Decadenza – Yourcenar la
presagiva già nel 1929, giovane, dopo la prima grande guerra. Si poteva dire allora nel tempo. Meglio la dirà dopo la
seconda
guerra, nel 1958, ne “I
volti della storia nella «Historia Augusta»”, pubblicato nel 1962 nella
raccolta di saggi “Con beneficio d’inventario”. Ma a Roma la trova dopo meno di
due secoli d’impero, a partire dall’assassinio di Cesare. E tre secoli e mezzo
prima del crollo dell’impero stesso. Per effetto, soprattutto, della mediocrità
degli storici della “Historia Augusta”. La decadenza è letteraria prima che reale:
è lo spirito della crisi che determina la crisi?
La
gloria di Roma peraltro Yourcenar, che pure era studiosa della classicità,
attribuisce a “un piccolo numero di storici romani (e a un paio di storici
greci)”, Plutarco, Tacito, Svetonio. Che si sarebbero inventato tutto?
Ma nell’insieme
la decadenza è “problematica”: si nasconde, si ferma. “Niente di più complesso
della curva di una decadenza”, scrive Yourcenar, ci sono degli alti e bassi: “Il
regno di Adriano è ancora un vertice, quello del lamentabile Carino non è una fine”,
quando la “Historia Augusta” si ferma. In realtà la decadenza non è una curva,
la teoria dei cicli non la contempla, pur lavorando sui trend:
è un fatto, che a un certo punto si produce, magari se non si affronta. Quanto
a Roma, Yourcenar prosegue imperturbata: “All’epoca in cui la «Historia Augusta»
si ferma su Carino, Diocleziano è già presente; al salvatore Diocleziano
succederà il salvatore Costantino, il salvatore Teodosio; centocinquant’anni
ancora…” – prima di “chiudersi pietosamente sul figlio di un segretario di
Attila, caratteristicamente rivestito del nome pomposo di Romolo Augustolo”.
Dissociazione - In dottrina il gioco, non solo letterario,
delle personalità multiple è sintomo di disturbi mentali e prodromo di morte. È
il caso di artisti di peso,
Hölderlin,
Schumann, Jean Paul. Tutti
tedeschi, è vero.
È
del resto vero che tutti si muore. Che Hölderlin ha avuto felice e lunga
pazzia. E che non sono impazziti i molteplici Pessoa o Kierkegaard. Ma è certo
che il gusto di nascondersi rientra nel fenomeno delle personalità multiple, attualmente
collocato al capitolo dei disturbi associativi, che ricomprende la vecchia
categoria dei fenomeni isterici.
Grand Tour – Fu – ma è
tuttora - la fonte prevalente se non
unica attraverso cui gli italiani si informavano dell’Italia tra il Sette e
Ottocento. Attraverso il “colore” in buona misura, il pittoresco. Di quadri popolari e
costumi facili, e di rovine greche e romane a cielo aperto. Di paese fatato di
vacanza, specie culturale, a cui tutto si perdona, la sporcizia, la
superficialità, l’incostanza, il ladroneccio. Una visione che si riverbera fino
a diventare realtà. È
vero che l’Italia è
la seconda forza manifatturiera e esportatrice dell’Europa, ma con quanta fatica.
Lettore - Borges,
dovendo scrivere dettando per la cecità, privilegia il genio del lettore: il
lettore fa l’opera, dice. In un certo senso è così, non si capisce altrimenti
perché il Cantico dei cantici è un
testo sacro, o il Levitico.
Sospetto – Conviene a volte tenersi all’evidenza, a una sfida che venga lanciata.
Non che la prova logica sia errata, finché uno non ci crede: mette il nemico in
allarme, ma gli fa perdere tempo per la difesa.
È
da Kant, dalle esperienze e le categorie, che la narrazione, prima libera e
divagante, è concatenata: gli eventi intenzionali, benché soggettivi, non sono arbitrari.
Su questa base si è poi costruito il giallo, il genere più popolare.
Proust – L’amore non è il tema del romanzo – né degli altri suoi tentativi. Se
non nella forma della gelosia, intesa come possesso, e rielaborata in mille
forme e pagine, fino alla piccola vendetta del pettegolezzo. Il suo amore è una
partita di gelosia incrociata – se si eliminano le nostalgie, cioè la commiserazione di se stessi. È una
forma di egotismo. Non confessato, e anzi mascherato di buoni sentimenti:
discrezione, ammirazione, buon ricordo, una facciata di riconoscenza.
L’impossibilità
di amare è il grande tema proustiano. Sarebbe, poiché è relegato sullo sfondo.
Lo fosse, non sarebbe a somma
zero, quale è, e anzi sarebbe mortale. Magari di consunzione, alla Dumas
figlio.
Realtà – È l’irrealtà,
dice Nabokov, dei romanzi. Meglio di “quei farseschi e fraudolenti particolari
chiamati fatti”.
Rom – La parola,
sostituita a
zingaro, ritenuto
infamante, è però anch’essa classista e discriminatoria: proteggendolo come dentro una sfera, come di proposito,
nega il suo soggetto. Questo è
vero in varia misura di tutto il linguaggio politicamente corretto, che
appiattisce. Ma nel caso di un’identità che
si vuole distinta ancora di più. La assimila, anche se non si sa a che –
alle buone intenzioni? alla pubblica assistenza?
Dijana Pavlovic, rom di Serbia e attivista rom, intervistata su
“Sette”, 12 dicembre, da Vittorio Zincone, si vuole – suo malgrado? - zingara, vi si conforma.
Riconoscenza? “I rom sono un business. A Roma ce
ne sono settemila. Per gestire i campi in cui vivono vengono stipendiati 500
italiani, nessuno dei quali appartiene alla nostra etnia”.
“Più aumenterà la disoccupazione e la povertà diffusa e meno saranno evidenti
le differenze tra italiani e rom”.
“I campi rom sembrano
discariche a cielo aperto”, obietta Zincone. “Io
sarei favorevole a chiudere quei campi”, risponde Pavlovic: “La
soluzione ideale sarebbe affidare ai rom delle piccole zone da autogestire: con
luce, acqua e fognature. Responsabilizzandoli. Nei campi, invece, c’è una malsana
abitudine all’assistenzialismo. Molti rom dicono: il comune ha stanziato i
soldi per noi? E allora ci fornisca i servizi. Sia l’amministrazione a portare
i bambini a scuola…”. Senza colpe né sensi di colpa.
Pavlovic dice
anche che i rom si sposano “spesso tra i 14 e i 18 anni”, e aggiunge:
che male c’è? Anzi, si è fatta dire gagi,
non rom, da una ragazza-madre di 14 anni in carcere, e vecchia: “Mi ha detto
che sono vecchia, che ho avuto il primo figlio a 33 anni, cioè quando si
dovrebbe diventare nonne. Che mio marito a cinquant’anni mi lascerà per una
ventenne e che alla fine mio figlio mi abbandonerà in un ospizio. Ha aggiunto
che lei, invece, non avrà tre lauree e un lavoro socialmente apprezzato, ma
avrà sempre intorno a sé una famiglia, bella e numerosa”.
Senza disapprovazione.
Si può obiettare
a questo modo di essere, aggressivo. Ma perché camuffarlo? “Non
faccio io la spesa”, conclude Pavlovic, “ci pensa mio marito”. Probabilmente
lei non sa più ballare, o se ne vergogna. E suo marito non sa suonare la musica
tzigana, non ci pensa nemmeno. E questo è un danno per tutti.
La poesia gitana
già li aveva un po’ ingessati, il Cristo di Machado, il “Romancero” di Lorca. Ma
la musica aveva una grande tradizione, onorata, in molte composizioni colte, in
Spagna (e il flamenco?), a Vienna, a Budapest, e in Ravel, Enescu, Kusturica.
letterautore@antiit.eu
2 commenti:
Da rom a zingaro... E magari a zingaro. La deriva e' irresistibile?
DT
Zingaro? È solo fonte di malinconia a non sentirselo più dire dopo una vita.
“E magari a zingaro”, non sarà a zigano? La parola è di tradizione onorata.
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