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lunedì 19 gennaio 2015

Il mondo com'è (202)

astolfo

Caporetto – Il sinonimo dei tanti morti inutili nella grande guerra è, come era, in Slovenia.
Anche quell’anno, dopo Caporetto, l’inverno fu caldo: non nevicò fino a tre giorni prima di Natale.

Colonialismo – L’Europa è stata in larga parte islamica, sotto governo islamico, molto più a lungo di quanto il Nord Africa e il Medio Oriente siano stati sotto colonizzazione europea, e non ne ha ricavato niente. Solo la Spagna, al tempo del regno di Granada, degli illuminati emiri di Andalusia, con scienziati, medici, filosofi, poeti, musici. Non la Sicilia. Non gli sceiccati costieri della Calabria o la Liguria. Non  i Balcani in quattro o cinque secoli. Il colonialismo europeo introdusse coltivazioni, ingegneria, comunicazioni, commerci, e il diritto positivo, codificato e uguale per tutti. Questo ha creato una mentalità – quella del diritto è nelle ex colonie britanniche ancora viva, dal Pakistan alle Malvine. Il colonialismo è sfruttamento. Ma anche, nell’ottica europea, anche dopo la la politica di potenza del secondo Ottocento, investimento.  

Cosmogonia – È forse il genere (poetico, narrativo, figurativo) più durevole, oltre che più antico. La fisica della materia ne è piena, del Big Bang , delle Stringhe, dei Buchi Neri, etc. Tutte teorie vaste, affascinanti e non risolutive. Neanche approssimative. Come se slittassero su un mondo a parte, quello del pensiero e delle parole, che non è quello delle cose.

Europa Homo Europaeus era per Valéry un secolo fa, nei primi mesi della guerra, in una delle annotazioni confluite in “Varietà”, “definito non dalla razza, né dalla lingua né dai costumi, ma dai desideri e dall’ampiezza della volontà”. Era la conclusione di questa catena di osservazioni: “Dappertutto dove domina lo spirito europeo, si vedono apparire il massimo di bisogni, il massimo di lavoro, il massimo di capitale, il massimo di rendimento, il massimo di ambizione, il massimo di potenza, il massimo di modificazioni della natura esterna, il massimo di relazioni e di scambi”. Una sfida e una tensione costanti.
Era un apice, notava ancora Valéry, che inesitabilmente avrebbe segnato una controtendenza – e non per le rovine della guerra civile. Il successo dell’Europa è “una rottura d’equilibrio molto straordinaria. Ma le sue conseguenze sono più straordinarie ancora: ci fanno prevedere un cambio progressivo in senso inverso”. Un effetto fisico, di bascula: più l’Europa cresce, minore è lo spazio di crescita, più forti si fanno le spinte contrarie.
Era europeo mezzo mondo nel 1918, ora l’Europa non sa dove sta.

Leva obbligatoria – Si fa valere – si è fatta valere, prima dell’abbandono – come unificatrice. Il solo elemento unificatore, nazionale, politico, linguistico, per molti strati della società italiana. Il che è vero, ma unificatore nel senso della sottomissione, della gerarchia rigida. Ha formato l’Italia in un certo modo, nel culto dell’Autorità, del potere, anche piccolo e minimo. Alla subordinazione, alla rete incessante dei favori, dell’esercizio del potere, anche minimo.
Sempre rifiutata. Dai massisti subito quando la Francia di Napoleone pretese d’introdurla fino in Calabria, come una riduzione in schiavitù, del lavoro e della stessa vita. E oscuramente sempre avversata, anche nei momenti di maggiore patriottismo, come la Grande Guerra.
L’abbandono, la renitenza, l’imboscamento, l’automutilazione sono il leitmotiv di “Addio alle armi”, che pure è un romanzo sentito, partecipato, “italiano”, alla Grande Guerra. In uno di tanti colloqui col cappellano che punteggiano il racconto, dove nota più volte che l’esercito italiano mandava “troppi uomini” al fronte, che la guerra intendeva di carne umana, il narratore-Hemingway argomenta: “È nella sconfitta che diventiamo cristiani”. E quindi, intende, capiamo l’inutilità di questa guerra. Mentre le masse vanno al fronte rassegnate: “Furono sconfitte all’inizio. Furono sconfitti quando li presero nelle loro stalle e li collocarono nell’esercito. È per questo che il contadino ha saggezza, perché parte sconfitto dall’inizio”.

Manicomi aperti - Basaglia fu anticipato da Paul Nitsche, psichiatra tedesco formatosi prima della Grande Guerra (1877-1948). Praticò presto, prima della guerra, e teorizzò in un volume nel 1929, una psichiatria non punitiva e non carceraria ma riabilitativa, attraverso l’occupazione e il lavoro, meglio se produttivo.  metodo
Di Nitsche non si parla perché morì ghigliottinato nel 1948. Dopo un ungo processo come criminale di guerra. Era nazista. E fu a capo del programma di eutanasia (eliminazione) dei disabili.

Monachesimo – Foucault lo vuole l’erede delle scuole filosofiche antiche: si andava a scuola da Platone come ci si rinchiude nel cenobio a riflettere. Forse sì, ma allora ha finito presto di essere una scuola. Forse per essersi diffuso troppo, degradando a una sorta di Caritas. E ha imbarcato soprattutto poveri di spirito. In parte per non avere – non poter avere – maestri (abati, igumeni) all’altezza.

Nobiltà – Si costruisce a ritroso, andando verso le origini. Riguardata al contrario, nella discendenza, la genealogia quasi sempre invece non è esaltante. La radici sono solitamente migliori  – più solide, valide, valorose, attive, produttive, eroiche – poi la genealogia tende a degradare.
La nobiltà del titolo invece cresce con i quarti: tanto più si affermano i titoli di nobiltà, tanto più se ne assottiglia la sostanza.

Russia – È rimossa, ma è stata l’ultima potenza europea. Ha dominato fino a ieri le menti di mezzo mondo, seppure brutta e feroce. L’Urss è l’ultima potenza europea, erede della Russia contro l’Orda d’Oro che non s’arresta: Tashkent fu presa nel 1865, Samarcanda nel 1868, Bukhara, la città di Avicenna, il primo filosofo occidentale, riconquistata nel 1920, con la deposizione dell’emiro.

Stalin – Fu inflessibile contro i kulaki e col partito, ma stava col popolo: un “bravo” dittatore sa che non può mettersi contro il popolo, e più se è erede degli zar. Sempre gli zar furono migliori del loro tempo, Pietro il Grande, Caterina II. Lo zar Alessandro a Vienna era più democratico di Metternich e del re di Prussia. Già nel Cinquecento, con l’opričnina, lo zar si metteva col popolo. Anche come tattica: l’opričnina portò i boiari impauriti a chiedere aiuto allo zar, che così poté ammazzarli tutti nel suo palazzo.
Il precedente giusto è Ivan il Terribile, come già Eizenstein ha immaginato. Ma con la grande furbata di farsi fare la guerra, da quel demente di Hitler. Grandi elogi si celebrano nella storia diplomatica del “farsi fare la guerra” che si vuole fare, una sorta di scaramanzia: Bismarck con Francesco Giuseppe nel 1866, e con Napoleone III nel 1870, l’Intesa col kaiser e Francesco Giuseppe nel ‘14, Stalin con Hitler.

astolfo@antiit.eu 

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