giovedì 8 gennaio 2015

L’integrazione sostenibile

Il terrorismo islamico è endemico nei due paesi europei che hanno accolto la maggiore comunità islamica e l’hanno integrata in tutti i diritti, la Gran Bretagna e la Francia. In patria e fuori: sono alcune migliaia gli inglesi e i francesi mussulmani volontari nell’Isis. In Francia è anche diffuso, in città e in provincia, al Nord e al Sud, e sicuramente è sotteso da una rete.
La Gran Bretagna da tempo si era posta la domanda sui limiti dell’integrazione fra cultura diverse. La Francia ha resistito, addebitando il dubbio all’estremismo nazionalista, ma è sempre più confrontata alla realtà britannica: di una comunità che rifiuta l’integrazione nel mentre che ne beneficia e la pretende.
L’integrazione non è più un bene primario: è anzi contestata e sfidata. Si vuole tra i diritti fondamentali affermare la propria diversità in altro regime etnico, sociale e costituzionale. Come uno statuto di extraterritorialità. Per di più, nel caso islamico, per un fattore non dirimente negli Stati moderni, il credo religioso. Una sfida letale. Tanto più in quanto l’integrazione vuole un impianto solido, altrimenti è dissoluzione.
Quando era bene primario, fino a tutto il Novecento, l’integrazione si basava su uno zoccolo forte, con aperture e sviluppi “sostenibili”, come è d’uso dire. Con la libertà religiosa ma con la comunanza dei diritti per tutti, civili e sociali, maschi e femmine, per lavoratori autoctoni e immigrati. Ora non più, ma non c’è altro modello che quello. Altrimenti l’integrazione degenera nel disordine, nel caos. È sfida costante e non rimarginabile. Recepita, anche questo è inevitabile, come una sorta di guerra civile, di sterminio, che estranei condurrebbero in casa propria.

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