Il
calo del petrolio aumenta la spesa – la propensione al consumo, e agli
investimenti – e non la riduce.
Una
sorta di panico viene diffuso dalle banche d’affari, che sono le fonti della
nostra informazione economica, forse per pigrizia mentale, forse a fini
speculativi, che non ha fondamento. Si calcola un effetto positivo del
calo-petrolio solo sul’economia italiana, e molto limitato, di uno 0,5 per
cento di pil – con uno 0,3 per cento per la Spagna, altra grande importatrice
di idrocarburi. Sull’eurozona si calcola
un effetto zero. Ma con un effetto molto negativo per le altre grandi economie
europee, attorno all’1 per cento di decrescita del pil - per gli Usa si sale
addirittura a un meno 1,8 per cento.
Si
computa statisticamente il calo del prezzo del greggio tra i fattori deflattivi, tra i tanti prezzi cioè in
diminuzione, e il petrolio incide su molti fattori di costo e quindi su molti
prezzi. E quindi, indirettamente, di scoraggiamento, o rinvio, dei consumi. Mentre
il contrario è vero: il calo del greggio stimola e incrementa la propensione al
consumo. Per l’energia, che non è un bene durevole, ma di consumo immediato, il
calo dei prezzi non scoraggia e non rinvia, funziona al contrario. Proiettando
in ragione d’anno i corsi attuali del greggio, rispetto al prezzo massimo di
115 dollari a barile, si avrebbe per l’economia italiana un risparmio di 28
miliardi della bolletta energetica, una vantaggio produttivo enorme, specie per
le piccole e medie imprese, e di bilancio familiare. Il calo del greggio anticipa
e accelera in qualche modo i consumi e gli investimenti.
Un mercato politico
Ma
fa tanto male il calo del petrolio, come si legge? Alle compagnie petrolifere,
ai paesi esportatori, al povero Putin, ai poveri re e emiri del Golfo, agli
assetti finanziari mondiali? Questa “crisi” - movimento rapido e acuto dei
prezzi – conferma che il mercato del petrolio ha un assetto politico prevalente
su quello di mercato, che solitamente si risolve nel gioco della domanda e dell’offerta.
Gli
assetti finanziari sono flessibili, guadagnano sia dall’aumento e dal calo. Il
calo del petrolio lo gestiscono, se non Putin, i re e gli emiri del Golfo. Per
tagliare la produzione del petrolio alternativo, dagli scisti bituminosi, un
settore energetico ad altissimo costo, anche per l’ambiente, in cui il Nord
America si è impantanato. Ufficialmente a fini di diversificazione strategica
dell’approvvigionamento, di riduzione della dipendenza dai paesi esportatori.
In realtà per un boom artificioso: Oltre la metà, il 54 per cent, dei 105 mila
nuovi pozzi di petrolio trivellati nel 2013, erano in Nord America. Un
artificio che i paesi arabi del Golfo hanno sostenuto, grati della protezione
militare americana, ma fino a un certo punto: fino a quando gli altissimi
rendimenti che il caro-petrolio ha loro garantito non è entrato in conflitto
con il controllo del mercato e dei prezzi stessi, che i paesi del Golfo stavano
per perdere. Sono paesi che devono tutto politicamente agli Stati Uniti, ma che
sanno mercanteggiare – sanno come s fa il mercato.
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