Sono vite intrepide, nell’ordinario. Si
curiosa, di minute e gravi cose allo stesso modo poiché quello è l’orizzonte.
Non è un limite culturale, l’ultima casalinga di manovale italiano sa le
differenze, ma il modo d’essere nella vita: non ci sono grandi eventi se non ci
toccano, né piccoli eventi se non ci lasciano indifferenti. La filosofia lo sa:
l’uomo è misura delle cose. Gli espatriati pure, i lavoratori dell’Ente
all’estero, e le loro mogli.
Le confidenze sono partite a Kano, col
panettone, lo spumante Asti, torroni di Cremona, Torino, Bagnara, crostate e
pastiere fatte in casa “col grano sottovuoto”, la teglia di lasagne e
l’arrosto, perché il rischio è stato concreto di passarvi Natale. Il presidente
generale Gowon ha requisito l’aereo che doveva riportare a Milano gli ospiti
giornalisti, a Kano per una parentesi culturale dopo i campi petroliferi, i
pranzi coi manager e i briefing, sul
Delta, la malaria e il petrolio. Un tedesco, un inglese, due texani, Andrea, il
fotografo silenzioso della Luce che
ringiovanisce con gli anni, tutta gente che la prese con filosofia, non fosse
stata Grazia, l’inviata milanese intrepida e madre o amante trepida, in ansia
pure per la difficoltà di telefonare. È così scattata la solidarietà delle
mogli.
I viaggi
dei giornalisti sono un’occasione sociale per le mogli espatriate coi consorti.
L’Africa è fatta così e non vale spazientirsi, nulla vi è prevedibile, in
Nigeria ancora meno, siamo espatriati ma non stranieri, il mondo sappiamo a
fiuto, per anni di allenamento. Si dice di Gowon che deve fare il
pellegrinaggio alla Mecca, ma non è praticante, forse non è islamico, anzi non
può esserlo, l’islam padroneggia il Nord, Kano e Kaduna, ma il presidente
federale non dev’essere confessionale, forse è a Londra, chissà, a Zurigo. Fela
Kuti, che l’afrobeat ha imbattibile,
ha sposato in una sola cerimonia ventisette donne – e la cosa fa ridere, non si
sa se per invidia, la trasgressione piace nell’ordinario. Si dice per non
pagarle – mantenere una persona consente ancora in Africa di non pagarla. Ma
delle donne, che forse sono ventotto, si è preso pure i figli. Fela Kuti ha
fatto dono al governo di una copia della bara della madre, che l’esercito
avrebbe buttato dalla finestra una volta che attaccò la sua repubblica
indipendente di Kalakuta, con la canzone “Una bara per il capo dello Stato”.
Kalakuta, presa dall’esercito più volte, è sempre attiva. Fela Kuti è stato
incarcerato un centinaio di volte, che sembrerebbe impossibile.
L’imprevedibilità
nasce dal khat, assicura l’ingegner Colombo:
- Per lo stordimento che dà la
masturbazione mentale. Il khat dà visioni che non si sanno comunicare,
come l’hashish. L’ha studiato la Difesa
inglese: hanno provato varie droghe sui soldati, senza benefici, né in lucidità
né in combattività. - L’anziano ingegnere è stato confinato al cerimoniale, e
alla fine, via Abidjan, ha tirato giornalisti e accompagnatori fuori da Kano,
liberi di festeggiare Natale a casa: - È più semplice fare buchi nel delta –
commentando: - In questo mestiere l’equazione è a infinite variabili, tutti
vogliono qualcosa. – L’ingegnere ha le stesse incombenze del professor
Osaniegu, con altra qualifica, dopo un’esperienza di quasi morte. Ha visto
l’aldilà per una febbre violenta, uno dei malanni tropicali di cui la
decolonizzazione ha eliminato la cognizione, hanno lasciato morire Coppi, che
aveva solo la malaria. Un coma, la diffusa corta malattia: - La quasi morte è
argomento comune. Una ciarlataneria: chi ne parla è quasi sempre uno yoruba,
basta una febbricola. – Ma ricorda fenomeni di luce che non riconosce nello
spettro, nei quali ha navigato senza ansie, anzi in pace. Ne ebbe distinta
percezione, pur non vedendosi, in uno stato generale di benessere. È l’eternità
quale ce la figuriamo, la pace nei verdi pascoli? L’ingegnere non risponde, non
ne parla volentieri.
Ha imposto con la flemma, alla corte
dell’emiro, le precedenze:
- Non c’è motivo per non onorare le regole
e i poteri locali – si è schermito, e i posti sono stati liberati su Abidjan.
Altri nel suo incarico hanno facilitato l’entrata di dirigenti e ospiti senza
la dichiarazione valutaria, per evitare le code alla dogana, dopodiché hanno
dovuto pagare grosse somme per sanare l’irregolarità, l’ammenda più la
bustarella. O li hanno presentati a personaggi della National Oil Co., l’Ente
locale, o della banca centrale, o a contatto con la Noc o la banca, per affari
più o meno leciti, dal carico spot di petrolio alla squillo, per i quali
si paga subito l’anticipo, talvolta per ineseguiti. Le due cose, l’infrazione e
l’affare, si legano in Nigeria. Non senza logica, spiega un capo redattore
politico al Freedom Daily di Lagos: “Sono predoni”, dice degli
stranieri, “colludono coi potentati per distruggere la Nigeria”. Un ex
deputato, di quando c’era il Parlamento prima di Gowon, ne fa un caso di
resistenza: “I truffatori dovrebbero essere incoraggiati”, dice, i truffatori a
danno degli stranieri.
Gli europei sono ombre sul fango compatto
di Kano, sbiadite.
La casa è il nostro vestito, si dice, ci prende la forma. O noi prendiamo la
forma della casa. Ma è il nostro primo possesso, il primo segno
d’individualità. Senza, è una privazione. Tra le mura di Kano, di argilla e pietre, paglia, sterco, che il sole e il vento
compattano, case che
le strade sterrate dilatano, anche questa semplice verità appare svanita, ma è
un inganno prospettico. A meno del colore, questa città senza
divisioni apparenti richiama le architetture vivaci dei libri cinesi o
tibetani, l’artificio delle forme vegetali: l’imponenza si sgrossa assottigliando
il muro man mano che s’innalza. Concrezione sedentaria del nomade, la casa
nasce chiusa a difesa dall’harmattan, la tramontana del Sahara che porta la
polvere nella stagione secca, e per segnare l’autorità: il nomade, con la tenda
aperta, è selettivo.
Allo stesso effetto concorre
l’accorpamento di nuclei su nuclei, che non risponde alla viabilità, padrona
del cittadino odierno. Con guizzi di luce e prospettive rotte che hanno fatto
di Andrea un invasato, bagnato di sudore, i fotografi sono affardellati di
pesante strumentazione:
- Sono stato paparazzo – si giustifica: fa la
posta alla città come la faceva alle dive. La casa è un organismo vivente privato, sacro,
nel vuoto dello spazio, uno scudo degli affetti contro il vento del tempo, la
proiezione e la misura di sé. La casa fa il nomos,
direbbe un tedesco, il lavoro invisibile del tempo, che il tempo rigenera,
della famiglia, la stirpe, il genere umano. È il segreto dell’islam, pur nella
separazione tra maschi e femmine: più l’ambiente è chiuso, più si è espansivi,
senza difese.
Alcune case stanno insieme a livelli
diversi, alcune sono l’una sfaccettatura dell’altra, in un ammasso che si vuole
anche materialmente impenetrabile, altre se ne stanno insieme lontane. Fino
alla torre Eiffel i materiali da costruzione sono sempre gli stessi, pietra
dove c’è o mattoni, fango rappreso e malta, con telaio ligneo o cannicciato: la
tecnica a Kano non è arretrata, è diversa. L’architettura islamica di interni,
che nelle case di sogno di Cordova si organizza nella frescura, attorno al
chiocchiolio dell’acqua, sotto il rampicante del cortile umbratile, è a Kano un
rinvio di ombre, che chiudono senza pareti. C’è il movimento e c’è la
stabilità. Il colore monocromo educa l’occhio alle sfumature. È sottile lo
sguardo dei suoi uomini e delle donne – la matriarca africana sopraffa la sharià
maschilista. L’abitazione avrà fini utilitari, ma è unione simbolica e intima.
L’emiro di Kano e Kaduna che mai si
mostra, disdegnando l’etichetta, la impone a fini autoritari. Il suo corteo è
sempre già passato, uno svolazzo nero e oro tra altri cavalieri, in coda una
piccola folla a piedi. È uomo pio il venerdì, esercita la carità con le decime
che esige. Gioca al polo gli altri giorni in attesa del golf, l’erba è nel
deserto un trono. Nella sua città di fango dando alla scombinata federazione nigeriana
potere e decoro: l’islam non promette libertà ma salvezza, agli obbedienti.
Furono gli emiri di Kano a offrire il Benin alla regina Vittoria, l’ultimo
impero. Kano ebbe in cambio la ferrovia, fino a Bonny e Port Harcourt, cioè ora
al petrolio.
Il Benin era ricco e bello quando il Portogallo
riscoprì l’Africa. Per oltre un secolo, nel Cinque e Seicento, soldati
portoghesi lavorarono remunerati per il re del Benin. L’Africa fu riscoperta
per la terza o quarta volta nel 1897, quando i britannici deposero l’oba del
Benin, il re. Contro la regola del governo locale, l’indirect rule, che
portò alla creazione di reucci anche dove non ce n’erano, ma funzionale
all’appropriazione e alla rivendita del tesoro reale, oltre duemila pezzi. Non
si poté più dire da allora che l’Africa è ignota. O dal 1910, quando arrivarono
sul mercato i manufatti in bronzo, pietra e terracotta di Ife, del dodicesimo
secolo. Dal 1933, quando il maestro elementare di Esie scoprì un migliaio di
statuette in pietra di cinque secoli prima. Dal 1938, dopo la scoperta a Igbo,
nello stato di Anambra, di una serie di bronzi del nono secolo. O dal 1943,
quando sempre in Nigeria, a Nok, vennero alla luce terrecotte del periodo fra
il 700 a.C. e il 200 d.C. Non si poté più dire se non per salvare l’“arianesimo”:
la tecnica di Ife, la Delfi del Benin, Frobenius trovò tanto abile che
senz’altro vi domiciliò “una razza di gran lunga più dotata dei negri”.
(da Astolfo, La morte è giovane”, romanzo, di prossima pubblicazione)
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