Il terrorismo islamico è endemico nei due paesi europei che
hanno accolto la maggiore comunità islamica e l’hanno integrata in tutti i
diritti, la Gran Bretagna e la Francia. In patria e fuori: sono alcune migliaia
gli inglesi e i francesi mussulmani volontari nell’Isis. In Francia è anche diffuso, in città e in provincia, al Nord e al Sud, e sicuramente è sotteso da una rete.
La Gran Bretagna da tempo si era posta la domanda sui limiti
dell’integrazione fra cultura diverse. La Francia ha resistito, addebitando il
dubbio all’estremismo nazionalista, ma è sempre più confrontata alla realtà
britannica: di una comunità che rifiuta l’integrazione nel mentre che ne beneficia
e la pretende.
L’integrazione non è più un bene primario: è anzi contestata
e sfidata. Si vuole tra i diritti fondamentali affermare la propria diversità
in altro regime etnico, sociale e costituzionale. Come uno statuto di extraterritorialità.
Per di più, nel caso islamico, per un fattore non dirimente negli Stati moderni,
il credo religioso. Una sfida letale. Tanto più in quanto l’integrazione vuole
un impianto solido, altrimenti è dissoluzione.
Quando era bene primario, fino a tutto il Novecento, l’integrazione
si basava su uno zoccolo forte, con aperture e sviluppi “sostenibili”, come è d’uso
dire. Con la libertà religiosa ma con la comunanza dei diritti per tutti, civili
e sociali, maschi e femmine, per lavoratori autoctoni e immigrati. Ora non più,
ma non c’è altro modello che quello. Altrimenti l’integrazione degenera nel
disordine, nel caos. È sfida costante e non rimarginabile. Recepita, anche
questo è inevitabile, come una sorta di guerra civile, di sterminio, che
estranei condurrebbero in casa propria.
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