lunedì 26 gennaio 2015

Il vero politico si misura alla «sfida dell’eccezione»

Alla fine Weber pone questa alternativa, in regime democratico: o la “democrazia guida”, in grado di determinare le scelte, e governare la macchina statale, oppure la “democrazia senza guida”. Il predominio dei politici senza professionalità, dei dilettanti - quali sono in Italia quelli che da un paio di generazioni hanno invaso il campo, che il Parlamento degradano a talk show, a giochetti di oneupmanship, la battutina, l’ultima parola, la telegenia, e ora il tweet.
È la raccolta che opera la famosa canonizzazione del politico di professione. Contro la burocrazia, dell’esecutore cieco. Ma nella forma, che poi sarà di Carl Schmitt, del politico decisionista. A conclusione del processo di disincantamento del mondo quale Weber intravede da studioso della religione-magia e delle forme magico-religiose – disincantamento, affine a disincanto, traduce male la sua Entzaüberung, il cui senso è di smagamento, disincantesimo: ne “Il lavoro intellettuale come professione” la definisce “la coscienza o fede che basta soltanto volere per potere sempre conoscere qualcosa, e che quindi non vi sono, per principio, misteriose potenze incalcolabili che entrano in gioco, ma si può invece dominare  ogni cosa – in linea di principio – attraverso il calcolo”.
Nella vecchia premessa, Franco Ferrarotti collocava la nuova categoria del politico di professione nella contemporanea ricerca che Giovanni Gentile svolgeva in Italia (“La filosofia al potere”) sul ruolo guida dell’intellettuale in politica: “Ben diverso l’orientamento filosofico e l’indirizzo politico di Weber, ma l’intento profondo è lo stesso: come formare una classe dirigente che sappia prendere decisioni in base al calcolo razionale, e che non si limiti alla cura abitudinaria degli affari correnti, secondo il vizio e il vezzo, che è però è la loro specifica virtù, dei burocrati sine ira ac studio, ma sia al contrario in grado di far fronte alla «sfida dell’eccezione»”.  
È una raccolta di saggi del 1917, un secolo fa, nel pieno della guerra, pubblicati in volume nell’agosto del 1918, quando era in corso quella che doveva essere la risolutiva offensiva tedesca. In epoca ancora guglielmina. Che Weber intende postbismarckiana e non anti, i successori accomunando al Cancelliere di ferro, contro le cui politiche si appunta il primo dei saggi, “L’epoca di Bismarck”. A Bismarck e ai successori Weber imputa l’indebolimento del Parlamento, in una fase di crescita e formazione della maturità politica della giovane nazione. Con un cesarismo che impedisce e allontana la maturazione stessa.  
Il titolo originale è “Parlamento e governo nel nuovo ordinamento tedesco” – nuovo è postunitario. Il sottotitolo è “Per una critica politica delle burocrazia e della partitocrazia”. La burocrazia, “spirito congelato”, di cui Weber sanziona la prepotenza quale sarà dello Stato sovietico, è qui quella guglielmina. In rispetto alla quale vuole ridare autonomia e iniziativa alla politica. L’approdo è all’analogia tra Stato moderno e impresa. Lo Stato spogliato quindi dell’Auctoritas, di ogni connotazione extramondana.
L’analogia sarà ripresa due anni dopo, nella prima stesura di “Essenza e valore della democrazia”, da Kelsen. A cui Schmitt obietterà: “Una forma di organizzazione politica cessa di essere politica se viene fondata, come l’economia moderna, su basi di diritto privato”. Ora il paradigma economicistico, della combinazione dei fattori, dell’efficacia, dell’ottimizzazione delle risorse, si è affermato, da Schumpeter in poi, e più con la dominante riflessione anglosassone. Ma la concezione economicistica dell’azione politica, dei fattori per il risultato, che Max Weber non critica e anzi auspica, non approda a una razionalità limitata, utilitaristica e finalistica, fuorviante?

Max Weber, Parlamento e governo, Latrza, pp. LVII+159 € 7,50

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