Un’antologia come un atto d’amore, degli
studiosi weiliani Domenico Canciani e Maria Antonietta Vito. Con le lettere della
filosofa a Joë Bousquet, il poeta di Carcassonne grande invalido di guerra, e
ad Antonio Atarès, un fuoriuscito anarchico spagnolo, poeta solitario,
internato allo scoppio della guerra, dapprima in Francia poi in Algeria. Con
Bousquet, obbligato all’immobilità a letto, che Simone Weil era andato a
trovare a Carcassonne, il rapporto è molto intellettuale e anzi filosofico, ma
intenso. Scrivendo all’amico che gliela aveva presentata, Bousquet non finisce
più di complimentarsi con se stesso, per avere potuto conversare con “Émile
Novis”, il nome della filosofa nella Resistenza. Con lui Simone spiega anche il
suo proprio problema: non di “sfiducia verso me stessa”, ma “un miscuglio di
disprezzo, odio e repulsione”, per un dolore costante ormai da dodici anni
“attorno al punto centrale del sistema nervoso”. Con Atarès il rapporto è a
distanza, e tuttavia quasi personale, seppure nei limiti dello scambio
epistolare. Non c’era mai stato un incontro fra i due, Simone Weil aveva saputo
di Atarès da Nicolas Lazarevith, uno dei redattori de “La Révolution
prolétarienne”, che era stato internato anche lui in paio di mesi nello stesso
capo del fuoriuscito spagnolo, e ne aveva fatto il simbolo della solitudine,
uno che non riceveva né visite né pacchi né lettere.
Una forma di amicizia simile in entrambi
i casi, di comunione nella disgrazia, al confine con la generosità che è il
segno di Simone Weil, fino al dispendio di sé. Ma con Atarès c’è di più: con lo
sconosciuto Simone Weil vive in realtà quello che di persone non ha mai potuto,
una sorta di passione. “Tu ed io”, mette a punto Simone in una delle prime
lettere, “ciò che diamo l’uno all’altro e ciò che riceviamo l’uno dall’altro,
sono pensieri e sentimenti sotto forma di lettera….Ma al di fuori di ciò, non
pensiamoci mai, né l’uno né l’altro, perché questo non entra per niente nei
nostri rapporti personali”. E invece no.
Il nerbo del libro
è però la riproposta, in una nuova traduzione
(dopo quella ricompresa nell’antologia tradotta da Orsola Nemi per
Rusconi sotto il titolo “Attesa di Dio”), del lungo saggio “Forme dell’amore
implicito di Dio”. Uno dei cinque, composti tra il 1941-1942, che Simone Weil
lasciò al padre domenicano Joseph_Marie Perrin, suo consigliere spirituale,
prima di partire per l’America e Londra - sotto il titolo “Amicizia pura”,
Canciani e Vito hanno in realtà composto un’antologia degli scritti degli anni
di guerra che Simone Weil visse da sfollata a Marsiglia. È un argomento che
Simone tratterà in una lunga lettera al padre Perrin, la sua ultima da
Marsiglia, perché è all’origine di un lungo litigio tra i due.
La fede di Simone
Weil qui è incontrovertibile – è anche la traccia che hanno seguito i due papi
regnanti nello loro comune enciclica, un anno e mezzo fa, “Lumen Fidei”. Dio è
universale, l’amore è universale, la chiesa dev’essere di tutti. “Il
comandamento «ama Dio»” si applica ancora prima che Dio “venga in persona a
prendere la mano della sua futura sposa”. Prima, “si può chiamarlo amore
indiretto o implicito di Dio”. Di ragionamento in ragionamento la conclusione è:
“Non c’è nella vita umana regione che sia dominio della natura. Il
soprannaturale è presente dappertutto in segreto”. Di conseguenza “Il
cristianesimo non s’incarnerà finché non si sia annesso il pensiero stoico, la pietà filiale per la città del mondo, per
la patria di quaggiù che è l’universo”.
Simone Weil, Amicizia pura, Castelvecchi, pp 190 € 16,50
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