Un libro di storia sui venticinque
anni dalla caduta del Muro è solo benvenuto, ma l’essenziale manca. E anche sul
resto ci sono mancanze. La rappresentazione è minuziosa, circostanziata, ma
come è prassi ormai da qualche tempo per le opere di giornalisti, che coprono
le verità dei fatti, che non capiscono o celano, sotto il cumulo delle
circostanze. Si vede dal primo capitolo, che dettaglia le manovre italiane per
entrare nell’euro e le resistenze tedesche, all’euro in sé e all’Italia
nell’euro. Ma si muove in ambito Seconda Repubblica, se non ulivista, Ciampi-Dini-Prodi.
Trascurando il lavoro precedente al trattato di Maastricht (1992) fatto da
Draghi e Carli per conto di Andreotti. Ben altra squadra, con percezione reale
degli interessi in campo. Castronovo è uno di quegli storici che non hanno
ancora scoperto la Dc in Italia? Sicuramente non l’ha scoperta in Europa,
quella di Kohl, Merkel & co..
La ricostruzione, apparentemente fedele
per il gran numero di dettagli, ha discontinuità gravi. Della corsa affannata
di Ciampi-Dini-Prodi trascura peraltro l’essenziale – già subito, insomma. L’Italia
ha scelto di aggregarsi al carro germanico, e tale scelta è ancora impegnata a
onorare. A questo punto anche per evitare i danni che il riflusso provocherebbe
– staccarsene non è più possibile. Ma non aveva messo in conto i costi. È stata
una scelta in linea con quelle, sempre Dc, che hanno deciso positivamente il
destino dell’Italia nel dopoguerra (la Nato, il Mercato Comune). Ma in questo
caso presa alla leggera: l’euro è una moneta e una contabilità, non negoziabili
(mercanteggiabili). Leggendo – in altre pubblicazioni - le sciocchezzuole di Draghi,
negoziatore dell’euro per conto di Andreotti, di Carli, e perfino di Ciampi,
sul “vincolo esterno” non si sorride più, c’è solo da arrabbiarsi.
L’euro è stato per l’Italia un
azzardo. Una scelta epocale, ma azzardata: è andata bene per un periodo e poi
malissimo. Avevano ragione i tedeschi, Tietmeyer e la Bundesbank in testa, che
vivamente consigliavano all’Italia di tenersene fuori. Castronovo ne registra
le resistenze, ma come una sorta di albagia teutonica, mentre erano argomentate,
a favore dell’Italia. Quanto a Kohl,
Castronovo riporta la battuta del “Financial Times”: “Se l’Italia entra, Kohl
esce”. L’Italia infine fu ammessa agli accordi finali sull’euro, e Kohl perse
le elezioni, dopo quattro mandati, a fine settembre 1997. Le perse perché con
la riunificazione, che aveva voluto da grande statista, aveva impoverito la
Germania nel complesso. Ma è vero che aveva anche lui voluto l’Italia
nell’euro, contro tutti i suoi consigliori, da vecchio europeo – o da nuovo
tedesco, con la riserva mentale? Questa invece è una mancanza grave: la nuova
Germania. L’euro fu apprestato, dopo il trattato di Maastricht, mentre la
Germania mutava natura. Senza più i russi a Berlino – la Germania, nel 1989,
era ancora sotto occupazione. Senza più dover dipendere da Parigi, che peraltro
dopo Mitterrand si inabissava. Né dall’Italia, per dire, e in Italia dal Pci, consigliere
e stanza di compensazione nei confronti di Mosca. Berlino non è Bonn. La
Germania non è più una popolazione e un’economia alla pari con la Francia, la
Gran Bretagna o l’Italia, seppure più efficiente e produttiva: è una popolazione,
un mercato e una struttura produttiva una volta e mezza ognuno dei paesi
maggiori. È insomma un’altra Germania: già quella del quarto Kohl, dopo la riunificazione,
era un’altra rispetto a quella del secondo-terzo.
Ma tutta la componente
internazionale, preminente nella vicenda europea, è desultoria. E quando c’è, è
rituale, di maniera. È la geremiade dell’Europa che avrebbe bisogno di una
guida tedesca e della Germania che non vuole o non sa. Mentre invece l’inverso
è vero – basta leggere la stampa e la pubblicistica tedesche. È la geremiade,
ormai remota, che Barbara Spinelli ha impiantato per facilitare il recupero dei
buoni tedeschi nell’Europa unita – tanto buoni, diceva Barbara, che recalcitrano
a prenderne la guida. Senza nessun riscontro in Germania, dove anzi, senza complessi
e senza arroganze, si discute sempre apertamente di ciò che è e fa l’interesse
tedesco. La Germania, già prima della riunificazione, con i cancellieri Schmidt
e Kohl, e ancora di più dopo, ha voluto un ruolo dominante e ha lavorato e lavora
per questo. Scorrendone gli studi, i commenti, le analisi, anche di uffici e
istituti pubblici, e la sociologia critica (Beck, Habermas, Offe, Streeck, Henderlein), questo non solo è palese, è il fatto. Con
i governi di centro destra, di Kohl e di Merkel, e con i governi di centro
sinistra, di Schröder e della stessa Merkel.
L’essenziale che manca è il
vantaggio comparato che l’euro sbilanciato offre al blocco germanico. Che il
blocco germanico alimenta, con tutta evidenza, portandosene beneficiario, anche
con le maniere forti. Tanto più l’Italia paga caro il suo debito, grazie agli
allarmi quasi quotidiani da Berlino e da Francoforte, tanto più la Germania
risparmia sul suo, l’aritmetica dello spread
la può capire anche lo storico.
Valerio Castronovo, La sindrome tedesca. Europa 1989-2014,
Laterza, pp. 295 € 24
Nessun commento:
Posta un commento