa che il Sud non è quello “che si trova in giro”. In particolare, vuole che sia “più interessante dei ritratti di Saviano, in cui tutto appare corrotto”.
Le prime impressioni che gli hanno fatto cambiare idea non sono trascendentali. La tendine arancione dei trenini del Sud Est salentino, la signora grassoccia nello scompartimento che dice: “Dopo Napoli, il silenzio”, e intende la mancanza di annunci sul treno – “Siamo abbandonati”. Basta poco, in effetti.

La superiorità viene dall’uguaglianza
Il Nord è passato dalla barbarie alla superiorità sul Sud grazie al sentimento ugualitario. Alla primissima redazione del politicamente corretto, per cui la barbarie è uguale alla civiltà, e così via.
Il Nord è sempre stato selvaggio, ma questo non vuol dire: selvaggio e civilizzato pari sono. E non c’è soltanto la civiltà: di abiti, modi, linguaggi, convenevoli più o meno ammanierati: il Nord è passato attraverso il livellamento (indifferenza, relativismo) culturale da una condizione minoritaria a una di superiorità sul Sud anche in fatto di cucina, di storia, di arti applicate, e di pedagogia-psicologia o stili di vita – la Grecia non può essere stata filosofica, o altrimenti lo fu perché era tedesca, etc.
Sorprendente fu quarant’anni fa, dovendo trattare una campagna pubblicitaria in Norvegia di una grande azienda italiana, la scoperta nel Pigorini di Oslo che la famiglia norvegese, a fine Ottocento-primi Novecento, viveva in una stanza, su palafitte. Dopo un viaggio nell’oltremondo. Si va, si andava, a Oslo in aereo via Stoccolma, nell’incolore bergmaniano dei pensieri incomunicati: i signori saggi, le signorine con la pipa. A Stoccolma salivano giganti i norvegesi, camicioni a scacchi, la parlata ch’è un urlo, e lo stesso solido aereo della Sas prendeva a crocchiare. Tutto era bello grosso pure al Parco delle sculture, dove non si capisce se si tengono o si prendono, Vigeland lo innalza possente - forse ubriaco della Roma millenaria di Mussolini, il cugino del re. Navi in forma di barche e case minute ne dicono, ne dicevano, la storia al museo: ripari di legno, su palafitte, che il ghiaccio indurisce come ferro, a distanza dalla riva, per proteggersi dai fulmini e gli incendi che i boschi attirano, un ambiente unico giorno e notte, maschi e femmine, genitori e figli, per letto la famosa panca di legno dove dormire seduti, le ginocchia al petto per tenere il calore. È, era, la durezza dell’innocenza – ai tempi di Olao Magno vivevano nelle caverne: si capisce al contrasto con gli svedesi, gente di corte e presbitero.
Negli anni 1970 la cosa era dimenticata, e anzi l’agenzia pubblicitaria che doveva curare la campagna cassò dai messaggi ogni accenno all’italianità dell’azienda: “Deporrebbe a sfavore”. Si trattava di un investimento in tecnologia, si proponeva di evocare in qualche modo Leonardo, Galileo.

Si può dire anche la superiorità del Nord un fatto fisico. Il Nord è la stirpe di Dumézil e Marc Bloch, razza di guerrieri, giovane, virile – ma gli altri, che sono essi pure guerrieri, sarebbero signorine? Già il barone Evola, teorico delle razze, sostenne la superiorità del tipo “romano-nordico” sul “romano-mediterraneo”, facendo incazzare Mussolini. Di recente la signora Savitri Devi, teorica dell’animalismo, ha riportato in vita gli “ariani”, sostenendone l’origine polare  – gli “ariani” dunque esistono, sono gli eschimesi? Savitri Devi è in continuità con Alfred Rosenberg, dottore, professore e ministro ai lager, e la sua “comunità di destino” nordica. Ma già Machiavelli il Nord popolava di dei, dove è “residuo di libertà e antiche virtù”, quei popoli non avendo potuto “pigliare i costumi di francesi, spagnoli, italiani, le quali nazioni sono la corruttela del mondo”. In quello che fu il posto delle utopie.

A lungo fu il Nord posto di utopie, la mitica Thule scoperta da Pitea di Marsiglia, gli Iperborei, gli Atlantidi, ma in quanto non luogo.
La tramontana è certo meglio dello scirocco, il vento di borea, aquilone. E il Nord si approssima col viso alzato: eretto, petto in fuori. Con l’agonismo contro il tempo, nel sistema logico che privilegia il progresso, la novità. Ma attraverso le forme espressive dell’autoconvincimento: il giornalismo, la pubblicità, e l’esicasmo, la ritualità per automatismo. È la convinzione che fa la consistenza. È l’affermazione di sé, il Nord identifica in questo l’Occidente – che non va tanto a Ovest quanto a Nord, non ce n’è molto nel Brasile, né in Nord Africa. Quando l’Occidente era in espansione. Una qualsiasi squinzia delle periferie britanniche, sformata, ignorante, le unghie sporche, diventava signora nell’India opulenta o in East Africa.
Benché squinzia ponga un problema: essendo escuinca all’origine, messicano per ragazza sguaiata, bambinaccia, come ha fatto a penetrare il romanesco, c’è un Occidente retrogrado?

Il Sud si è fermato a Eboli
Forte capacità di trasfigurazione (creazione, cristallizzazione) aveva Carlo Levi, scrittore solido anche alla rilettura, dopo settanta-ottanta anni. Ferruccio Parri è quello dell’“Orologio”, ostaggio rassegnato dei suoi angeli custodi De Gasperi e Togliatti, in teoria solo ministri di un governo da lui presieduto. Lo stesso per il Sud: è il Sud di Carlo Levi. Era povero ma non fuori dal mondo, dove  “Cristo s’è fermato a Eboli” l’ha messo e tuttora si trova. Eboli poi in particolare, che ha, e aveva, una “marina”, e dove Mussolini si era recato in visita - ne scrive ammirato Pirandello da New York al figlio Fausto nel 1935: “Ho visto una recente fotografia del Duce nell’atto di parlare a Eboli: m’è parso il Davide del Bernini”. Diverso certo, ma il diverso non dovrebbe imporre rispetto?
Pavese, che non era un politico, non avrà vissuto a Brancaleone una realtà migliore che in Lucania. Ma ne rispettava la diversità, nella mitologia, l’esposizione, la luce, i silenzi, lo stesso isolamento - Brancaleone dà la sensazione di essere spinti e isolati in mare aperto, nella solitudine, l’orizzonte vi è quasi circolare – intuendone le non disprezzabili radici.

leuzzi@antiit.eu

Il papa non è Francesco

Il papa in cattedra non è il Francesco della tradizione. Anzi, non si capisce nemmeno come ci sia arrivato, in cattedra. Per non dire della diarchia, di due papi, cosa inaudita e ora contestata dai canonisti. Ce n’è abbastanza per suscitare scandalo, quello che Socci cerca.
l secondo papa, Francesco, fu eletto peraltro contro le procedure, e questo non è ammesso: fu fatta una quinta votazione, la sera della elezione, contro il precetto, non modificabile, al conclave di tenerne al massimo quattro al giorno, due la mattina e due la sera. Per documentarlo, a maggiore scandalo, Socci si rifà alle indiscrezioni di Elisabetta Piqué, vaticanista argentina biografa del papa e sua referente.
Per ogni cosa oscura c’è una spiegazione. Ci sono due papi perché uno si è dimesso, di sua volontà, senza alcuna costrizione. Chi ha eletto il papa sono i cardinali sudamericani, l’honduregno Madariaga e i brasiliani. Che l’avevano già candidato al conclave del 2005, ma lui si era autoescluso. La quinta votazione fu pro forma, perché la quarta del giorno, nella quale Bergoglio era stato già eletto, si dovette ripetere per un vizio di fatto: un bollettino di voto, bianco, era rimasto attaccato a uno valido. Quanto a san Francesco, è vero che non fu papa, ma anche lui visse un’epoca di forte travaglio della chiesa.
È però pure vero che nella chiesa c’è sconcerto. E che nessun papa era stato così contestato all’interno come Francesco, nemmeno il papa del Concilio, Paolo VI. Per una guida debole e confusa. Non tanto per le telefonate e i dialoghi a sensazione con atei strafottenti, o per il populismo della residenza a Santa Marte, che è in realtà un “residence” papale, più grande – e più difficile da mantenere – dell’appartamento pontificio. L’insoddisfazione, ad appena un anno e mezzo di pontificato, si coagula su fatti di sostanza. L’incapacità di reagire alla persecuzione dichiarata dei cristiani nel Medio Oriente e in Africa. Il rovesciamento della dottrina e la morale antirelativistica dei predecessori, Benedetto XVI e Giovanni Paolo II, che gli vale da qualche tempo le critiche pubbliche della chiesa nordamericana, e i mugugni di alcuni italiani, compreso il cardinale Bagnasco. La nomina, fuori da ogni costituzione, di un consiglio ristretto di consulenti, personalissimo – peraltro gestito dallo stesso cardinale Madariaga.
Antonio Socci, Non è Francesco. La chiesa nella grande tempesta, Mondadori, pp. 282 € 18

venerdì 2 gennaio 2015

Letture - 198

letterautore

Decadenza – Yourcenar la presagiva già nel 1929, giovane, dopo la prima grande guerra. Si poteva dire allora nel tempo. Meglio la dirà dopo la seconda guerra, nel 1958, ne “I volti della storia nella «Historia Augusta»”, pubblicato nel 1962 nella raccolta di saggi “Con beneficio d’inventario”. Ma a Roma la trova dopo meno di due secoli d’impero, a partire dall’assassinio di Cesare. E tre secoli e mezzo prima del crollo dell’impero stesso. Per effetto, soprattutto, della mediocrità degli storici della “Historia Augusta”. La decadenza è letteraria prima che reale: è lo spirito della crisi che determina la crisi?
La gloria di Roma peraltro Yourcenar, che pure era studiosa della classicità, attribuisce a “un piccolo numero di storici romani (e a un paio di storici greci)”, Plutarco, Tacito, Svetonio. Che si sarebbero inventato tutto?
Ma nell’insieme la decadenza è “problematica”: si nasconde, si ferma. “Niente di più complesso della curva di una decadenza”, scrive Yourcenar, ci sono degli alti e bassi: “Il regno di Adriano è ancora un vertice, quello del lamentabile Carino non è una fine”, quando la “Historia Augusta” si ferma. In realtà la decadenza non è una curva, la teoria dei cicli non la contempla, pur lavorando sui  trend: è un fatto, che a un certo punto si produce, magari se non si affronta. Quanto a Roma, Yourcenar prosegue imperturbata: “All’epoca in cui la «Historia Augusta» si ferma su Carino, Diocleziano è già presente; al salvatore Diocleziano succederà il salvatore Costantino, il salvatore Teodosio; centocinquant’anni ancora…” – prima di “chiudersi pietosamente sul figlio di un segretario di Attila, caratteristicamente rivestito del nome pomposo di Romolo Augustolo”.

Dissociazione  - In dottrina il gioco, non solo letterario, delle personalità multiple è sintomo di disturbi mentali e prodromo di morte. È il caso di artisti di peso, Hölderlin, Schumann, Jean Paul. Tutti tedeschi, è vero.
È del resto vero che tutti si muore. Che Hölderlin ha avuto felice e lunga pazzia. E che non sono impazziti i molteplici Pessoa o Kierkegaard. Ma è certo che il gusto di nascondersi rientra nel fenomeno delle personalità multiple, attualmente collocato al capitolo dei disturbi associativi, che ricomprende la vecchia categoria dei fenomeni isterici.

Grand Tour – Fu – ma è tuttora -  la fonte prevalente se non unica attraverso cui gli italiani si informavano dell’Italia tra il Sette e Ottocento. Attraverso il “colore” in buona misura, il pittoresco. Di quadri popolari e costumi facili, e di rovine greche e romane a cielo aperto. Di paese fatato di vacanza, specie culturale, a cui tutto si perdona, la sporcizia, la superficialità, l’incostanza, il ladroneccio. Una visione che si riverbera fino a diventare realtà. È vero che l’Italia è la seconda forza manifatturiera e esportatrice dell’Europa, ma con quanta fatica.

Lettore - Borges, dovendo scrivere dettando per la cecità, privilegia il genio del lettore: il lettore fa l’opera, dice. In un certo senso è così, non si capisce altrimenti perché il Cantico dei cantici è un testo sacro, o il Levitico.

Sospetto – Conviene a volte tenersi all’evidenza, a una sfida che venga lanciata. Non che la prova logica sia errata, finché uno non ci crede: mette il nemico in allarme, ma gli fa perdere tempo per la difesa.

È da Kant, dalle esperienze e le categorie, che la narrazione, prima libera e divagante, è concatenata: gli eventi intenzionali, benché soggettivi, non sono arbitrari. Su questa base si è poi costruito il giallo, il genere più popolare.

Proust – L’amore non è il tema del romanzo – né degli altri suoi tentativi. Se non nella forma della gelosia, intesa come possesso, e rielaborata in mille forme e pagine, fino alla piccola vendetta del pettegolezzo. Il suo amore è una partita di gelosia incrociata – se si eliminano le nostalgie, cioè la commiserazione di se stessi. È una forma di egotismo. Non confessato, e anzi mascherato di buoni sentimenti: discrezione, ammirazione, buon ricordo, una facciata di riconoscenza.
L’impossibilità di amare è il grande tema proustiano. Sarebbe, poiché è relegato sullo sfondo. Lo fosse, non sarebbe a somma zero, quale è, e anzi sarebbe mortale. Magari di consunzione, alla Dumas figlio.

Realtà – È l’irrealtà, dice Nabokov, dei romanzi. Meglio di “quei farseschi e fraudolenti particolari chiamati fatti”.

Rom – La parola, sostituita a zingaro, ritenuto infamante, è però anch’essa classista e discriminatoria: proteggendolo come dentro una sfera, come di proposito, nega il suo soggetto. Questo è vero in varia misura di tutto il linguaggio politicamente corretto, che appiattisce. Ma nel caso di un’identità che si vuole distinta ancora di più. La assimila, anche se non si sa a che – alle buone intenzioni? alla pubblica assistenza?
Dijana Pavlovic, rom di Serbia e attivista rom, intervistata su “Sette”, 12 dicembre, da Vittorio Zincone, si vuole – suo malgrado? - zingara, vi si conforma. Riconoscenza? “I rom sono un business. A Roma ce ne sono settemila. Per gestire i campi in cui vivono vengono stipendiati 500 italiani, nessuno dei quali appartiene alla nostra etnia. “Più aumenterà la disoccupazione e la povertà diffusa e meno saranno evidenti le differenze tra italiani e rom.I campi rom sembrano discariche a cielo aperto”, obietta Zincone. Io sarei favorevole a chiudere quei campi”, risponde Pavlovic: “La soluzione ideale sarebbe affidare ai rom delle piccole zone da autogestire: con luce, acqua e fognature. Responsabilizzandoli. Nei campi, invece, c’è una malsana abitudine all’assistenzialismo. Molti rom dicono: il comune ha stanziato i soldi per noi? E allora ci fornisca i servizi. Sia l’amministrazione a portare i bambini a scuola…. Senza colpe né sensi di colpa.
Pavlovic dice anche che i rom si sposano “spesso tra i 14 e i 18 anni”, e aggiunge: che male c’è? Anzi, si è fatta dire gagi, non rom, da una ragazza-madre di 14 anni in carcere, e vecchia: “Mi ha detto che sono vecchia, che ho avuto il primo figlio a 33 anni, cioè quando si dovrebbe diventare nonne. Che mio marito a cinquant’anni mi lascerà per una ventenne e che alla fine mio figlio mi abbandonerà in un ospizio. Ha aggiunto che lei, invece, non avrà tre lauree e un lavoro socialmente apprezzato, ma avrà sempre intorno a sé una famiglia, bella e numerosa. Senza disapprovazione.
Si può obiettare a questo modo di essere, aggressivo. Ma perché camuffarlo? Non faccio io la spesa”, conclude Pavlovic, “ci pensa mio maritoProbabilmente lei non sa più ballare, o se ne vergogna. E suo marito non sa suonare la musica tzigana, non ci pensa nemmeno. E questo è un danno per tutti. 
La poesia gitana già li aveva un po’ ingessati, il Cristo di Machado, il “Romancero” di Lorca. Ma la musica aveva una grande tradizione, onorata, in molte composizioni colte, in Spagna (e il flamenco?), a Vienna, a Budapest, e in Ravel, Enescu, Kusturica.

letterautore@antiit.eu

Il lavavetri allo specchio

Piazzale Dunant, “filantropo svizzero”, non è quello della Croce Rossa?, premio Nobel, o non sarà garibaldino?, anche lui, è vuoto a Capodanno. Le feste hanno questo di buono, che si arriva presto dappertutto. Col solito lavavetri al semaforo. Il solito semaforo lungo, la circonvallazione Gianicolense ha la precedenza, coi suoi ospedali.
La giornata è tersa, lo sporco traspare sul vetro. Controluce quasi non si vede. Ma il lavavetri traccheggia.
I giorni di festa gli asiatici devono lasciare il posto ai rom, che sono prepotenti e sporcaccioni, sporcano più che pulire, ma pazienza. Questo però accenna e si ritrae, accenna e si ritrae. Sarà un po’ tocco, o avrà bevuto? Finalmente si decide e attacca il vetro: prima a colpi timidi, sempre indeciso, poi a larghe spazzolate.
L’operazione è complicata, di cercarsi le monete nelle tasche, le cinture di salvataggio sono una noia più che un aiuto. Intanto il semaforo è verde, ma il lavavetri, dopo avere tanto esitato, ora non recede: passa del lato della guida e rifà le sue lunghe spazzolate, con accuratezza.
C’è una sola macchina dietro, che però è nervosa e suona il clacson. Il lavavetri non si scompone, prosegue il suo lavoro coscienzioso, del parabrezza fa uno specchio, ora la luce dà fastidio per il brillio. Quando finisce fa un passo indietro.
La curiosità è allora istintiva di scandagliarlo, questo lavavetri speciale, un attimo, uno sguardo, dietro il sorriso di circostanza con cui si porgono le monete. Anche lui guarda al nostro sguardo.  Tende la mano solo quando noi l’abbiamo tesa. E ha un sorriso breve, come d’intesa. La festa facendo finita: grazie ha detto al modo romano, ha sagoma e soma familiari, ha la nostra età. 

La patina della tradizione brilla in cucina

 “Discutere di cosa si mangia allieta la gente e rinsalda o rappezza i matrimoni”. Simonetta Agnello è di gusto rétro e vuole esserlo, dopo essere stata a Londra avvocato di poveri e giudice dei minori. Va quindi controcorrente, si direbbe, inalberando questo Brillat-Savarin della “Fisiologia del gusto”. Contro le singletudini che fanno l’attualità, e le convivenze - magari nella vacanze, non tutte, una o due settimane. Lei anzi accentua, inneggia: non c’è povertà nella tradizione, cioè c’era, ma si difendeva, col buon gusto e i buoni sentimenti. Con le ricette di cucina, la cucina è per lei anzitutto tradizione. Della mamma, della nonna, della bisnonna. Preparate da lei stessa, dice. E lascia intendere: a Mosè, Agrigento, Sicilia.
Non è per masochismo. Il filo delle memoria la baronessa Agnello da qualche tempo privilegia seguendo la moda, letteraria e di spettacolo. Con “Un filo d’olio” e “La pecora di Pasqua” prima di questo “Pranzo di Mosè” – eco del classico “Pranzo di Babette”. C’è anzi un doppio senso commerciale nel propagandare Mosè: la piccola proprietà di famiglia è ora un agriturismo. Senza menzionare mai questa funzione, beninteso, tanto si trova su internet. Non per snobismo. Cioè sì, ma perché c’è una domanda di tradizione.
Simonetta Agnello è un brand con un suo pubblico, che non tradisce: la sintonizzazione avviene sulla tradizione, Che si vuole di per sé aristocratica. Come per “Downton Abbey”, c’è voglia di resilience, di consistenza, di vecchio-e-nobile, ai piani alti e ai piani bassi. È stata scrittrice di storie anche difficili, sgradevoli. Ma sempre con quel brillio, della patina, della remoteness.
Anche qui, attorno alle ricette fa crescere ricordi e aneddoti, grati perlopiù e comunque dominabili, non distruttivi. Attorno a una madre bellissima e a un padre vanesio e probabilmente incapace. Sono storie di donne: tutto cibo, tutte donne, questa è la costante. Con la continuità e la buona disposizione, se non l’amabilità.
Una lezione che non viene dai rosari del “Gattopardo” ma dal laburismo inglese. Questo miscuglio è il lato più interessante del suo successo. Il Sud vi è anche diverso, benché non detto. Di donne magari sacrificate da uomini incapaci o sciocchi, ma vive e attive. Un regalo.
Simonetta Agnello Hornby, Il pranzo di Mosé, Giunti, pp. 212, ill., € 16

martedì 30 dicembre 2014

Il mondo com'è (200)

astolfo

Andreotti - Ha avuto i momenti migliori nel confronto con i comunisti. Da segretario di De Gasperi, e poi da presidente del consiglio, specie nei suoi primi governi, degli anni 1970.
Sono anche i suoi momenti di gloria, nel perdurare di una matrice postcomunista dell’opinione pubblica e della storiografia, poiché fu avversario onorato dai comunisti. Forse più di Moro – santino postumo.
Fu onorato anche dai comunisti eretici del “Manifesto”, d Parlato se non da Rossanda e Magri. Se ne sdebitò a modo suo, con uno dei tanti piani di risanamento del quotidiano, quello finanziato da Cesare Geronzi una quindicina di ani fa.
Il processo a Palermo per mafia non gli fu intentato da Caselli, cioè da Violante, cioè dal Pci. Ma da Lo Forte e Schiacchitano, due (ex) Dc, che il loro capo ufficio a Palermo Rocco Chinnici, poi fatto saltare in aria dalla mafia, spregiava come manutengoli del peggior potere democristiano negli Uffici giudiziari – Lo Forte, ora Procuratore Capo a Messina, e concorrente solo sfortunato alla Procura di Palermo, sarà criticato anche nel diario di Caponnetto, il giudice coraggioso che sostituì Chinnici, come uno degli ostacoli all’azione di Falcone e di Borsellino (Chinnici, nel diario ritrovato nel suo computer, imputava al magistrato, con pessimi epiteti, la mancata attuazione di certe indagini: “Sciacchitano e Lo Forte della Procura”, annotava in data 30 marzo 1979, “emissari del grande vigliacco e servo della mafia Scozzari”).

De Gasperi – Rivive sempre in oleografia, buono a tutto e un po’ melenso, mentre è l’uomo delle scelte radicali, fino a quella sfortunata del “maggioritario”. Uno che sfidava invece di “confrontarsi”. Inoltre, aveva a sottosegretario Andreotti. In una sorta di sub-partito vaticano, ma non immune all’astuzia del giovane tuttofare.
Andrebbe quindi rifatto anche “astuto”, come il suo aiuto. Ma di un’astuzia allora disincarnata. Fredda, non esibita, al contrario di Andreotti che se ne è sempre compiaciuto. Di un’astuzia che viene, essa sì, dal Vaticano, pratica e non abulica.

Fascismo – È morto, si è sempre detto, era una parentesi nella storia, non aveva cultura e quindi non aveva radici, e quasi lo si riduce a un regime terrorista. È la tesi dell’antifascismo. Non è sbagliata ma non è la verità.  Del fascismo – a maggior ragione del nazismo. Entrambi movimenti di massa, e quindi democratici – il nazismo perfino legalitario nell’accesso al potere. Le tesi opposte argomentano che il fascismo è un corpo senza testa. E un errore degli italiani. La follia di un breve tempo. Era anzi, non è.
È tesi minoritaria, di Noventa e pochi altri, che il fascismo al contrario si radica nella storia e della cultura dell’Italia – è il peggio della migliore Italia, argomentava Noventa. L’evidenza è minoritaria tra gli storici anche perché esclusa dalla teoria e tattica di Togliatti. Ma è comprovata dall’evoluzione disinvolta delle masse padane e cispadane, a ridosso dell’Appennino tosco-emiliano: socialiste negli anni 1910, poi fasciste, e dopo la seconda guerra comuniste. Ancora nel 1996 sessantamila nel Mugello fiorentino andarono compatti alle urne, sacrificando una domenica, obbedienti all’ordine del Capo D’Alema, a eleggere senatore Di Pietro, che non nascondeva le simpatie “sociali” per il Movimento Sociale. Ora scalpitano di diventare grillini. In alternativa, tentano di farsi Capo Matteo Savini – Matteo Salvini?

Internet – La connettività è l’uguaglianza delle culture, le storie, le idee, le opinioni. Al livello necessariamente più basso o distratto. Un livellamento che equivale a una cancellazione radicale – è la famosa tabula rasa. Una piazza, che fa però “piazza pulita” di ogni criterio di validità o valore, anche di intelligenza, dovendosi posizionare sull’accettazione di tutto. E inevitabilmente rovescia anzi i giudizi di valore, dal più e meglio al meno e peggio. In una con l’inculturazione o intercultura, che per cui il fish ‘n chips è buono come le lasagne. E anzi meglio, perché no.

Piagnonismo – C’è un’evidente sproporzione di linguaggi tra la Rai – tg e radiogiornali – e le altre emittenti. Che saranno, come si favoleggia, e come la Rai sostiene in buona coscienza, impostate su una visione falsa della realtà, ma ci risparmiano le geremiadi sulla povertà, il bisogno, la malattia, la sofferenza, per cui alla fine di ogni trasmissione bisogna dardi una prova di vivenza. Un linguaggio forse  impegnato ma non veridico, e anzi artato – nemmeno impegnato peraltro, le telegiornaliste amano inalberare mises inverosimilmente complicate e costose. Derivato probabilmente, poiché la Rai ha un pedigree democristiano, dalle sacrestie. Da un confessionalismo che vuole tutti penitenti per farsi perdonare i suoi peccati. Ma ora monoliticamente democrat – non da ora, dai tempi di Veltroni.
In questa congiunzione, è comunque chiaro che la sinistra è piagnona. Usava riunirsi al circolo e nelle balere e ballare e bere, le ragazze soprattutto si segnalavano per essere di mente sgombra, ora non più. Molte elezioni sono state lasciate a Berlusconi che altro non proponeva che un po’ di fiducia - e perfino il partito dell’amore, prima di Ruby. La sinistra forse più che la Rai è luttuosa – triste, pessimista. E si vuole moralista, cioè falsa – la sessuofobia è nella mente della donna di sinistra. È vendicativa: personifica il nemico, odia le persone.
Non è ottimista, ecco dov’è l’inganno: non si cura, se non per stereotipi, non apre porte né orizzonti, non libera.

Plebiscitarismo – Ha destabilizzato la politica, invece di stabilizzarla. Era inteso a evitare le crisi di governo ricorrenti, la frantumazione dell’azione di governo e della legislazione, la loro delegittimazione. Invece ha moltiplicato il potere di ricatto dei piccoli e piccolissimi, fino a ridurre  corpi eletti, il Parlamento, i consigli regionali e comunali, all’inerzia. Per leggi elettorali sbagliate, ma soprattutto per l’equivoco del mandato di rappresentanza personale e non politico (partitico).

Ha fallito anche per la concomitanza mutazione della politica, dall’organizzazione alla mediatizzazione.  Alcuni soggetti politici ne hanno tratto profitto (in Italia Berlusconi, Grillo), altri ne sono rimasti a lungo vittime (i litigiosissimi democrat: l’ironia non “buca” lo schermo). Ma agli uni e agli altri il voto plebiscitario non ha agevolato la funzione politica, di governo. Per una debolezza della stessa mediatizzazione. i governi, anche quando restano in carica per la legislatura, diventano subalterni ai sondaggi, ai media, allo scandalismo più trito, e quindi portati all’inerzia. Ma più per la personalizzazione che il regime plebiscitario implica, finché dura la pregiudiziale che la rappresentanza è personale. In Italia è il caso del mandato elettivo quinquennale dei sindaci e i presidenti di regione. Che non hanno migliorato il potere decisionale, per il meglio o per il peggio, e sono più che mai soggetti ai condizionamenti, fino al ricatto, degli interessi più particolari e minoritari.

L’esigenza tuttavia sempre riemerge, perché è ormai la prassi consolidata in tutti i regimi democratici, vecchi e nuovi, anglosassoni e iberici, della Francia e dell’ex Unione Sovietica. Nella stessa Italia, tirando le somme, l’opposizione reale alla funzione di governo forte è solo degli ex Dc, per la non disprezzabile avversione al centralismo, ma anche per l’inveterato vizio della Dc post-fanfaniana di governare non governando – Pannella direbbe sgovernando (fascismo sfascismo…) : creare potere contrattuale attraverso il rinvio, la parcellizzazione, l’emasculazione.

astolfo@antiit.eu

L’antifascismo contro la Resistenza

“Nessun partito deve pretendere di essere il partito degli onesti, dei patrioti, degli amici del popolo”. Sembra una critica del berlinguerismo, ma è un monito del 1947 - a riprova che Berlinguer veniva da lontano. E non una perla occasionale, fonda un’ipotesi storiografica da riprendere, finora occultata dal pensiero unico togliattiano: della Resistenza distinta dall’antifascismo. Per una differenza costitutiva: “L’antifascismo conosce tutte le cause, mortali e veniale, del disastro. L’uomo della Resistenza si domanda invece come mai tale disastro sia stato possibile”.
L’antifascismo riproduce il suo nemico - “la morale politica è una morale tragica” - la Resistenza è di un popolo che interroga se stesso. L’antifascismo è politico, partitico, settario, la Resistenza, che invece include, è un tentativo di fronte comune, di rigenerazione. Ma Noventa è già deluso. La sua non è una proposta, è una constatazione, subito nel 1947, che la grande occasione era sprecata: il Pci monopolista della Resistenza dice “l’intimo nemico” della stessa.
“Noventa” (Giacomo Ca’ Zorzi), bistrattato in vita, quale poligrafo, poeta, saggista e uomo politico, cioè uno confuso, è invece uno che ci vede chiaro. Già dagli anni del fascismo, che contrastò, al costo di una serie di occupazioni. Nel 1936-1938 anche con una rivista, “La riforma letteraria”, che editò e scrisse a Firenze, con la quale analizzò le radici culturali e nazionali del fascismo, nell’idealismo e in un certo liberalismo. Ne dà conto nel secondo, lungo testo di questa raccolta, “Comunismo-Antifascimo-Resistenza”, a commento della polemica fra Bobbio e Togliatti nel 1955. Che è quanto di più sensato sia stato letto, anche in sede storica, a proposito del fascismo, e poi del comunismo togliattiano. Dei fili contorti attraverso cui Togliatti modellò e controllava il partito Comunista – Togliatti ci fa miglior figura di Bobbio, compagno di studi e sodale politico di Noventa, duttile, avvolgente, a suo modo democratico, ma delle ingenuità politiche del filosofo della politica Bobbio sappiamo già molto, guardingo, causidico, e infine berlinguerista.
Le tela di Togliatti
Della fine ragnatela di “contraddizioni” di cui  Togliatti è maestro sta al centro la “continuazione della Resistenza”, solo utile a irretire gli “utili idioti”, gli “indipendenti di sinistra”, e dominare l’opinione pubblica: “Rompere l’unione sacra con gli ex compagni, trattarli non per quello che furono ma per quello che sono, e continuare la Resistenza”. L’illusione, non ingenua, con cui imporsi in politica (e nella storia) - anche ora, dopo la morte.
Giacomo Noventa, Tre parole sulla Resistenza, Castelvecchi, pp. 69 € 9

Il sampietrino in testa

Appena nominato, l’assessore ai Lavori Pubblici del sindaco di Roma Marino, l’indimenticabile, Maurizio Pucci, ha un’idea risolutiva per risolvere il deficit comunale di cassa: vendere i sampietrini. “I sampietrini hanno un mercato fiorente, sia italiano sia internazionale”, ha detto al debutto: “Li daremo alle imprese, sono un valore”.
Geniale, qualche spicciolo potrebbe anche rimediarlo. In cambio magari di qualche appalto, Pucci ne è specialista: per levare i sampietrini prima e venderli, e poi per asfaltare le superfici liberate. Poi dice che tutto è mafia, o che la mafia non ha fantasia.
In un certo senso l’assessore è incoraggiante: il Comune di Roma evidentemente può spendere.
Sorge però una curiosità; altrove perché richiedono tanto i sampietrini, per tirarseli in testa?

lunedì 29 dicembre 2014

Problemi di base - 209

spock

Perché Scalfari, Padellaro e Polito bastonano regolarmente Renzi? È il libero pensiero?

E Blair che esce dall’ombra per sostenerlo? È un altro libero pensiero?

Perché il “Corriere della sera” non intervista il presidente del consiglio Renzi?

Il papa sì e Renzi no: c’è un motivo?

Perché non ci sono più preti pedofili con papa Francesco? Neanche retroattivi

È vero che anche prima non ce n’erano, in Argentina e tra i gesuiti, il cui compito è educare i fanciulli

E la serie dei gesuiti col “Sole 24 Ore”, è una conversione in massa?

Sono i giornali laici diventati papalini, o il papa laico?

C’è ancora un’obbedienza gesuitica?

spock@antiit.eu

Misericordia

S’incontra per strada, in questi giorni di festa, un rom che strimpella. Finge, non sa suonare. Ma al passaggio chiede “misericordia”, nientemeno. Non è il solo, per le Feste sembra che i rom si moltiplichino, o si mobilitino: Ci sono le ragazze-madri coi bimbi in fasce alle porte delle farmacie, matrone con le gonne soprammesse che danno la fortuna, alle edicole dei santi, alle aule universitarie, alle porte degli ospedali, storpi di tutti i tipi, avventizi ai semafori che colpiscono il parabrezza per pulirlo. Ci sono anche musicisti veri, che suonano moltissimo, benissimo, e non chiedono niente. Ma la misericordia è inedita.
Lo sconcerto è breve, la ricerca è lunga perché gli spiccioli sono quasi esauriti. Alla fine cinquanta centesimi si mettono assieme anche per il finto violinista, evitando le minuscole monetine da uno o due per non offenderlo. Mezzo euro, sembra un’elemosina decente. Ma il suonatore ha smesso di suonare, il violino abbandonato contro il fianco, l’archetto impennato come il giudice alla sentenza, il maestro alla cattedra, sta contando a distanza le monete, un rom come si deve, che ha sguardo di lince, o forse ha orecchio sopraffino, malgrado lo strumento, che le monete distingue dal suono, e all’atto di rialzarsi dalla scatola di cartone che le raccoglie per terra si viene fulminati da un: “Nemmeno la metà di un caffè!”
Dalla misericordia alla maledizione, lo zingaro viene fuori. La prima reazione è di sollievo, di conforto. E forse è il bello delle Feste, anche per chi zingaro non è: che i cattivi sentimenti vengono fuori coi buoni.
Ma dura poco. Il suonatore si è scomposto, piegato in avanti sulla sua scatola, a eliminare le monetine, l’elemosina volendo suggerire in grosse monete e biglietti. È solo un rom, all’ora della Unione Europea, molto umanitaria. Dei buoni sentimenti, che vanno sfruttati, finché durano.
Niente di male. Il problema è: vivrà in villa, anche lui? È ben messo. La crisi non fa eccezioni, neanche per la carità: non si sa più a chi fare l’elemosina.

L'amore è impossibile per Nietzsche in Norvegia

“Che tremenda creatura”, dice Nagel di Dagly, radiosa bellezza di cui è invaghito, “pur semplice com’è, con una lunga treccia e un cuore sensibile!” Non ancora un eroe negativo, ma quasi: uno, nessuno e centomila in anticipo – siamo al secondo romanzo di successo di Hamsun, dopo “Fame”, 1892 – Johan Nilsen Nagel naviga in questo mondo ma come dall’aldilà, una presenza fuori dal mondo. Nel set di maniera hamsuniano: “L’anno scorso, a metà estate, una cittadina della costa norvegese divenne teatro di avvenimenti affatto eccezionali. Vi fece infatti la sua comparsa uno straniero…”. Non è uno straniero, parla la lingua del luogo e sembra conoscere tutti, meglio di come loro stessi si conoscono, ma ne demolisce le abitudini e le certezze, le regole, i miti, lo scientismo positivo, solo fidandosi, dell’istinto. E tutti i discorsi riesce a concludere che ha avviato incongruamente, sfidando il trito e lo scontato. Non un’eccezione: fino alla fine, “Per i sentieri dove cresce l’erba”, a novant’anni o poco meno, Hamsun si prediligerà eroico in questa vena anticonformista. Se non che, poi, Nagel si innamora, anche lui, e qui non sa perché.
Il Nagel-Hamsun Walter Benjamin apparentava al Perdigiorno di tanta letteratura tedesca, e specie di Eichendorff. Una figura che Thomas Mann aveva già privilegiato nelle “Considerazioni di un impolitico”, come quello che fa a meno dell’“impegno”, politico, civile, culturale – ma in un quadro inevitabilmente reazionario, quale lo stesso Mann impolitico inavvertitamente praticava. Magris, che ha prefato l’ultima edizione di “Misteri”, nella Bur nel 1989, lo dice meglio: il perdigiorno vagheggiato da Hamsun è “uno smanioso nevrastenico, tenerissimo e insieme brutale” – Bobi Blazen lo chiama il “Grande Sgangherato”. E anche: “aperto e disponibile al desiderio come alla rinuncia, rapace e fuggiasco, questo personaggio si sottrae ai legami, ai ruoli prestabiliti, a qualsiasi impegno morale o politico”. Ben distinto da quello di Th.Mann, “filisteo romanticheggiante”, “una caricatura…. della profondità interiore che vibra nella parola Kultur”.
Quello che Magris e Bazlen non dicono è che la parte di Nagel è sfasata, confusionaria, stiracchiata. Nagel è Nietzsche in piccolo, contro la moltitudine, il numero, la menzogna, la “pseudo educazione”, la “modesta educazione spirituale”, il liberalismo, il socialismo, Gladstone, Tolstòj, Ibsen, Marx. Un giovane molto vecchio. Senza senno e anche senza virtù, più spesso sproloquia sciolto. “A che serve mettere la plebaglia in agitazione visto che poi, inevitabilmente, sono condannato alla croce?”, così argomenta di se stesso, a lungo. O: “Il famoso terrorista è il più grande, è la dimensione, l’eccezionale congegno che equilibra i mondi”. Molte pagine simili. Anche in breve: “Tutti i teologi dovrebbero uccidersi”. Ma sentenzioso più spesso per paginate.
I misteri sono sogni. Nagel se ne fa una divisa, e un motivo di successo presso le signore, ma sono anch’essi purtroppo interminabili. E l’amore? Questo è il bello del racconto: l’amore è una partita di gelosia incrociata - una partita di fughe, si direbbe in linguaggio musicale se ne esistesse il genere. O dell’impossibilità di amare, che sarà poi il grande tema proustiano. Non a somma zero, e anzi mortale.
Nagel è l’uomo in fuga. Anche, al fondo, dalla natura. Un altro tardo romantico, a suo modo. La sua è nostalgia della natura, di un astratto o perduto tempo “naturale”, oggi alienata e perduta. L’amore è solo rimpianto – l’autore è troppo impegnato. Un doppio binario, più o meno marcato, su cui Hamsun sempre si sposta. Qui molto evidente, avrebbe risolto il problema di Magris, preso soprattutto dall’evoluzione politica di Hamsun fino allo hitlerismo forsennato. La disperazione di Hamsun è posticcia, di uno che recita Nietzsche. Non inconsulta, né isolata, nella letteratura germanica, ma bisogna dirlo. Hamsun ci arriva per temperamento e non per temperie politica – scrive il meglio prima del Novecento. Essendo ironista nato. Uno non plasmabile, soprattutto non alla scuola dei buoni sentimenti, fino al suicidio morale.
Knut Hamsun, Misteri

Quando la Resistenza si fermò in Italia

Pezzo forte di questa prosa – racconto? romanzo? reportage? – è il ritratto di Ferruccio Parri, umile, diafano, estraneo. Inquadrato tra gli affilati cardinali in borghese, della destra e della sinistra, luminosi del brillio simmetrico dei loro occhiali sui visi imperscrutabili, De Gasperi e Togliatti,  inquisitivi e protettivi. Lui il presidente, loro i suoi ministri, che lo avevano già fagocitato. L’immagine della fine della Resistenza.
Il racconto, pubblicato nel 1950, che ora si ripropone in ebook, evidentemente per andare incontro al disincanto generalizzato della politica, è della fine precoce della Resistenza. Che Levi registra muovendosi da una città all’altra, da una redazione all’altra, da un partito all’altro, da un compagno all’altro. Una fine non romanzata tanto è apparente e imponente. Ha a distanza un’apprezzabile malinconia, un’aria nostalgica, ma non all’epoca, quando fu negletto non essendo politicamente corretto – non in linea con la Resistenza ufficiale.
L’attrattiva del racconto, di ogni racconto, è la trasfigurazione – qui in negativo, di una presenza già assente. Come già in “Cristo s’è fermato a Eboli”, Carlo Levi riesce, seppure qui con troppe parole, a trasfigurare anche la realtà della Resistenza nel dopoguerra. Gli entusiasmi appassiti dei singoli protagonisti dopo la sbornia generale, il grande senso di comunità. Le riserve, i distinguo, le strategie e tattiche politiche, più spesso nel nome della Resistenza stessa. Questa attrattiva qui manca. Ovvero no, c’è, ma più sottile che in quella del Sud (“Cristo s’è fermato a Eboli”). Del Sud Levi è ottimo scrittore, oltre che compassionevole politico, sulla Resistenza si astiene, già opportunista. Anche se il tema è, nientemeno, il tradimento della Resistenza – il suo inglobamento nella strategia e tattica di Togliatti.
Carlo Levi, L’orologio, Einaudi ebook, pp. 336 € 6,99

La (non) politica della sicurezza europea

Giuseppe Leuzzi

Cosa cambia con Federica Mogherini alla Politica europea di sicurezza comune - Mrs., o Miss, Pesc? Tutto e niente. Enzensberger ha appena scoperto che la politica estera e di difesa, che l’Europa in realtà non fa, ha a Bruxelles uno degli “esecutivi” più pletorici e costosi del costosissimo “esecutivo” europeo, di cui Mogherini è presidente, con  sedici o diciassette vice, varie commissioni e consulenze, e una serie di rappresentanze all’estero, dispendiose come un’ambasciata, senza alcuna funzione. Questo ingombrante “esecutivo” non ha speso una parola sui fucilieri di Marina italiani detenuti in India per attività svolte nel corso di una missione europea. Non sa che il Mediterraneo, e l’Europa, sono soggetti a una ondata di immigrazione senza precedenti nella storia universale recente. Non si propone di fronteggiarla e nemmeno di accoglierla, inserirla. Dopo avere abbandonato la politica mediterranea che avrebbe potuto fermarla o controllarla. A quindici anni dalla guerra Usa per la libertà del Kosovo, che molti paesi europei combatterono volenterosamente, cinque membri della Ue non ne riconoscono l’indipendenza: Cipro, Grecia, Romania, Slovacchia, Spagna. E ora vorrebbe fare la guerra alla Russia, anche se non sa per che cosa – oppure lo sa: per gli affari di alcuni corrottissimi ex boiardi di Stato dell’Ucraina, che ne vogliono escludere la metà russa della popolazione. Senza contare che le sanzioni a Mosca che gli Usa hanno imposto danneggiano gli affari europei e favoriscono quelli americani. Per non dire della cecità sulle immigrazioni, uno schiavismo organizzato, con migliaia di morti ogni anno, e un’illegalità premiata - mentre un minimo di attenzione “costerebbe meno”, volendo stare al metro politico tedesco. O della libertà e la democrazia “esportate” in Afghanistan, e tra gli arabi in Irak e in Libia, i tre paesi forse più tribalizzati al mondo. E anzi delle porte aperte, con soldi e armi in abbondanza, all’islam terrorista, che ha fatto centomila vittime alle porte in questo solo ultimo anno. Alle porte dell’Europa meridionale, è vero, mediterranea, “latina”, che parola spregevole. Ma minaccia imbaldanzito l’Europa stessa, Parigi dopo Londra. La non-politica per il mondo arabo e quella per l’immigrazione di massa, che potrebbe cambiare in breve tempo la demografia e la cultura della stessa Europa, sono conseguenti all’abbandono della politica mediterranea, attiva fino agli anni 1980 e di colpo abbandonata con la riunificazione della Germania e l’instaurazione de facto dell’egemonia tedesca in Europa, con lo spostamento del baricentro continentale verso Nord - a prezzo di una negligenza totale del Sud. Una novità epocale, si direbbe. Ma di questo Bruxelles non sa o non può parlare.
Non si può farne una colpa a Mrs. o Miss Pesc. Ma i casi di “non-esistenza” sono troppo numerosi. Non la chiamano neanche per i casi urgenti: l’Iran, l’Ucraina, le sanzioni contro la Russia, la Libia, l’Irak.

Tutto resta da fare, a quindici anni dal varo della politica estera e di difesa europea. Che avrebbe dovuto costituire il secondo fondamento unitario dell'Europa, dopo l'euro, e forse più dell'euro, implicando la guerra. Ma è rimasta inattuata e non è considerata. Non è nell'interesse di nessuno, anche se a costi elevati, nei tanti fronti bellici nei quali i paesi della Ue si sono impegnati. Con 28 eserciti anzionali, che costano per 28 e non farebbero un esercito nemmeno uniti. La “nuova Nato”, di cui nel testo, resterà indefinita, e con essa la politica estera e di difesa della Ue. Nei modi e per i motivi, surrettizi ma scoperti, che questo saggio, pubblicato a ridosso della guerra alla Serbia, nel maggio 1999, spiega.

Il predecessore di Romano Prodi alla presidenza della Commissione europea, Jacques Santer, si è dovuto recare il primo aprile, insieme con tutti i membri della Commissione, alla sede Nato a Bruxelles per informarsi delle cause, le modalità e gli scopi della guerra alla Serbia per il Kossovo. Era accompagnato da un fantasma, denominato Mister Pesc nel gergo di palazzo Berlaymont, di cui da tempo si favoleggia che stia per materializzarsi, e a cui ultimamente si dà con discrezione, ma con ansia, la caccia. È infatti la materializzazione al maschile, nella figura di un supercommissario con poteri speciali, della Politica europea di sicurezza comune. da sempre assente dagli statuti dell'Unione europea. L'ansia deriva dal fatto che l'Ue, creata per mettere al bando la guerra in Europa, si trova a doverne combattere una, con uno Stato europeo, proprio quando, col varo dell’euro, si confermava ormai solidamente impiantata nei suoi obiettivi. A Mr e Mrs Pesc Romano prodi ha dichiarato preliminarmente l’intenzione di dedicarsi con particolare cura nel suo quinquennio di presidenza Ue. Ma avrà bisogno di molta fortuna, perché il campo resta sempre scivoloso: “Dilemmi non semplici” si propongono secondo un eufemismo del presidente del consiglio D'Alema (1), fra gli stessi membri della Unione, e fra la “nuova Europa” e la “nuova Nato”, nel cui ambito la politica europea della sicurezza va enucleata.

Dalla Ced alla Nato

Francia contro Germania
La sicurezza è stata il primo “”pilastro”, si direbbe oggi a Bruxelles, dei primi progetti di unione europea nel dopoguerra. Dal federalismo italiano di Altiero Spinelli alle iniziative del ministro degli Esteri britannico Bevin all’inizio del 1948, d’accordo col ministro degli Esteri francese Bidault, e del goveno francese (piano Pleven) a fine 1950. Naufragò subito di fronte alle prospettive di riarmo della Germania - che si fece comunque - e non s'è più ripresa. I progetti europei si spostarono sul terreno economico, dell'unione doganale e commerciale, e infine monetaria.
La proposta Bevin mirava a una Unione europea in grado di garantire la propria sicurezza, con l’obiettivo non scritto ma dichiarato di contrastare sia il riarmo della Germania che l’ulteriore espansione del blocco comunista. Si concluse nella stipula rapida del patto di Bruxelles, nello stesso 1948, con Francia e Benelux.
Il piano francese per un esercito europeo, poi denominato Comunità europea di difesa, delineato da René Pleven all'Assemblée Nationale nell’ottobre del 1950, e presentato al Consiglio Nato di Bruxelles del dicembre 1950, fu avviato a pronta attuazione con la convocazione a Parigi il 15 febbraio 1951 di una conferenza presieduta dal ministro degli Esteri Robert Schuman. La conferenza fu aggiornata al 22 febbraio per consentire ai paesi partecipanti di studiare un piano dettagliato del governo francese. Fu quindi variamente riconvocata, fino all'8 maggio 1952, quando una bozza di trattato fu siglata dagli esperti dei sei paesi partecipanti, Francia, Italia, Germania, Benelux. Il 27 maggio il trattato fu sottoscritto dai ministri degli Esteri dei sei, per l'Italia De Gasperi, per la Germania Adenauer.
Il trattato, che constava di ben 132 articoli, 13 protocolli e 7 documenti annessi, creava un vero esercito europeo: “Un esercito sovranazionale che gradualmente ma progressivamente prenderà il posto degli eserciti nazionali”, nelle parole di Schuman. Ma era inteso a raccogliere, nella proposta iniziale, più paesi di quanti poi aderirono. Gran Bretagna, Danimarca, Norvegia e Portogallo (inizialmente anche l'Olanda) si limitarono a partecipare alla conferenza di Parigi come osservatori.
Caratteristicamente, la Gran Bretagna se ne tenne fuori, dopo avere aperto la questione della difesa europea con Bevin. Lo stesso piano Pleven si rifaceva esplicitamente a una risoluzione adottata nell’agosto 1950 dall'Assemblea consultiva del Consiglio d'Europa su iniziativa di Churchill: 89 voti furono a favore di “un esercito europeo nel quadro del Patto Atlantico”, 5 contrari, 27 astenuti. Ma rispondendo all’invito francese l’1 febbraio, il ministro degli Esteri Eden informò Schuman che non era “l’attuale politica di questo governo di contribuire forze britanniche a un esercito europeo”. Altrettant caratteristicamente, Eden firmava a Parigi, lo stesso 27 maggio, con i sei governi della Ced, un trattato di garanzia tra il governo britannico e la nascente Comunità di difesa. La Gran Bretagna non voleva partecipare all’Europa unita e non voleva esserne tenuta fuori.
Presto però scartò anche la Francia. L’opinione contraria alla Ced dei gollisti e dei comunisti fece breccia nel paese, e quindi fra gli stessi radicali al governo. Il riarmo della Germania fu un potente reattivo, da questo punto di vista. Il piano Pleven si presentava come una limitazione del riarmo tedesco, e la sua sterilizzazione sotto un comando europeo che non poteva essere che a egemonia francese, ma non bastò, l’inimicizia contro la Germania era troppo viva.
Pierre Mendès-France. primo ministro e ministro degli Esteri dal 18 giugno 1954, tentò di salvare il progetto. In parallelo con i drammatici negoziati in corso a Ginevra per chiudere la guerra d’Indocina, tentò di organizzare un confronto tra fautori e avversari della Ced per ottenere “una risposta chiara”. Chiedendo una riposta chiara egli sperava di mettere la sordina ai sentimenti anti-tedeschi. Ma il confronto non ci fu. Mendès-France tentò allora la carta del rinvio. Il 13 agosto, forte del successo ottenuto a Ginevra il 21 luglio sull’Indocina, inviò ai cinque firmatari un progetto di compromesso in tre punti: un periodo di otto anni, dall’entrata in vigore del trattato, prima d'introdurre la sopranazionalità per le “questioni vitali”; garanzie contro lo stazionamento di soldati tedeschi in Francia; collegamento tra la Ced e la presenza stabile delle truppe britanniche e americane in Germania. Alla successiva conferenza riunita a Bruxelles il 19-22 agosto, i cinque concordemente rigettarono il Protocollo di applicazione francese. Mendès-France e il suo governo, si dichiararono di conseguenza astenuti al voto di ratifica del 30 agosto, nel quale l’Assemblée Nationale bocciò definitivamente la Ced. “Rien appris rien oublié”, si dirà della Francia che aveva fatto e disfatto la Ced. “Quanto fosse sbagliato quel voto lo dimostra il fatto che il riarmo della Germania era ormai inevitabile”, commenta Franca Gusmaroli (2).

Riarmo tedesco
Gli Stati Uniti avevano riaperto con insistenza il problema del riarmo della Germania. Al Consiglio atlantico del settembre 1950 l'avevano proposto formalmente, preoccupati, con la guerra di Corea, del “vuoto militare” europeo. Il 2 maggio 1951 la Germania era stata ammessa come membro di pieno diritto al Consiglio d'Europa. il 19 settembre riebbe un ministero degli Esteri. E alla conferenza di Londra del 28 settembre-3 ottobre, fatta convocare dal governo americano dopo il rigetto francese della Ced, Parigi dovette accettare la Germania nella Nato, con forze armate autonome, benché condizionate, e l’impegno americano e britannico “di far cessare appena possibile il regime d’occupazione della Repubblica federale”.
La Francia aveva messo il veto a fine 1950 all'ingresso della Germania nella Nato, forte della clausola del patto che prevede l'unanimità per l'ammissione di nuovi membri. Ma l’allargamento era nelle cose. Per la logica stessa della Nato, l’organizzazione politica e militare proposta dagli europei Bidault e Bevin nella primavera del 1948 al segretario di Stato americano generale Marshall, e resa possibile dal voto, l’11 giugno 1948 della cosiddetta Risoluzione Vandenberg, con la quale il Congresso autorizzò il governo a concludere in tempo di pace alleanze all’esterno del continente americano – “una vera rivoluzione nella politica estera degli Stati Uniti”, dirà la risoluzione lo storico Duroselle (3). E sopratutto per il rapido allargamento degli obiettivi dell’Alleanza, dopo lo scoppio della prima atomica sovietica nello stesso 1949 e la guerra in Corea l'anno seguente. Il 4 aprile del 1949 la Nato era stata creata a Washington, dopo una trattativa rapida, e dopo la pubblicazione, preventiva, il 18 marzo, fatto anche questo del tutto nuovo, del trattato che la regola. Ma già pochi mesi dopo la difesa dell'Europa era riorganizzata sul principio della “strategia in avanti”, che portava la frontiera europea, e quindi il concetto di aggressione ai termini del trattato, alla linea dell’Elba. Il che implicava il riarmo della Germania.

Ueo
Sul piano europeo lo stesso Mendès-France accettò alla conferenza di Londra di fine settembre 1954, un mese quindi dopo il rigetto della Ced, l’allargamento del patto di Bruxelles alla Germania oltre che all’Italia, contro l’impegno tedesco a non fabbricare armi atomiche, chimiche, biologiche, missili a lunga portata, navi da guerra di più di 3 mila tonnellate, aerei da bombardamento strategico. Gli accordi di Londra fuono subito votati, il 12 ottobre, a stragrande maggioranza dall’Assemblée Nationale, e una nuova conferenza, riunita a Parigi il 20-23 ottobre, trasformò il patto di Bruxelles in Unione dell’Europa Occidentale.
L'idea era germinata in un incontro a tre, fra Mendès-France, Eden e Churchill, nella residenza di campagna dell’ex primo ministro britannico a Chartwell, il 28 agosto, alla vigilia del ripudio della Ced da parte dell’Assemblée Nationale: il primo ministro francese, non potendo far passare la Ced, pensò che una difesa europea integrata, con il riarmo tedesco, sarebbe stata possibile se la Gran Bretagna ci partecipava. Ma l’Ueo, pur autorizzando, contrariamente alla Ced, la ricostituzione di un esercito nazionale tedesco, con suoi propri comandi e compiti, non era più dotata di forze armate sopranazionali. La differenza era sostanziale.
Nei fatti l’Ueo, pur prosperando di vita propria (raggruppa oggi l'intera Europa, Turchia compresa, a vario titolo, membri di pieno diritto, associati, osservatori e partner associati, con poche esclusioni: le neutrali Austria, Svezia, Svizzera, Finlandia, e Russia, Ucraina, Bielorussia), ha abbandonato ogni idea, seppure vaga, di sicurezza europea.

I due pilastri
La questione è riemersa solo in coincidenza con la ridefinizione della struttura di comando Nato. Il generale De Gaulle, tornato al potere nel 1958, esordì con una proposta di direttorio a tre, fra Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna, per garantire la stabilità politica e militare, compreso l’uso delle armi nucleari, dell'Europa e del mondo intero - ossia per governare il mondo. Otto anni dopo, persistendo il rifiuto americano di condividere le decisioni strategiche mondiali, e allargandosi il conflitto in Vietnam, De Gaulle uscì a metà dalla Nato (mantenne l'adesione al trattato, ma si ritirò dal comando unificato, e impose la chiusura delle basi Nato e americane in territorio francese). Dichiaratamente contro “la Nato globale” - per non dover condividere decisioni come quella del Vietnam prese unilateralmente dagli Stati Uniti. Altro motivo di contestazione era la dottrina della “risposta flessibile” all’Urss, enunciata dal ministro della Difesa Usa McNamara nel febbraio 1962 (4), che lasciava ampia discrezionalità agli Stati Uniti. Il generale era anche di questo parere: “È un dato di fatto che l’Europa non è più il centro delle crisi internazionali”(5). Ma non tentò di avviare un corso più europeista della politica di sicurezza. Il trattato franco-tedesco del 1963, o dell’Eliseo, chiuse l’epoca della diffidenza nei confronti della Germania, ma non rilanciò una politica comune. Nello stesso anno De Gaulle vetò l'’ngresso della Gran Bretagna nel Mec, il Mercato europeo comune.
La revisione della struttura di comando Nato, d'altra parte, nel senso della “equal partnership” con l’Europa, che occupò tutti gli anni Sessanta, si concluse senza esiti (6). La revisione fu avviata da Kennedy nel 1962, con il discorso di Filadelfia detto dei “due pilastri” - successivo alla “risposta flessibile” di McNamara. C’era da un lato il problema di un accesso europeo alla struttura di comando, dall’altro una maggiore partecipazione europea alle spese militari, il burden sharing.
Il riequilibrio che si proponeva nella partnership riguardava la gestione delle decisioni, e limitatamente agli spetti tecnici, o militari, e non le decisioni stesse, o la formazione della volontà all’interno dell’Alleanza. Su questo aspetto, dopo la decisa presa di posizione del generale Eisenhower per un’Europa forte, gli Stati Uniti non lasceranno più aperture. Sul lato tecnico, invece, la condivisione delle responsabilità è da tempo prassi normale. Nella guerra di Serbia la lista dei bombardamenti notturni viene giornalmente approvata dagli ambasciatori Nato dei paesi membri (7). Ma è da dire che il “pilastro europeo” del disegno kennedyano, checché esso dovesse essere, si era frantumato da sé, per le ambizioni nucleari di Gran Bretagna e Francia (la prima atomica francese fu sperimentata nel 1960). Non ci furono revisioni a Ottawa nel 1974, in occasione del rinnovo della Nato nel suo venticinquennale.

Eurogruppo
Di sicurezza europea si è tornati a parlare nell'ambito del cosiddetto Eurogruppo, costituito a fine 1968 su base informale tra i paesi europei membri della Nato, rappresentati dai ministri della Difesa e dai delegati permanenti presso l'Alleanza. Se ne tenne fuori la Francia. Gli obiettivi dell'Eurogruppo erano infatti ambiziosi, e per questo inaccettabili al generale De Gaulle: una pi incisiva presenza europea nell'Alleanza atlantica e il coordinamento delle politiche nazionali di difesa, dall’addestramento alla logistica e agli armamenti.
L’Eurogruppo seguiva Praga, l’intromissione sovietica in Cecoslovacchia. E si accompagnò a una rilancio della Cee, alla quale la Gran Bretagna cominciò a mostrare interesse. Fu sostenuto con vivacità dal governo tedesco di Willy Brandt. Ma già prima della caduta del cancelliere socialdemocratico nel 1974, spiato nei suoi stessi uffici dai tedeschi dell'Est, l’Eurogruppo era defunto. Una parentesi d’inerzia lunga un venticinquennio si apriva. Sporadici annunci di costituzione di brigate miste, franco-tedesche, anglo-tedesche e simili resteranno lettera morta.

La svolta di Blair
La sicurezza europea è rimasta in sordina nelle discussioni che hanno approdato al rilancio in senso unitario della Comunità europea con l'unione monetaria e economica di Maastricht l'11 dicembre 1991. Il trattato di Maastricht mette la sicurezza da parte, come “secondo pilastro”, nel gergo europeo, della Ue, da cominciare ad affrontare quando sarà stata realizzata l’unione fiscale e sociale. Il trattato di Amsterdam, del 2 ottobre 1997, ha ripreso e affinato il “secondo pilastro” di Maastricht, e ha fissato anche una data di avvio della politica della sicurezza, l’1 maggio 1999. L’adesione del premier britannico Tony Blair nell’ottobre 1998 all’ipotesi di difesa europea integrata sembra avere anticipato i tempi. E già si fa l’ipotesi di trasformare l’Ueo in organizzazione dell’Unione europea per la difesa e la sicurezza, in collegamento con la Nato. Il fantasma della Pesc potrebbe quindi effettivamente materializzarsi.
In realtà tutto resta ancora da decidere: Amsterdam non precisa gli strumenti e gli obiettivi di una politica europea della sicurezza, e nemmeno dà delle indicazioni. La stessa fusione Ueo-Ue non sarà agevole: solo alcuni membri dell’Ueo sono membri anche dell’Unione europea e della Nato, altri sono membri dell'Ue ma non della Nato, e altri della Nato ma non dell’Ue.
Secondo alcuni (8) il trattato avrebbe già aperto la porta alla Pesc per il semplice fatto che consente la fusione della Ueo nella Ue, insieme con la possibilitò di decidere non all’unanimità, la costituzione di una unità di analisi e pianificazione, e la nomina del famoso Mister Pesc. Nulla di sostanziale, in realtà. Amsterdam introduce il “veto costruttivo”, per cui il paese membro che non condivide una scelta può astenersene senza boicottarla. E sanziona, sulla scia di Maastricht, due livelli di decisione: uno generale e di orientamento, che richiede l'unanimità, e uno di attuazione, dove si possono avere delle maggioranze, e maggioranze diverse su punti diversi. Ma senza alcun indirizzo specifico, nemmeno di politica generale, sulla sicurezza.
In questa materia l’unica novità è la ricezione, che Amsterdam ha effettuato, della cosiddetta “lista Petersberg”, messa a punto dalla Ueo nel 1991 in questa località alla periferia di Bonn. La lista,
La lista, o “compiti di Petersberg”, prevede in effetti innovazioni sostanziali, compreso l’allestimento di forze europee umanitarie, di pace, d’interposizione. Un cammino sul quale alcuni paesi si sono già inoltrati con benefici, seppure senza coordinamento unitario (v. infra, “Riserve europee”).
Sul piano politico l’unica novità è la svolta di Blair. Discussa al vertice europeo di Poertschah il 24-25 ottobre 1998, durante la presidenza austriaca della Ue, e in incontro bilaterali fra Blair e vari capi di governo europei, la svolta è approdata il 3-4 dicembre a Saint-Malo, nel corso del vertice periodico franco-britannico, a un’intesa politica specifica: Londra riconosce ufficialmente l’esigenza di un organismo europeo di difesa in seno alla Ue, e la Francia riafferma ufficialmente il legame tra la difesa europea e la Nato. La svolta è maturata insieme con i piani Nato di guerra alla Serbia per la questione del Kosovo, che erano stati appena approntati da Washington e comunicati al vertice Ue di fine settembre a Vilamoura in Portogallo, quindi provvisoriamente accantonati per evitare la stagione invernale (9).
L’entente di Saint-Malo ha trovato l’adesione il 18 marzo della Germania, a conclusione di un incontro tripartito a Bonn dei ministri degli Esteri e della Difesa. Parigi, Londra e Bonn sarebbero d'accordo per la creazione a breve termine di un comitato di politica estera e di un comitato militare permanenti, nonché di uno stato maggiore congiunto, alimentati dall’unità di analisi prevista dal trattato di Amsterdam (10). Di questo organismo dovrebbero fare parte, secondo i tre proponenti, quei paesi che intendono assumersi le operazioni di difesa europee - allo stesso modo come hanno dato vita all’euro alcuni e non tutti i membri della Ue. Si eviterebbero in questo modo i problemi posti dalle diverse appartenenze Ue-Ueo-Nato. Ma nulla è in realtà deciso, e tutto è ancora da definire.
Il trattato di Amsterdam applicandosi, per il “pilastro” della difesa, a partire dall’1 maggio, il governo Schroeder è tuttavia all’opera per portare al vertice europeo di Colonia a giugno alcune misure pratiche per favorire la fusione della Ueo nella Ue. Tra esse la nomina di Mister Pesc, un Alto Commissario per la politica estera e la sicurezza che sia anche segretario generale della Ueo. Ma questo Alto Commissario parte con una coloritura diminutiva, poiché non avrà nemmeno lo status di membro della Commissione esecutiva della Ue, bensì solo quella di segretario generale del consiglio dei ministri. È questa una carica anonima finora detenuta da funzionari della Commissione, che assumerà rilievo solo se le novità politiche si confermeranno.

Ambivalenza Usa: leadership e oneri

Gli Stati Uniti superarono rapidamente le perplessità iniziali sulla Ced, espresse dall'Alto commissario americano per la Germania John McCloy. “La guerra di Corea”, commentava Altiero Spinelli nell'ottobre 1950 (11), “ha avuto come prima conseguenza che il problema della difesa dell'Europa occidentale è divenuto attualissimo”. Europe first è ora la parola d'ordine, e in questo ambito gli Stati Uniti hanno ripreso “l'idea che circola sulla stampa europea di un esercito sovranazionale il quale permetterebbe un’organizzazione unitaria della difesa ed eviterebbe la ricostruzione di un vero e proprio esercito tedesco”. Con l’effetto paradossale, nota Spinelli, che gli Stati Uniti d’Europa si fanno di là dall'Atlantico, mentre di qua si agitano “gli Stati Disuniti”, che applaudono ma frappongono le “reciproche diffidenze e paure”.
Il ruolo di federatore esterno fu rappresentato, con convinzione, dal generale Eisenhower, che a dicembre del 1950 assunse il comando in capo delle forze Nato in Europa. All’apertura della conferenza di Parigi il 27 gennaio 1951 il segretario di Stato Dean Acheson scrisse a Schuman una lettera calorosa di adesione degli Stati Uniti alla creazione di una forza armata europea, comprendente dei contingenti tedeschi, sotto un comando sopra-nazionale. Eisenhower ribadì pubblicamente il suo appoggio in un discorso a Londra il 3 luglio 1951 - il discorso della “efficiente federazione europea” - con termini energici che sorpresero i suoi ascoltatori, tra i quali Attlee, Churchill, Morrison, che pure erano in principio europeisti (12). In particolare Eisenhower sostenne che solo un’Europa unita avrebbe potuto trovare la risorse adeguate per una politica di difesa, anticipando la soluzione dell’annoso burden sharing. Alla sessione di Roma del Consiglio atlantico, nel novembre 1951, il generale si presentò da campione della Ced - favorendo il superamento delle persistenti perplessità dei paesi del Benelux.
Dopo l’elezione di Eisenhower alla presidenza a fine 1952, le pressioni americane in favore della Ced furono insistenti. Per il segretario di Stato Foster Dulles la difesa europea era indispensabile alla strategia di contenimento dell’Unione Sovietica. In una conferenza stampa divenuta famosa, il 14 dicembre 1953 Foster Dulles usò toni perfino ultimativi: “Ciò che vogliamo (con l’esercito europeo) non è di riarmare la Germania, ma di creare una situazione che renda impossibile il suicidio della Francia e della Germania per un’altra guerra tra i due paesi. Se, contrariamente alle nostre speranze, si seguissero altre strade, gli Stati Uniti si vedrebbero costretti a un esame lacerante della loro politica estera" (13). Agonizing reappraisal sono le parole di Foster Dulles, con le quali il discorso è entrato negli annali.
La mancata ratifica francese creò la prima crisi tra la Francia e gli Stati Uniti. Foster Dulles si recò in visita a Londra e Bonn, e impose le soluzioni di ricambio che furono adottate alla conferenza di Londra di fine settembre 1954. La crisi di Suez due anni dopo, che vide Eisenhower al fianco di Nasser contro Francia e Gran Bretagna (e Israele), segnò la fine di ogni disegno di Europa come forza autonoma. Malgrado l'impegno di Eisenhower e Foster Dulles non c’era del resto concordia in America sull’opportunità di avere una forza europea autonoma, per quanto integrata nella Nato, che inevitabilmente avrebbe comportato divaricazioni, nelle strutture di comando, nelle strategie e nelle tecnologie - particolarmente temuto lo sviluppo di una forza nucleare autonoma. È la tendenza dell’America first, che emerge a tratti regolari al Pentagono, sopratutto, e al Congresso. Al Congresso questa ambivalenza si ripropone cronicamente in termini di bilancio - trovando curiosamente sempre d’accordo, ma inattivi, i partner europei. Da una parte e dall’altra si ribadisce a cadenza alternata che lo sviluppo di un’identità europea di difesa rafforzerebbe i rapporti interatlantici perché risolverebbe l’annoso problema di una redistribuzione degli oneri dell’alleanza. È la questione del burden sharing.
Dalla metà degli Sessanta e per un decennio, sotto l'enorme impegno della guerra in Vietnam, la questione della riforma delle strutture di comando Nato, e della redistribuzione degli oneri, per una partnership meno sbilanciata fra Europa e Stati Uniti tornò all’ordine del giorno, e più per impulso americano. Coronata figurativamente dalla dottrina kissingeriana del multipolarismo, che riportava la Cina sul proscenio mondiale, e anche, potenzialmente, l'Europa. Ma non molto dopo, nel 1973, l’anno dell’Europa nelle attese di Nixon e dello stesso Kissinger, neo-segretario di Stato, l’Europa dimostrava la sua inconsistenza nelle drammatiche vicende congiunte del petrolio, del dollaro e della guerra arabo-israeliana, e la bilancia pendeva decisamente di nuovo dal lato americano. Oggi l’ambivalenza americana fra alterità e interdipendenza, costante per cinquant’anni, risulta con ogni evidenza superata, dopo la fine della guerra fredda, che per numerosi aspetti fu sopratutto una guerra europea, e l’Europa non trova più negli Stati Uniti il federatore, per quanto a intermittenza, che essi sono stati nel passato.
La percezione di questo cambiamento è inavvertita per l’ottica diversa con cui l’Europa guarda agli Stati Uniti, come a una proiezione della storia e della mentalità europee, e gli Stati Uniti guardano all'Europa, che sempre più è solo una delle tre o quattro aree o culture del mondo con le quali convivono. Gli Stati Uniti hanno una diversa “natura” sociale e cultura politica rispetto al Vecchio Continente.
La vocazione forte all’incontestata leadership mondiale, da Berlino a Saddam Hussein, passando per Grenada, è dottrina consolidata del dipartimento di Stato e del Pentagono. Essa è nei fatti sul piano tecnologico e del potere finanziario. Su quello diplomatico gli Stati Uniti hanno affermato concezioni originali, che innovano il diritto internazionale e la tradizione e si possono anche dire esclusive. L'inizio si può porre nella conferenza di Casablanca, gennaio 1943, dove Roosevelt impose a Churchill il nuovo concetto di “resa incondizionata” o “vittoria totale” (un percorso che porta oggi a identificare il Nemico nella Forza del Male), facendo strada, sempre contro il parere di Churchill, alla penetrazione sovietica in Europa e quindi a Yalta (14). L’alterità di interessi fra Stati Uniti e Europa riemergerà con costanza, a tratti con durezza, per tutto il dopoguerra, nella crisi di Suez, e successivamente del Libano, nella crisi del 1973, nell’insofferenza di Brzezinski, segretario di Stato di Carter, e durante la presidenza Reagan con il bombardamento della Libia e la “Achille Lauro”.
Ultimamente è manifesta nelle questioni jugoslave: gli Stati Uniti sono passati da un disinteresse totale, ribadito ancora a metà 1992, col martirio della Bosnia in corso (il segretario di Stato James Baker rispose martellando le parole:”Noi non siamo e non possiamo essere la polizia del mondo”), all’iniziativa esclusiva, a Dayton e a Rambouillet.

Riserve europee: egemonia, nucleare, bilateralismo

“Dal 1951 al 1954”, si può dire con Spinelli, “il federalismo europeo giunge fino alla soglia di una vittoria parziale ma sostanziale, ed è infine battuto” - per tutti gli anni successivi e fino a oggi. È battuto sulla questione delle Ced e non accenna a riprendersi, per la convergente azione delle gelosie nazionali e del problema - che in realtà però non è tale - degli impegni di spesa. E ciò malgrado un’urgenza che, se oggi sembra inesistente, in numerose occasioni e per lunghi periodi è stata invece drammatica, nelle tante invasioni sovietiche all’Est, minacciate o realizzate, nella questione degli euromissili, negli eventi che hanno portato al 1989.
La spinta federativa fu forte su impulso inglese dapprima, e quindi francese. Churchill rispose nel 1950 all’iniziativa americana per una difesa dell’Europa in Europa, che aveva già portato alla Nato, con i famosi discorsi di Zurigo e Fulton, nei quali sostenne che l’Europa aveva il dovere di unirsi, e con la creazione del Movimento europeo, di cui diverrà primo presidente il socialista belga Paul-Henri Spaak. La Francia propose il piano Pleven, e il piano Schuman che porterà alla Comunità del carbone e dell'acciaio (Ceca). Ma furono gli stessi due paesi a affossare la Ced e ogni altro progetto di difesa - e quindi di politica - unificata.
In termini pratici quella che è oggi la Pesc restò a lungo improponibile per la questione nucleare. La Gran Bretagna ristabilì nel 1957, mentre nasceva il Mercato Comune Europeo, la collaborazione nucleare con gli Stati Uniti, avviata con il progetto Manhattan durante la guerra mondiale e interrotta da Washington nel 1946. Il rapporto privilegiato, appena ristabilito, presto s’incrinò: Londra restò senza vettori propri, dopo il forzato abbandono nel 1960 del programma Blue Streak, e gli Stati Uniti accettarono di fornirglieli, ma solo del tipo a corta gittata Polaris, da tempo sperimentati, e non quelli di nuova progettazione Skybolt. Ma la Francia, dopo il ridimensionamento subito in Indocina, a Suez e in Algeria, aveva reagito dotandosi di un proprio deterrente nazionale. La prima atomica francese, preparata dagli ultimi governi della quarta Repubblica, fu provata nel Sahara algerino nel 1960. Né Gran Bretagna né Francia rinunceranno al privilegio nazionale della bomba. E la questione si complicò, invece che risolversi, come proponeva Nenni (v. infra), quando nel 1968 si arrivò al trattato di non proliferazione nucleare. La Germania, alla quale lo statuto Ueo pure preclude l'arma nucleare, aspetterà sette anni per ratificare il Tnp, con la condizione che la ratifica non vincola in futuro l’Unione europea.
Inevitabilmente, d’altra parte, il deterrente nucleare francese e inglese è parte della Nato. Ciò complicherà per quasi un decennio negli negli anni Ottanta, fino all'accordo del 1987, il contenzioso Usa-Urss sugli euromissili (quanti SS20 l'Urss poteva schierare in Europa, e quanti Pershing II e Cruise gli Usa): uno dei motivi di attrito fu il conteggio degli arsenali inglese e francese in quello americano.
Nel 1984-85 un insistito tentativo fu fatto da parte francese, infine senza esito, per dichiarare il deterrente francese deterrente europeo - con l'unico obiettivo di staccare Bonn da Washington e portarla a sostenere economicamente la force de frappe francese. Il tentativo seguì una messa in guardia di Mitterrand a Kohl, al ritorno del cancelliere tedesco da Mosca nel luglio del 1983 (15). Chiedendo spiegazioni a Kohl sulle dichiarazioni fatte nella capitale sovietica a proposito dell’unificazione tedesca, con implicazioni neutraliste, il presidente francese affermava che esse erano incompatibili con una comune difesa militare europea e con la stessa unione politica dell'Europa occidentale. Il timore di una Germania neutralista sotto la guida dell'allora neo-eletto e sconosciuto Kohl aveva spinto già Mitterrand a rivitalizzare sullo scorcio del 1982 l’Ueo. A questo stesso fine Mitterrand scelse infine di appoggiare l’installazione degli euromissili americani in Germania.
Non migliore esito ebbe un parallelo tentativo francese, indirizzato al governo della signora Thatcher, di un asse militare Parigi-Londra-Bonn (16). Il tentativo di europeizzare il deterrente francese fu abbandonato con la riunificazione della Germania nel 1990.
Singolare è anche il modo come periodicamente i paesi europei hanno reagito alle spinte americane all’unificazione delle forze, negli anni Cinquanta, e successivamente al burden sharing e alla ridefinizione della struttura di comando nella Nato per rendere più bilanciato il rapporto Usa-Europa. Singolare è la loro resistenza. Che solitamente viene attribuita a ragioni di bilancio.
Ma il burden sharing, o redistribuzione degli oneri fra Usa e Europa, molto sentito al Congresso, non pone in realtà problemi dal punto di vista materiale. I membri europei della Nato schierano nominalmente 2,5 milioni di soldati, contro l'1,4 degli Americani. E hanno spese militari complessivamente pari al 60 per cento di quelle americane. È la loro “capacità di proiezione” - in sostanza la loro efficacia nella guerra moderna, di mezzi e tecnologia più che di uomini – che è invece bassissima, valutandosi sul 10 per cento di quella americana. È un problema di qualità della spesa e non di quantità, quindi non pone problemi di bilancio, il grande vincolo europeo in questi anni di radicale ristrutturazione delle economie. Si tratta di avere delle forze capaci di intervenire in conflitti locali, con rapidità, sfruttando le sinergie interarma, utilizzando le tecnologie più che gli uomini.
Francia e Gran Bretagna sono avanti su questa strada (e per efficienza - nel rapporto costi\effetti - sono valutate allo stesso livello, se non superiori, agli Stati Uniti). Sono intervenute in Bosnia con decisione nel giugno-luglio 1995, prima che gli Stati Uniti e la Nato riuscissero a montare l’operazione Deliberate Force. È europea, a comando francese, l'operazione Forza di Estrazione in Macedonia, che avrebbe potuto instradare diversamente la questione del Kosovo, se non fossero stati ritirati gli osservatori Osce, alla cui protezione militare essa era intesa. Anche l’Italia ha avuto successo con l’operazione Alba in Albania nel 1997. Ma questo potenziale di pronto intervento è naturalmente modesto. Nel complesso i Paesi europei sono attardati, con forze armate che, benché costose in termini di infrastrutture, addestramento, gerarchie, sono inservibili.
La mancata ristrutturazione non è però soltanto un fatto di vecchie abitudini, delle inerzie burocratiche e parlamentari. Nel quadro di fondo di una sottovalutazione specifica - al comodo riparo, fatte tutte le somme, dell’ombrello americano - i problemi della sicurezza restano il terreno favorito per le professioni di sovranità o grandezza nazionale. C’è un’asimmetria di fondo in Europa sui fatti della sicurezza. Pochi paesi, tra essi l’Italia, hanno favorito o favoriscono la diplomazia multilaterale, che è il primissimo gradino della sopranazionalità. Gran Bretagna, Francia e Germania, e sulle loro tracce quindi tutti gli altri, coltivano la loro speciale relazione bilaterale con gli Stati Uniti, e quindi col resto del mondo, e su ogni questione aperta individuano una propria strategia e perfino proprie finalità. Non c’èŠ una rete orizzontale che colleghi interessi e analisi dei paesi europei. Nemmeno l’insperata congiuntura di una Ue per tredici quindicesimi socialista ha condotto l’Europa a una posizione univoca sulla Serbia e sul Kosovo.
Del resto è tutt'oggi più efficace il rapporto asimmetrico con gli Usa che non quello diretto fra partner europei: quello fra Italia e Usa meglio che non fra Italia e Francia, o Italia e Gran Bretagna - per non dire fra Itali e Olanda o Norvegia, che ne diffidano sempre e comunque scopertamente. Fra Gran Bretagna e Francia, malgrado Saint-Malo, la cronaca e l'aneddotica sono sempre quelle di una storia ormai quasi millenaria. Sospetti permangono forti a Parigi sugli scopi effettivi di Blair, di cui si teme una ripetizione della sperimentata diplomazia britannica di essere dentro ogni possibile sviluppo europeo per controllarlo e non per sostenerlo. Da Londra vengono a ripetizione accuse a Parigi di avere sabotato la guerra in Irak passando informazioni al governo di Saddam Hussein, e perfino la guerra in Serbia.

Italia tra speranza e prudenza

L’idea di una integrazione sopranazionale che doveva passare per primo dalla sicurezza risale alle primissime manifestazioni di europeismo, contenute nel Manifesto di Ventotene di Altiero Spinelli e Ernesto Rossi - confinati nell'isola dal fascismo (17). Il Manifesto di Ventotene, redatto da Spinelli con Ernesto Rossi, discepolo di Einaudi, nel 1941, sarà pubblicato clandestinamente nel gennaio 1944 da Eugenio Colorni, figura di spicco del socialismo, poi martire della Resistenza.
È quindi in ambito laico e socialista che si è manifestato in Italia l'europeismo federalista, che privilegia l'unione politica e la sicurezza (18). Ma saranno i cattolici a gestirne le prime fasi, forti della supremazia politica e anche di una spiccata, seppure cauta, sensibilità per il tema dell’Europa nella sicurezza - in Italia come in Germania e nella stessa Francia, dove però il partito confessionale era una piccola minoranza. Su questo - come su tanti altri argomenti - De Gasperi resterà infine deluso (19). Ma afferrò subito l’opportunità della Ced, nel quadro della politica di ristabilimento dell'Italia nel concerto europeo e occidentale: fu uno dei pochi a rispondere subito positivamente al piano Pleven (gli altri erano la Germania federale e il Belgio), e col conte Sforza dapprima, poi assumendo in proprio anche gli Esteri, ne seguì con partecipazione gli sviluppi.
Paolo Emilio Taviani, che rappresentava l'Italia a Parigi ai lavori del piano Schuman per la Ceca, partecipò anche alla conferenza Ced il 15 febbraio 1951. Nelle successive trattative pose i problemi, fondamentali per ogni istituzione sopranazionale, di un controllo parlamentare e di un finanziamento attraverso fonti fiscali proprie. In alternativa, l'Italia propose successivamente che l’Assemblea prevista dalla Ced fosse incaricata di preparare il controllo parlamentare e quindi la costituzione politica della Comunità stessa. Questa richiesta fu recepita, con modifiche, nell’art.38 del trattato Ced. Il contributo italiano continuò anche dopo De Gasperi. Alla conferenza di Bruxelles, del 19 settembre 1954, convocata da Mendès-France per salvare la Ced mediante un rinvio, Attilio Piccioni argomentò sobriamente che il carattere sopranazionale della Ced era e doveva restare fondamentale nel trattato, e che non erano assolutamente possibili discriminazioni contro nessuno dei partecipanti. Aggiunse ad ogni buon conto che potevano passare solo proposte che non richiedessero nuove ratifiche parlamentari.
E a questo punto si può dire che il rigetto francese sia stato accolto con sollievo in Italia. Sul tema del riarmo gli equilibri politici interni si facevano più che mai precari, e De Gasperi fu tanto pronto ad accogliere l'invito francese nel 1951 quanto cauto nel rinviare la ratifica del trattato a ridosso di quella francese - che non ci fu. Alla fiera opposizione del Pci e del Psi si aggiungevano quella dei neo-fascisti e quella di una parte della Dc. Mentre in consiglio dei ministri il titolare della Difesa Pacciardi dichiarava che non avrebbe firmato un trattato nel quale si sanzionasse la rinuncia all’esercito italiano senza che ci fossero precise garanzie di costituzione di un’autorità politica (20).
Pietro Nenni commentava nel 1954 il fallimento della Ced rovesciando la prospettiva con la quale il progetto di Comunità europea di difesa è passato alla storia: “Polemizzammo con tanto accanimento contro le strutture sovranazionali non per rinchiuderci nell'orticello nazionale ma perché esse implicavano la subordinazione e l’asservimento politico economico e militare delle piccole potenze alle grandi e dell’Europa all’America” (21). Bisognerà aspettare Praga perché la sinistra muti atteggiamento. Anche se il Pci accetterà la difesa occidentale, dentro la Nato (“l’ombrello americano”), solo nel 1975, per iniziativa personale di Enrico Berlinguer, contestata in ampi settori del partito.
Nenni, ministro degli Esteri col primo governo Rumor, tentò un rilancio della politica di sicurezza. Ne è traccia il comunicato finale dell’incontro a Londra il 28 aprile 1969 con Michael Stewart, titolare del Foreign Office nel governo laburista di Harold Wilson: “Nell’Alleanza Atlantica....la formazione di una componente europea costituisce un momento positivo del processo destinato a portare alla formazione di un’Europa unita” (21). Con A.Spinelli, suo consulente agli Esteri in materia di non proliferazione nucleare, Nenni lavorò anche a un’ipotesi di difesa europea integrata senza armamento nucleare. “Non è necessario per l'Europa unita diventare una potenza nucleare”, sosteneva Spinelli, al cui giudizio il trattato sulla non proliferazione nucleare offriva un’occasione di rilanciare la sicurezza, e quindi l’unità europea (22). Ma l’ipotesi non ebbe seguito.

Prospettive

“Occorre restituire all’Europa l'’utonomia perduta in fatto di politica internazionale e della difesa. Guai se creassimo un gigante dal punto di vista economico e un nano sul versante cruciale delle relazioni diplomatiche”. È il commento augurale di Gianni Agnelli all’euro, ed è ‘'opinione di molti atlantisti convinti oltre che europeisti. Si parte dalla ovvia constatazione, nelle parole del presidente della Commissione difesa del Bundestag, Friedbert Pflueger (23), che “la fine della guerra fredda non ha portato la pace universale”, e dall’altrettanto ovvia considerazione che “gli Europei vogliono avere nella politica mondiale un ruolo di soggetto e non di oggetto”. Né l’Europa può più evitare di prenderne atto dopo la guerra in Serbia, guerra europea che gli Europei non hanno gestito, né diplomaticamente né militarmente - dopo una serie di conflitti in Jugoslavia non meno barbarici che l’hanno vista inetta e tutto sommato inerte.
Alcuni di questi punti di crisi saranno con noi per molto tempo: la questione serba non solo ma anche la questione albanese, che tocca Macedonia e Grecia, con ‘'inarrestabile flusso dei rifugiati, il conflitto latente greco-turco, il fondamentamentalismo islamico alle porte, e la Russia naturalmente, la listaè solo lunga. La Russia è per l'Unione europea la controparte degli Stati Uniti: una potenza da non antagonizzare in nessuna misura. D’altra parte, se è vero che si va verso un negoziato per la “distruzione massiccia” degli armamenti, una nuova corsa al riarmo non è da escludere. La presidenza Yeltsin ormai al termine sarà certamente rimpianta per la moderazione. Mentre monta forte, impersonata nel primo ministro in carica Primakov, la tentazione di un asse Mosca-Pechino-Delhi, una sorta di “asse degli esclusi”, tollerante in materia di proliferazone nucleare, sull’inoppugnabile principio della ricostituzione dell’equilibrio internazionale del potere.
Ma la Politica europea di sicurezza resta tutta da fare. Se il problema della quantità (spesa, mezzi, effettivi) è nei fatti minore, restano irrisolti i due ostacoli di sempre, il consenso europeo, l'assenso americano. Cardine incontestato della sovranità è il diritto della pace e della guerra. Ma l'Europa, che si vuole sovrana, ne ha fatto finora a meno. Si è assunta, in quanto Ue, oneri importanti: il mantenimento dell'Autorità Palestinese, la ricostruzione in Bosnia, la ricostruzione nell'Europa dell'Est. Ma solo sul piano finanziario. Lo stesso accordo tripartito Gran Bretagna-Francia-Germania in vista del varo della Pesc a giugno è ancora da verificare nella sua portata politica.
La sicurezza europea passa per la revisione degli accordi Nato. La stessa svolta di Blair si inquadra nelle discussioni in corso in ambito Nato sulla cosiddetta Identità europea di sicurezza e di difesa (Esdi). Tutti i problemi europei su elencati sono peraltro anche problemi Nato. Fra Alleanza atlantica e Unione europea i rapporti sono formalmente inesistenti, le due entità sono separate. Ma la Pesc non potrà farsi senza una definizione dei suoi rapporti con la Nato.
L'Alleanza atlantica rappresenta un'esperienza eccezionale nelle relazioni internazionali. Sia per la durata, in quanto alleanza multilaterale. Sia per la sopravvivenza al suo scopo, la difesa contro il blocco sovietico. E per la sua natura: che un’alleanza pletorica trovi, sempre con tanta continuità, un asse di comando definito. Con il suo rovescio: mai prima d’ora tanti Stati hanno deciso di rinunciare alla loro sovranità, e per così lungo tempo, in favore di una potenza leader. È l’effetto, senza dubbio, della minaccia comunista, anch’essa senza precedenti, per radicalità e potenza. Ma non sarà agevole rinnovare quella rinuncia.
Il rinnovamento dell’Alleanza si è sviluppato finora per stanche linee burocratiche, che il segretario generale Javier Solana ha diligentemente elencate al convegno dell’Istituto Affari Internazionali per “Una nuova Nato una nuova Europa” alla Camera dei deputati il 25 gennaio, in preparazione delle celebrazioni ufficiali del cinquantenario il 23-25 aprile a Washington: Partnership for Peace (ristrutturazione delle forze armate), Euro-Atlantic Partners Council (organismo di dibattito allargato agli associati: conta 25 membri), Mediterranean Cooperation. Il vertice  di Washington, che avrebbe dovuto varare l’Esdi e un “Nuovo concetto strategico” per l’Alleanza, si è limitato a dichiarazioni generiche per entrambi i titoli - e alla conferma al dipartimento di Stato e al Pentagono del ruolo di leader incondizionati della guerra in Serbia.
Negli unici passi del Nuovo concetto strategico che hanno significato la Pesc sembra esclusa. La Nato, che deve affrontare “incertezza e instabilità” dentro e attorno l’area Euro-Atlantica “e la possibilità di crisi regionali alla periferia dell’Alleanza che potrebbero evolvere rapidamente…, rimane il foro essenziale di consultazione tra gli alleati e il foro di accordo per le politiche che riguardino gli impegni di sicurezza e difesa dei suoi membri” (24). Nemmeno sulle Combined joint task forces varate al Consiglio atlantico di Berlino (1996) si sono fatti passi avanti: si tratta di meccanismi operativi per “forze separabili ma non separate”, che consentirebbero agli Europei di gestire crisi minori ai propri confini, utilizzando le strutture Nato, anche senza la partecipazione diretta degli Stati Uniti.
I caratteri essenziali del rapporto Nato-Ue restano quelli definiti da Helmut Schmidt alla vigilia del vertice di Washington (25), in un quadro generale di indeterminatezza (“l’Occidente, nel complesso, è privo di una strategia globale”): “La «nuova Nato» che gli americani vogliono tenere a battesimo deve fare in modo - così almeno spera qualcuno, dal ministro degli Esteri Albright all’ex consigliere per la sicurezza Brzezinski - che gli europei, anche nel nuovo secolo, si facciano guidare da Washington”. Questo non è possibile, secondo Schmidt, perché “l’arroganza di Washington” non è una politica, e perché “gli americani non possono offrire una strategia globale a lungo termine”, non per la Russia, non per la Cina, l’India, l’islam, per l’economia, per l’ecologia.
Lo stesso vertice di Washington ha ribadito l’esigenza di un disegno globale, denunciando “l'emergere di nuovi rischi per la pace e la stabilità Euro-atlantiche, tra l'essi l’oppressione, il conflitto etnico, la crisi economica, il collasso dell’ordine politico, e la proliferazione di ordigni di distruzione di massa”. Ma, insieme con questi “nuovi rischi”, che allargano la conflittualità a ogni evento, ha lasciato indeterminati anche i principi e gli strumenti difensivi.
Schmidt, l’ex cancelliere che è stato il più filoamericano fra tutti i leader Spd, oggi commentatore politico, ritiene che comunque i conflitti ricadranno sugli alleati, essendo strategia ormai irreversibile degli Stati Uniti d'impegnarsi a fondo per la difesa solo nei casi eccezionali in cui la sicurezza degli stessi Stati Uniti sia in gioco, negli altri limitandosi “a impiegare la loro alta tecnologia militare e di telecomunicazioni, stando a distanza di sicurezza”, e appoggiandosi “alle truppe dei loro alleati”.
Tutto ciò potrebbe favorire la Pesc, corrispondendo questa dottrina militare e l’incertezza politica globale ad ampi spazi di autonomia. In sintesi, la definizione di una nuova partnership con l'Europa è essenziale alla stessa sopravvivenza della Nato. Tuttavia l’Europa deve chiarirsi i propri indirizzi. Un circolo vizioso che solo un’iniziativa politica decisa può rompere.

NOTE

(1) Discorso alla Camera dei deputati, Sala della Lupa, 25 gennaio 1999, in occasione del convegno Iai-Cespi (Istituto Affari Internazionali-Centro Studi di Politica Internazionale), ”Il cinquantesimo anniversario dell’Alleanza Atlantica: una nuova Nato per una nuova Europa¯.

(2) Franca Gusmaroli, a cura di, “I sì e i no della difesa europea”, Bologna, Il Mulino, 1974, p.12.

(3) J.B.Duroselle,”Histoire diplomatique de 1919 à nos jours¯, Parigi, Dalloz, 1962, p. 537.

(4) “Il nostro impegno è di usare le nostre forze in modo controllato e deliberato”: discorso di Robert McNamara all’American Bar Foundation, 17 febbraio 1962.

(5) Memorandum francese del 10 marzo 1966, in cui De Gaulle comunicava le sue decisioni ai paesi membri della Nato, dopo la lettera del 7 marzo al presidente americano Johnson. V. Paolo Vittorelli, “La conferenza europea”, “Mondo Operaio”, marzo 1967.

(6) Sull'aggrovigliata trattativa v. Henry A. Kissinger,”The troubled partnership¯, New York, 1965, e “Lo Spettatore Internazionale”, gennaio-febbraio 1967, “Sommario delle proposte di riforma della Nato”.

(7) “Nato Summit”, in “International Herald Tribune”, 26 aprile 1999. Dopo il vertice Nato a Washington del 23-25 aprile le regole furono cambiate per semplificare le operazioni: Gli ambasciatori approvano una lista d'insieme degli obiettivi e il comandante in capo generale Clark decide quando e come colpirli.
Kissinger, nel saggio che “Newsweek” ha intitolato “Doing Injury to History”, spiega: “La coesione della Nato è minacciata primariamente perché era basata sull’insostenibile accordo di Rambouillet. Resta da vedere quanto a lungo potrà essere mantenuta quando la reazione pubblica alla intensità e alla durata dei bombardamenti si farà strada, e quando diventerà apparente che le conseguenze a lungo termine della campagna in corso dovranno essere controllate da forze Nato di terra”. Partendo dall'ovvia considerazione: “Il presidente Clinton ha sostenuto che, dopo un breve periodo di occupazione Nato, i gruppi etnici si riconcilieranno. No c’è base realistica per questo assioma”. E dal fatto, che il common belief diplomatico e strategico europeo non considera che “quando forze americane sono impegnate in guerra la vittoria è la sola strategia di uscita”. Gli esiti della guerra sono quindi, concludeva, imprevedibili.
Così non è stato, si può aggiungere oggi, ma perché evidentemente anche all’ex segretario di Stato erano celati gli scopi veri della guerra. Kissinger così continuava - premettendo: “Ho sostenuto ogni azione militare dell’amministrazione Clinton”: la guerra è partita col piede sbagliato a Rambouillet, ne negoziato ultimativo con la Serbia sul Kossovo. “Condurre un negoziato basato su un accordo redatto  interamente nelle cancellerie straniere e cercare di imporlo con la minaccia di un bombardamento aereo ha solo esacerbato la crisi nel Kossovo. Il testo di Rambouillet fu venduto all’Uck - che inizialmente lo rifiutò - come un trucco per portare tutta la potenza della Nato a pesare sulla Serbia”. I Serbi l'hanno rifiutato perché ci hanno visto una minaccia di quell’occupazione straniera contro la quale la Serbia ha sempre combattuto: “Anche se fossero costretti alla capitolazione coi bombardamenti, difficilmente ci si può aspettare che essi ne accettino consenzienti l’esito”. Mentre l’obiettivo dichiarato dell’Uck era  l’indipendenza, non l'autonomia, e ciò non senza conseguenze su un'eventuale forza Nato d’interposizione: “L'ironico effetto dell’accordo di Rambouillet, nel cui nome la campagna aerea Nato viene condotta, è che le forze di pace Nato sostituiranno i Serbi come ostacolo alle aspirazioni nazionali degli Albanesi - specie se i Serbi saranno troppo indeboliti per fare da contrappeso”. E di più ovviamente alla Grande Albania, che porterebbe alla dislocazione anche della Macedonia.

(8) Gli argomenti degli ottimisti sono sintetizzati da Friedbert Pflueger, presidente cristiano-democratico della Commissione affari europei del Bundestag, in “Géopolitique” n.45, marzo 1999.

(9) “The Path to Crisis”, in “International Herald Tribune”, 19 aprile 1999, e François Heisbourg, “New Division of Labor”, contributo al convegno Iai-Cespi “Una nuova Nato per una nuova Europa”. A proposito della scelta di Blair scrive “Il Foglio”, 20 aprile 1999: “Bisogna risalire agli inizi del Settecento per trovare un’altra aggressione militare di Londra nei confronti di un paese europeo”.

 (10) I termini degli accordi sono quelli resi pubblici da Daniel Vernet su “Le Monde” del 20 marzo 1999.

(11) Altiero Spinelli, “La farsa della difesa europea”, ottobre 1950, articolo ripreso in Id., “L'Europa non cade dal cielo”, Bologna, Il Mulino, 1960, raccolta di scritti pubblicati fra il 1951 e il 1955.

(12) L’intervento di Eisenhower è vividamente riferito da A. Spinelli nell'articolo “Eisenhower contro le mezze misure”, ripubblicato in Id., “L'Europa non cade dal cielo”, pp.125-127. Disse Eisenhower: “L'Europa non potrà raggiungere la grande statura che le sarebbe possibile conseguire per le capacità e lo spirito dei suoi popoli finché sarà divisa da rabberciate barriere territoriali che favoriscono gli interessi locali a danno di quelli comuni, e moltiplicano tutti i prezzi con percentuali agli intermediari, tariffe doganali, tasse e sovrapprezzi....Nel campo politico le barriere favoriscono la diffidenza e il sospetto, servono interessi particolaristici a spese dei popoli, impediscono un’azione efficacemente coordinata per l’evidente e esclusivo bene dell'Europa. Con gli oneri connessi a una divisione forzosa,è evidente che anche un minimo sostanziale sforzo di difesa intaccherà seriamente le risorse dell'Europa”.

(13) Questa e altre citazioni senza diverso riferimento bibliografico sono riprese dai Keesing's Contemprary Archives, la documentazione periodica degli affari internazionali.

(14) “Propongo che ‘'incontro di Casablanca sia chiamato l’Incontro della Resa Incondizionata”, disse il presidente Franklin D.Roosevelt nella conferenza stampa conclusiva. Alla lunga serie di incontri parteciparono gli Stati maggiori dei due paesi. La conferenza aveva lo scopo di programmare azioni di guerra che alleggerissero il fronte sovietico. Stalin non partecipò all'incontro per gli impegni nella controffensiva anti-tedesca.

(15) “Le Nouvel Observateur”, 15 luglio 1983.

(16) Geoffrey Lee Williams e Allan Lee Williams, “The European Defence Initiative”, Londra, MacMillan, 1986, mettono in parallelo la costruzione di un potenziale nucleare anglo-franco-tedesco con la realizzazione dell’Europa politica. Si ipotizzava perfino una sorta di parità nucleare di questo asse con l’Urss, avendo esso un potenziale distruttivo della quasi totalità dell’apparato industriale sovietico e di due terzi della popolazione.

(17) Spinelli divenne europeista leggendo Einaudi. Mentre era confinato a Ponza, dopo essere stato arrestato dalla polizia fascista nel 1927 (nel 1943 sarà l’italiano che ha subito la più lunga detenzione politica), e “dopo l’uscita dal Pci nell’estate del 1937”, ha confidato a Sonia Schmidt, “ho meditato a lungo intorno ai problemi della democrazia senza giungere a conclusioni soddisfacenti per circa un paio d’anni. Nella prima metà del 1939 la lettura degli articoli che Einaudi aveva pubblicato nel 1918 contro la Società delle nazioni e per una federazione europea”, accompagnata dalla lettura di alcuni federalisti inglesi, lo convinsero che la federazione era per l’Europa la via d'uscita dalla cronica bellicosità. V. Sonia Schmidt, “Intervista con Altiero Spinelli”, in A.Spinelli, E.Rossi, “Il Manifesto di Ventotene”, ried., Napoli, Guida, 1982. Il “Manifesto di Ventotene” fu redatto da Spinelli a Ventotene, dove era stato trasferito, nel 1941 insieme con Ernesto Rossi, altro confinato, e fu discusso con Eugenio Colorni e Ursula Hirschmann, che poi lo pubblicarono clandestinamente a Roma nel gennaio 1944. “Alla lettura dei federalisti inglesi siamo giunti così”, ha spiegato Spinelli nella stessa intervista: “Luigi Einaudi, allora professore di economia a Torino, che, insieme a Benedetto Croce, era fra i pochissimi grandi intellettuali liberali, cui il fascismo riconosceva una certa libertà di espressione, era autorizzato a corrispondere con Ernesto Rossi, anch’egli professore di economia, benché questi fosse in carcere, e a mandargli anche qualche libro di economia in italiano o in altra lingua”. Tra gli altri poterono così leggere le “Lettere politiche” che Einaudi aveva inviato al “Corriere della sera” di Luigi Albertini nel 1917-18 con lo pseudonimo di Junius, ripubblicati da Laterza nel 1920. La raccolta è essenzialmente anti-giolittiana - contro il Giolitti che proclamava “a sinistra, sempre più a sinistra”, per il recupero politico dei socialisti. Solo un terzo di paginetta ipotizza l’Europa unita, per sottolineare “l’impensabile” di una Società delle Nazioni: uno Stato europeo sarebbe “uno scopo concreto, pensabile, se pure oggi irraggiungibile”.

(18) Oltre al Movimento federalista di Altiero Spinelli, e alla proiezione italiana del Movimento europeo, vanno ricordati in questo ambito culturale le pubblicazioni “Comprendre” di Umberto ampagnolo, rivista edita a Venezia dalla Société‚ Européenne de Culture, il “Bulletin Européen” di C. Dragan, diretto da Giorgio Del Vecchio, “Iniziativa Europea” di Mario Zagari.

(19) “Vi è un'Europa ma è difficile definirla, difficile come definire la luce oppure l’amore”, dirà De Gasperi alla Tavola rotonda sull’Europa che si tenne a Roma dal 13 al 16 ottobre 1954 con Robert Schuman e vari studiosi: “L’Europa esiste nella sua assenza”. Cit. in Carlo Curcio, “Europa, storia di un'’idea”, Firenze, Vallecchi, 1958, vol.II, p.946.

(20) In A.Spinelli, “L'Europa non cade dal cielo”, cit., p.140.

(21) Pietro Nenni, “Discorsi parlamentar”¯, Camera dei deputati, 1978, p.443, discorso del 21 dicembre 1954. Contro la Ced erano, oltre ai comunisti italiani e francesi, i socialisti italiani e tedeschi. Ma con argomenti differenti. Carlo Schmid sostenne al Budestag che la Ced avrebbe mantenuto per la Germania lo stato di Paese occupato, a sovranità limitata, e propose di dare la precedenza alla piena associazione della Repubblica federale alla Nato. A favore votarono i socialisti in Belgio, naturalmente, su impulso del grande europeista Paul-Henri Spaak, e in Olanda. In Francia i socialisti di Guy Mollet andarono oltre, finendo per essere i soli decisi assertori della Ced: un congresso speciale tenuto a Puteaux il 40 maggio 1954 decise, con 1.969 voti a favore, 1.215 contrari e 285 astensioni, la ratifica della Ced, e con 2.414 voti a favore contro 972, e 68 astensioni, sanzioni disciplinari contro i membri del partito che avessero votato contro.

(22) Pietro Nenni, “I nodi della politica estera italiana”, MIlano, Sugar, 1974, p.218.

(23) Altiero Spinelli, “Note sulla non proliferazione”, in “Lo Spettatore Internazionale”, marzo-aprile 1967, p.110.

(24) Articolo cit.

(25) “The Washington Summits”, cit..

(26)  Helmut Schmidt, “Die Nato gehört nicht Amerika”, la Nato non appartiene all'America, in “Die Zeit”, 22 aprile 1999. L'intervento di H.Schmidt è stato riprodotto da “La Repubblica” il 24 aprile 1999, sotto il titolo “L'Europa e il padrone americano”.