Si suole dire di questo Orwell che il
futuro lo ha smentito. Ma non lo ha invece confermato? Tanto più che la sua non
è una profezia, ma una psicologia. Cambiando di segno il Grande Fratello, è anzi
ancora più grande, onnipresente se non devastante. E soprattutto è convincete,
come vuole essere nel “1984”: amato, creduto – l’ultima frase del romanzo è
“Amava il Grande Fratello”. Che oggi ha solo difensori.
Questa riedizione giubilare, per i trent’anni
simbolici dal 1984, è la vecchia traduzione Oscar ricopertinata. Non una grande
emozione. Ma sì realizzando che in questi trenta anni, compresi i venticinque
dalla caduta del Muro, niente è stato detto o fatto contro, nessuna palinodia. Il
Grande Fratello si è dissolto, ma nessuno chiede scusa o dice “mi sono
sbagliato”. Tutti più o meno ancorati ancora alle sue maiuscole verità:
LA GUERRA È LA PACE
LA LIBERTÁ È LA SCHIAVITÚ
L’IGNORANZA È FORZA. Chi obietta?
“1984” è
ancora una satira antisovietica, ma nell’intimo colpisce, con curiosa
preveggenza, il mondo post 1984, cioè l’oggi: Oceania siamo noi – Oceania del
resto raggruppava già allora le Americhe, Londra con il Commonwealth, e
l’appendice africana. Governati infine dallo Stato globale, invisibile ma
totalitario, benché si camuffi col mercato. Che da tempo ha sostituito la
pubblica opinione all'olio di ricino, e sempre si fa votare. “1984” è il romanzo
dello Stato globale, e lo Stato globale siamo noi, oggi, i trionfatori del “1984”
storico. Si esce dalla rilettura ossessionati, come da un incubo reale: della
vita, inclusi gli aspetti più personali, dagli affetti all’avidità, ridotti
quali sono oggi, alla sola dimensione pubblica, cioè politica, cioè di polizia –
l’opinione in balia dell’affarismo, dallo shopping all’eterologa. Riletto, il
“romanzo” non è tanto una lettura del comunismo sovietico, quanto di un mondo
di strutture e sovrastrutture, e di ideologie. Né più né meno di quello
odierno, bancario, avido, inflessibile, totalitario.
Orwell va
riletto quale Hobbes contemporaneo, filosofo compassionevole della politica,
nella guerra civile continentale del Novecento: “Ogni giorno distruggiamo
parole”, spiega Syme, il linguista di regime, “dozzine di parole, centinaia di
parole. Tagliamo il linguaggio all’osso”, per restringere il campo del
pensiero: “Alla fine, attraverso il pensiero, renderemo letteralmente
impossibile il crimine, perché non ci saranno parole per esprimerlo”.
La distopia di Orwell è attuale,
altroché. Lo è stata per un verso in mezza Europa fino al 1989, e lo è da
allora, blanda ma inesauribile, in tutta Europa: mai tanta censura all’intelligenza.
George Orwell, 1984, Oscar,
ril., pp. 336 € 12
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