Alla fine Weber pone questa
alternativa, in regime democratico: o la “democrazia guida”, in grado di
determinare le scelte, e governare la macchina statale, oppure la “democrazia
senza guida”. Il predominio dei politici senza professionalità, dei dilettanti
- quali sono in Italia quelli che da un paio di generazioni hanno invaso il
campo, che il Parlamento degradano a talk
show, a giochetti di oneupmanship,
la battutina, l’ultima parola, la telegenia, e ora il tweet.
È la raccolta che opera la famosa canonizzazione
del politico di professione. Contro la burocrazia, dell’esecutore cieco. Ma
nella forma, che poi sarà di Carl Schmitt, del politico decisionista. A
conclusione del processo di disincantamento del mondo quale Weber intravede da
studioso della religione-magia e delle forme magico-religiose – disincantamento,
affine a disincanto, traduce male la sua Entzaüberung,
il cui senso è di smagamento, disincantesimo: ne “Il lavoro intellettuale come
professione” la definisce “la coscienza o fede che basta soltanto volere per potere sempre conoscere qualcosa, e che quindi non vi sono, per
principio, misteriose potenze incalcolabili che entrano in gioco, ma si può
invece dominare ogni cosa – in linea di principio – attraverso
il calcolo”.
Nella vecchia premessa, Franco
Ferrarotti collocava la nuova categoria del politico di professione nella
contemporanea ricerca che Giovanni Gentile svolgeva in Italia (“La filosofia al
potere”) sul ruolo guida dell’intellettuale in politica: “Ben diverso l’orientamento
filosofico e l’indirizzo politico di Weber, ma l’intento profondo è lo stesso:
come formare una classe dirigente che sappia prendere decisioni in base al
calcolo razionale, e che non si limiti alla cura abitudinaria degli affari
correnti, secondo il vizio e il vezzo, che è però è la loro specifica virtù,
dei burocrati sine ira ac studio, ma
sia al contrario in grado di far fronte alla «sfida dell’eccezione»”.
È una raccolta di saggi del 1917, un
secolo fa, nel pieno della guerra, pubblicati in volume nell’agosto del 1918,
quando era in corso quella che doveva essere la risolutiva offensiva tedesca.
In epoca ancora guglielmina. Che Weber intende postbismarckiana e non anti, i
successori accomunando al Cancelliere di ferro, contro le cui politiche si
appunta il primo dei saggi, “L’epoca di Bismarck”. A Bismarck e ai successori
Weber imputa l’indebolimento del Parlamento, in una fase di crescita e
formazione della maturità politica della giovane nazione. Con un cesarismo che
impedisce e allontana la maturazione stessa.
Il titolo originale è “Parlamento e
governo nel nuovo ordinamento tedesco” – nuovo è postunitario. Il sottotitolo è
“Per una critica politica delle burocrazia e della partitocrazia”. La
burocrazia, “spirito congelato”, di cui Weber sanziona la prepotenza quale sarà
dello Stato sovietico, è qui quella guglielmina. In rispetto alla quale vuole
ridare autonomia e iniziativa alla politica. L’approdo è all’analogia tra Stato
moderno e impresa. Lo Stato spogliato quindi dell’Auctoritas, di ogni
connotazione extramondana.
L’analogia sarà ripresa due anni
dopo, nella prima stesura di “Essenza e valore della democrazia”, da Kelsen. A
cui Schmitt obietterà: “Una forma di organizzazione politica cessa di essere
politica se viene fondata, come l’economia moderna, su basi di diritto
privato”. Ora il paradigma economicistico, della combinazione dei fattori,
dell’efficacia, dell’ottimizzazione delle risorse, si è affermato, da
Schumpeter in poi, e più con la dominante riflessione anglosassone. Ma la
concezione economicistica dell’azione politica, dei fattori per il risultato, che
Max Weber non critica e anzi auspica, non approda a una razionalità limitata, utilitaristica
e finalistica, fuorviante?
Max Weber, Parlamento e governo, Latrza, pp. LVII+159 € 7,50
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