Un’autobiografia, seppure sghemba,
confidata a pezzi a Kezich, Siciliano, Valerio Riva, Ignazio Maiore, Renzo
Renzi. Nella forma di una formidabile narrazione, tesa, a ogni riga. In ogni
accenno – la memoria si dipana lungo i film che ha realizzato – è una visione e
un’impressione che lasciano il segno. Alcuni produttori, “il regista”,
Rossellini, Anna Magnani, la Cardinale, Roma, la classicità, il film e il
libro, il colore, la televisione, Giulietta, e Totò. Di uno che si conosce bene, anche molto, e altrettanto
è solido, arguto e approfondito nei giudizi, non nevrotico e tantomeno psicotico,
malgrado le fumisterie di cui si ammantava, psico e parapsicologiche – “La
tappezzeria umana di un mio film è il mezzo più sicuro, l’elemento più preciso
per penetrare il senso del film stesso”. Il “narratore nato”, anche nelle
virgole, e uno che sa quello che sta facendo con la cinepresa, a differenza di
altri registi scrittori, Pasolini per esempio, lo stesso Eisenstein.
Federico Fellini, Fare un film
Una figura di creatore, umano-disumano,
che trova bizzarra conferma nelle confessioni a futura memoria di Anita Ekberg,
una delle sue donne-dee: “Era molto esigente quando dirigeva, incline a
improvvisi attacchi d’ira. Sul set era un padrone assoluto, d’altronde lui
stesso lo diceva che fuori dal set si sentiva vuoto. Apparentemente gentile, in
realtà un despota” – “In privato era un disastro, non aveva rispetto delle
donne”, etc. Una figura eroicomica qui Fellini vuole “il regista” (Blasetti,
Lattuada) come lo vedeva da fuori, quando faceva il giornalista. Ma di più lo fu
personalmente, poiché – è una delle sue narrazioni ritornanti in questa
raccolta – non può vedere il film che
in immagini, cioè facendolo.
Non esistono biografie di Fellini,
che pure fu personaggio molto pubblico, quasi dispersivo nella socialità. Ma
lui non mente di se stesso – anche nelle turpitudini che Anita Ekberg gli rimprovererà:
l’egotismo incontrollato, la dipendenza dai maghi, l’invidia dei colleghi, l’appropriazione
delle idee altrui. È come se fosse il regista di se stesso, bello e brutto: è
lui stesso il Grand Hotel di cui fantasticava da bambino a Rimini. Sincero e insincero: “A conti
fatti, l’accusa di grande mistificatore lanciatami anni fa può sembrare vera” –
sembrare. Mentre spiega che lui di
circo e guitti non sa niente – ma in questo modo: “Mi sento l’ultimo al mondo a
poterne parlare con conoscenza di storia, di fatti, di notizie”. Consolandosi
con l’invenzione di un autorevolissimo chi l’ha detto che ha fatto subito
testo: “L’unico e vero realista è il visionario”.
A proposito
di idee altrui uno degli aneddoti qui più gustosi è come Magnani e Rossellini
si appropriarono senza dargliene credito de “Il miracolo”, dopo averlo tempestato
per avere un secondo episodio con cui rimpolpare “La voce umana” (i due episodi
uscirono col titolo “L’amore”. Da ultimo si confessa splendidamente a Liliana Berti, spiegando “Casanova”:
tre anni di lavorazione per svuotarlo, “un film astratto e informale sulla «non
vita», la sua. Una storia che culmina in un sogno di cinematografari, sguaiati
e veridici, con una bambina emersa dal nulla che gli chiede: “Ma tu Fellini non
cambierai mai?”, e lui ci prova, prova a risponderle: “Ci proverò”.
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