Islam – Il Mediterraneo fu già islamico
per molti secoli, sotto il califfato prima e poi sotto l’impero ottomano.
Patrick Leigh Fermor lo ricorda di passaggio, in mezza pagina di “Broken Road”,
il terzo libro del suo viaggio a piedi attraverso i Balcani a diciott’anni nel
1933-34, sulla strada per Costantinopoli, che non raggiunse - un libro sempre
ripreso e mai concluso, che ora si pubblica postumo. Dopo la conquista araba,
che Leigh Fermor pone tra le civiltà più raffinate, alla pari della persiana e
della greca, i turchi, “tribù sciamaniste dell’Asia centrale, parenti degli
sterminatori mongoli, arrivarono, fondarono il sultanato di Rum, conquistarono
l’impero romano dell’Est, e infine, occupando Costantinopoli, inflissero il più
grande disastro all’Europa dopo il sacco di Roma dei goti un millennio
prima”.Il loro impero “si estese fino alle colonne d’Ercole, a Nord fino alla
Polonia e alla Russia, e a Ovest fino a Vienna; un’incursione straordinaria li
aveva proiettati fino a Ratisbona, a una sola giornata di marcia da Monaco.”
Una penetrazione straordinaria, dice lo scrittore-viaggiatore, quella
dell’islam: “Quando ricordiamo che i
mori d Spagna furono fermai solo a Toura, sulla Loira, sembra a volte solo un
caso fortunato che San Pietro e Nôtre Dame e Westminster Abbey non sono oggi
tre celebri moschee, templi apparentati a Santa Sofia a Costantinopoli”.
Con una coda: “Se
si benedicono i nomi di Carlo Martello e Sobieski per aver salvato la cristianità
occidentale dall’islam, bisogna esecrare la memoria della Quarta Crociata, e
l’avidità e il settarismo cristiani che saccheggiarono Costantinopoli, distrussero
l’impero bizantino e prepararono la rovina della metà orientale della
cristianità. È inutile incolpare i turchi di essersi allargati a occidente sulle
rovine, come lo sarebbe biasimare le leggi dell’idrostatica per i danni delle
alluvioni”.
L’avanzata dei
turchi affascina Leigh Fermor, compatta, irregolare, composita: fanti
anatolici, cavalieri selvaggi dell’Asia, cavalieri beduini, arcieri del deserto
orientale, albanesi, tartari, circassi, e i giannizzeri. “Cristiani”, questi
ultimi, “in prevalenza rapiti da bambini, convertiti in fanatici mussulmani e
trasformati in guerrieri spietati”.
Tutto già visto, dunque? No, le bandiere sotto cui i giannizzeri combattevano erano verdi. Verde è il colore dell’islam.
Tutto già visto, dunque? No, le bandiere sotto cui i giannizzeri combattevano erano verdi. Verde è il colore dell’islam.
Il giovanissimo
viaggiatore (o è lo scrittore novantenne, nell’ultima riscrittura?) si
meraviglia alla fine che “i resti dei turchi in Europa, cui, dopotutto, non apportarono
nulla, si distinguano per tanto fascino e grazia: l’architettura delle case, i
soffitti di legno intagliato, i gessi barocchi, i pozzi e le fontane, le logge
coperte…” Ma poi ci ripensa. “Sono adattamenti dello stile bizantino. Architetti
e maestri bizantini concepirono ed eressero molte grandi moschee”.
Latino – “Dovresti essere felice di non
essere un latino”, dice Rinaldi, a “Frederick Henry” Hemingway in “Addio alle
armi”, in una delle scene migliori di
questa grande storia di amicizia. “Non c’è un qualcosa come un latino”, Henry
ribatte: “Questo è pensare «latino». Sei così
orgoglioso dei tuoi difetti”. E commenta: “Rinaldi alzò gli occhi e
rise”.
Latino come complesso
già nel 1918 – o nel 1929, quando Hemingway scrisse il romanzo.
.
Parolacce – Zavattini segnò un punto per
lui memorabile quando nel novembre 1977 azzardò alla radio un “cazzo”. Che però
continua a essere bandito, ancora quarant’anni dopo. Le parolacce hanno invaso
la conversazione quotidiana, anche delle gentildonne, anche in età, ma non si
scrivono. Si dicono anche eccessivamente al cinema. Si possono dire pure in tv,
dopo Grillo, da parte di qualche comico. Ma non si scrivono, se non con i puntini.
Sono anche politicamente corrette, equanimi con tutti i sessi. Sono un tabù?
Pasolini - Autore di culto, in Francia
forse più che in Italia, e in Germania, Gran Bretagna, Nord America. Per una
ragione precisa? È persona e artista sfuggente, è caleidoscopico. O forse no, è
solo stato catturato da un’aura e un ambiente non suoi, non connaturali benché
lui stesso li abbia scelti e coltivati. La sua vita e i suoi scritti, avulsi,
ne danno un’altra persona e un altro autore.
L’autore “maledetto” - oggi “scorretto” - per eccellenza della cultura italiana era perbenista. Per questo anzi sulfureo, con se stesso, si rimproverava perfino l’omosessualità. Con gli altri parlava a bassa voce e benevolente, nessuno ricorda Pasolini adirato o brutale. Era curato, ben vestito, seppure con concessioni al kitsch cinematografico, sempre pulito e in ordine, dai capelli alle scarpe. Così lo vide Bernardo Bertolucci nel famoso apologo del primo incontro, col “vestito della domenica esagerato”, l’abito scuro, cioè, con la camicia bianca e la cravatta. Si presentò al festival di Venezia per “Medea” nel 1970 in fiocco nero e camiciola trasparente, ricoperta di trine – due anni dopo aver contestato il festival borghese. “Estremamente raffinato e manierista” lo disse Moravia, benché commosso, alla celebrazione funebre in Campo dei Fori, non solo in arte. Beneducato, anche se non parlò mai al portiere in via Carini a Roma, né al barbiere sotto casa, il signor Mario – forse per timidezza. E aveva il culto del fisico, Dal lato sportivo, della forma dell’elasticità, dei riflessi, della muscolatura, e da quello carnale. Fece nell’estate del 1970 con Moravia nella Romania di Ceausescu la cura del gerovital.
L’autore “maledetto” - oggi “scorretto” - per eccellenza della cultura italiana era perbenista. Per questo anzi sulfureo, con se stesso, si rimproverava perfino l’omosessualità. Con gli altri parlava a bassa voce e benevolente, nessuno ricorda Pasolini adirato o brutale. Era curato, ben vestito, seppure con concessioni al kitsch cinematografico, sempre pulito e in ordine, dai capelli alle scarpe. Così lo vide Bernardo Bertolucci nel famoso apologo del primo incontro, col “vestito della domenica esagerato”, l’abito scuro, cioè, con la camicia bianca e la cravatta. Si presentò al festival di Venezia per “Medea” nel 1970 in fiocco nero e camiciola trasparente, ricoperta di trine – due anni dopo aver contestato il festival borghese. “Estremamente raffinato e manierista” lo disse Moravia, benché commosso, alla celebrazione funebre in Campo dei Fori, non solo in arte. Beneducato, anche se non parlò mai al portiere in via Carini a Roma, né al barbiere sotto casa, il signor Mario – forse per timidezza. E aveva il culto del fisico, Dal lato sportivo, della forma dell’elasticità, dei riflessi, della muscolatura, e da quello carnale. Fece nell’estate del 1970 con Moravia nella Romania di Ceausescu la cura del gerovital.
L’eretico non era
anarchico, nient’affatto. Di applicazione mostruosa, lavorava continuamente,
sempre applicato, lavoratore onesto. Nella vita in famiglia, che manteneva
regolare, scandita da ritmi costanti, e in quella di lavoro, anch’essa regolare,
disciplinata. E sempre il figlio amato della madre, che sempre fu
venerata. Protettiva, e protetta, anche nei
tempi difficili della “fuga” a Roma, in rapporto simbiotico.
Omosessuale
attivista, per molti aspetti, è forse l’ultimo difensore, accanito (non solo
per la polemica contro l’aborto), della maternità. Gli unici personaggi
positivi, nel senso tradizionale, del suo cinema sono figure di donne: la
Vergine (la sua propria madre), Anna Magnani di “Mamma Roma”, la Callas muta di
“Medea”, la Luna di “Uccellacci e uccellini”, Femi Benussi, e Silvana Mangano,
la Lucia di “Teorema”. Tutte legate alla luce – Callas-Medea è detta “figlia
del sole”. Tutte donne “forti” peraltro, Magnani, Mangano, Callas.
La “vocazione alla
marginalizzazione”, che Eco gli ha affibbiato, era il disagio del conformismo
da cui si sapeva avviluppato, quasi una persecuzione. Si dice tradizionalista a
disagio nella modernità. Mentre era modernissimo – nella riscoperta della
tradizione compreso: finissimo ermeneuta, postmodernista avventuroso e
licenzioso, senza freni, quasi compiaciuto. A disagio però nel “suo” mondo, con
le parole, gli atti, l’ideologia perfino, la politica del giovanilismo, l’abbigliamento.
“Non sono né apolitico né indipendente, sono solo. È questa solitudine,
d’altronde, che mi garantisce una certa oggettività, sia pure stravagante e
contraddittoria”, così si presentava alla prima cronaca sul “Tempo”, nel 1968.
Nella stessa
misura – cioè costantemente – fu anche opportunista, e presenzialista. A difesa?
È vero che aveva molte marce in più nel panorama letterario italiano, come
filologo, iconologo, poeta, narratore per immagini.
La prima memoria è
di lui che con Moravia illustrava a Firenze, per il circuito dell’Aci,
l’associazione culturale italiana, o dei Lunedì, un anno il dialetto come lingua, e l’anno
dopo la non musicalità delle immagini (“al più un po’ di Bach”). Scemenzuole.
Ma lui con la soma del ricercatore incerto, con l’intento di approfondire più
che si declamare o esibirsi.
Sempre letterario,
in tutte le emozioni. I sentimenti sono sempre filtrati dalla conoscenza, che
in lui è apparentemente inesauribile, di vastità e curiosità interminabili.
“Guadare un atto sessuale è guardare con lo sguardo obiettivo del ricercatore –
anche se è emozionato – un testo tropo immenso per essere interpretato”. “Non c’è disegno di carnefice che non
sia suggerito dallo sguardo della vittima”. Le citazioni di Pasolini sono di quest’ordine,
sempre riflesse e radicate - quella della sottomissione volontaria anticipa Huellebecq, il romanzo dello scandalo: “L’idea sconsolante e semplice che il culmine della felicità umana sia la sottomissione più assoluta” (che non vero, ma gli scandali sono opportuni).
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La carne tentò di
normalizzare, nei romanzi e nelle immagini – riferimento anche cattivissimo
nella comunicazione e la ananke
quotidiane. la carne resta tabù nell’arte. Eccessivo alla fine in segno di rifiuto
e di disprezzo, “Salò-Sade” e il progetto “Porno-teo-kolossal”, nonché
“Petrolio”. Delle violenza dei timidi: scontento, se non nemico, di se stesso.
Condannò anche la
“trilogia della vita”, i film sul “Decameron”, Chaucer e “Le mille e una
notte”. Abiurò, mentre immortalava i corpi nudi come manifestazione fascista,
di un Novecento filmico dopo essere stato scultoreo, pittorico e
architettonico, con queste parole: “Aborro i corpi e gli organi sessuali”.
Questo è vero anche della “Trilogia”, se la si riguarda – al tempo colpì la
novità: Pasolini vi indulge al giocoso. Una vena che avrebbe voluto coltivare,
dal tempo del “Vantone” a teatro - il “Miles gloriosus” di Plauto - e di
“Uccellacci e uccellini”, ma senza molte polveri.
Del “Vantone” si
ricorda un’anteprima alla Pergola di Firenze in cui non si finiva dal ridere,
ma per la performance eccezionale
della compagnia dei Quattro, Moriconi, Mauri, Enriquez e Luzzati. Il Vantone invece, che ricavò dal Miles
di Plauto per Enriquez e gli altri Quattro, è stato due ore di sballo
all’anteprima alla Pergola, una serata di teatro quale si favoleggia negli annali,
che lasciò gli stessi attori accasciati sul proscenio dalle risate, incapaci di
finire le battute. Grande filologo sarebbe stato, di potenza, disinvolto,
disincantato. E favolista al modo di Boccaccio, Chaucer e le Mille e una notte, o degli amati sconvenienti
borgatari. Ne fece una parentesi, e fu poeta sentimentale.
Sul sesso Pasolini
è sempre malinconico: la sua “orgia”, tragica o farsesca, resta
antiafrodisiaca, quasi da moralista. È probabilmente qui la sofferenza del suo
omoerotismo: il disgusto del bisogno-sesso, a partire da “Accattone”.
letterautore@antiit.eu
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