Una riproposta fuori stagione, fuori dalle
parole all’ammasso che ora fanno letteratura, di uno scrittore arguto, mai
sbagliato, raffinato, misurato. La raccolta si presenta come una coda dell’opus magnum - e anche il suo primo, nel 1930 – di Praz, “La
carne, la morte, il diavolo nella letteratura romantica”. Ma è una silloge di vari
temi, per lo più fuori dal romanticismo.
In chiave romantica si visitano subito “Tre
maestri dell’orrore”, quattro con Hans Baldung
Grien: Lewis (“Il monaco”), Poe, Fuseli (Füssli). Con la “fanciulla
perseguitata” comodo tema di Sade, Lewis (“Il monaco”), Radcliffe, Goya. Anche
i preraffaelliti sono riflessi in qualche modo nel romanticismo. Ma la sua famiglia
Rossetti, Antonio, Gabriele, Dante Gabriel e Christina, si fa leggere come un
romanzo. E lui lo sa, che suggerisce uno Zola che sulla “famiglia Rossetti”
scriva uno storione alla “Rougon Macquart”.
Ma il grosso della raccolta è fuori
tema. Poe – da cui Praz ha tratto la sua “Filosofia dell’arredamento”, il
titolo e l’idea - è un libro a parte, con molto spazio alla vita e alla (non)
fortuna dello scrittore. Non nel mondo anglosassone – dove l’unico che lo
apprezzò era Shaw. Al quale, si scopre incidentalmente, si deve il titolo per
cui Praz è famoso (“scrittori come Poe cominciano dove cessano il mondo, la
carne e il diavolo”). E con una sbrigativa anamnesi del giallo: “Con la
letteratura il romanzo poliziesco non ha di per sé altro in comune che la veste
esteriore: è un libro come può esserlo l’elenco telefonico o la tavola dei
logaritmi” – Poe escluso, naturalmente.
C’è molto D’Annunzio. Molto Proust.
Molto Pater. Kokoschka. Il floreale. E una galleria di eccentrici – le trenta pagine di evocazione di Vernon Lee, in
questa sezione, sono anch’esse straordinariamente creative.
Con aneddoti e pointes sempre accattivanti. Lewis (“Il monaco”) e Beckford (“Vathek”) in Parlamento ai loro vent’anni, a fine Settecento. Winckelmann “esaltatore di un’arte greca a lui sconosciuta”. La fortuna letteraria: Verga è noto nei paesi anglosassoni quale autore della “Cavalleria rusticana” – ma l’opera di Mascagni rivela “una nuova provincia del pittoresco….i cui riflessi si possono avvertire ancora oggi in un dramma come «Uno sguardo dal ponte» di Arthur Miller”. Mentre si deve all’imperatrice Eugenia – sì, alla pia musa e protettrice di Lucien Daudet, e quindi di Proust, di Cocteau e molti altri – “la scandalosa innovazione delle mutande corte”, invece delle “brache lunghe”. Col bisogno inesausto d’amore di Ruskin, che la moglie aveva abbandonato per il più pratico pittore Millais, sciogliendo il matrimonio perché non consumato. C’è anche un Frederick Hankey, “quel bello spirito incontrato da uno dei Goncourt nel 1862, che tra poco sarà il modello del sadico inglese del «Piacere» d’un romanziere italiano”. Le chicche non si contano, la felicità della letteratura.
Con aneddoti e pointes sempre accattivanti. Lewis (“Il monaco”) e Beckford (“Vathek”) in Parlamento ai loro vent’anni, a fine Settecento. Winckelmann “esaltatore di un’arte greca a lui sconosciuta”. La fortuna letteraria: Verga è noto nei paesi anglosassoni quale autore della “Cavalleria rusticana” – ma l’opera di Mascagni rivela “una nuova provincia del pittoresco….i cui riflessi si possono avvertire ancora oggi in un dramma come «Uno sguardo dal ponte» di Arthur Miller”. Mentre si deve all’imperatrice Eugenia – sì, alla pia musa e protettrice di Lucien Daudet, e quindi di Proust, di Cocteau e molti altri – “la scandalosa innovazione delle mutande corte”, invece delle “brache lunghe”. Col bisogno inesausto d’amore di Ruskin, che la moglie aveva abbandonato per il più pratico pittore Millais, sciogliendo il matrimonio perché non consumato. C’è anche un Frederick Hankey, “quel bello spirito incontrato da uno dei Goncourt nel 1862, che tra poco sarà il modello del sadico inglese del «Piacere» d’un romanziere italiano”. Le chicche non si contano, la felicità della letteratura.
Il giudizio dell’anglista e professore è
sempre corretto, a distanza di tempo - sono testi degli anni 1960, la raccolta
è del 1972. Forse anche quello su Wilde: un tardo damerino di quelli di cui Gilbert
and Sullivan avevano fatto la satira già nel 1881, nell’operetta “Patience”, che si salva con
le commedie, dove mette a frutto la sua vera abilità, di conversatore – per il
resto “troppo ornato, troppo colorito, asiatico, barocco”.
Mario Praz, Il patto col
serpente. Paralipomeni di «La carne, la morte e e il diavolo nella letteratura
romantica», Adelphi, pp. 578 € 28
Il “patto col serpente”, il serpente del
paradiso terrestre, è di Elémire Zolla, altro desaparecido, “Storia del fantasticare”: “Coloro che firmano il
patto col serpente entrano in un universo dove tutto viene rovesciato, la fantasticheria
invece che messa in fuga vien coltivata, ornata, ci si offre in pasto ad essa”.
È il patto del letterato.
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