Comunismo
–
La “via italiana” al comunismo, da Togliatti a Berlinguer, si è estinta con
l’Urss. Con la caduta del Muro e la deflagrazione dell’Unione Sovietica. Non ha
retto all’abbandono della Russia, del partito guida. Uno dei tanti fatti molto
evidenti di cui non si parla.
Non ha retto alla fine, nonché
dell’ideologia, dei finanziamenti russi, che erano larga parte della sua
organizzazione. Ha ancora avviato e vinto battaglie, contro i socialisti e i
liberali, a opera degli ultimi colonnelli di Berlinguer: Occhetto, D’Alema,
Veltroni, Fassino. Ma battaglie da retroguardia, nella ritirata, nel mentre che
si consegnava alla Dc. Grazie soprattutto all’apparato repressivo, dei giudici,
le polizie, gli apparati redazionali, che controllava. Ma finendo ruota di
scorta di banche e affari – del “mercato” – oltre che dal democristianesimo. Le
sue ultime incarnazioni, Vendola, Boldrini, Enrico Rossi, lo stesso Bersani,
sembrano maschere.
Ha
accelerato la storia, ma ne è stato anche il rifiuto. In Russia e in tutta
Europa, e anche in Cina, nonché a Cuba. “Una nuova civiltà” a Mosca è titolo di Beatrice
e Sidney Webb, ma giusto per certificare la decadenza del giudizio politico
inglese – in duemila pagine. Il comunismo è stato, dopo la Liberazione, sempre cadavere,
se ne sentiva la puzza. Artur London, il comunista ceco sopravissuto al
processo Slánský, per raccontarlo nel 1968, non era solo. Il croato Karlo
Stajner aveva scritto dei suoi anni in Siberia, ma non pubblicava niente senza
il consenso di Tito, non voleva nuocere al comunismo. Si può non capire niente.
Quando Dubcek mandò London in televisione, la moglie Sonia, russa, che per
vent’anni l’aveva atteso, gli teneva la mano, che non facesse anticomunismo. Ligio
Zanini, altro memorialista, era invece uno di quelli, monfalconesi e non, che
si erano fatti il lager di Goli Otok
per difendere nel ‘48 il compagno Stalin dal traditore Tito.
Nessun
comunista ha mai perso una guerra, è vero: Lenin, Stalin, Mao, Corea, Vietnam,
Cuba. Eccetto quella per il comunismo: Breznev non poteva non fare la guerra a
Praga, Gorbaciov non poteva non smantellare la baracca. E questa era la colpa
dei comunisti, la verità che fingevano di non vedere: non c’era comunismo
possibile, Mosca non lo consentiva, prima che gli Usa. Il
genere umano ridotto a una sola testa era il disegno di Nerone, prima che di
Stalin.
L’Urss non aveva mai destalinizzato. O Stalin
era l’Urss.
Imperialismo – È anche un’opportunità. Per il giovane del Dodecaneso che faceva il marinaio
a Venezia, o per il montanaro sudtirolese che faceva il fante a Roma, per il fellah curato in ospedale. Il
nazionalismo è naturale, come il diritto alla casa, è parte della personalità, il
diritto naturale lo protegge. Ma è solo una forma di possesso.
La
libertà, anche, va con l’impero: l’orizzonte è largo, si impara, si gode, si
guadagna di più. E comunque si è protetti da una legge: l’impero è anche legge,
e spesso è la sola. Mentre il diritto naturale può essere – è stato in Africa e
in Asia in questo mezzo secolo di indipendenza – conculcato e anzi nemmeno
preso in considerazione.
Lavoro
– Ha natura personale e privata, anche
nelle grandi organizzazioni. Il sindacalismo nasce da questa esigenza, prima
che da un disegno politico. Tra le tante mancanze che nella
Mosca sovietica sorprendevano era, anche all’opera dove aveva le prime file
riservate, il lavoratore – era come per le donne, che un tempo vi comandavano impavide (i
Sauromati erano governati dalla donne, dicono Erodoto e Scilace concordi, le
amazzoni). Lavorando tutti, lavorare era obbligatorio, non
c’era più rispetto per il lavoro e il lavoratore. Da parte dello stesso
lavoratore.
Si discettava allora di lavoro alienato senza
vedere il lavoro forzato. Ma è vero che in quella società collettiva il
lavoratore non c’era, se non nelle forme atipiche del sabotatore, l’assenteista.
O del rivoluzionario, il salvatore, ma in chiave sempre di rifiuto.
Mosca negli anni di Breznev non era “1984”, poiché
vi si facevano figli e c’era luce di giorno, ma era l’“umanità socializzata”
che Marx auspica con la socializzazione dei mezzi di produzione. I tentativi di
creare il lavoratore erano patetici: Stakhanov copiava l’uomo del giorno, o del
mese, in bacheca nelle aziende Usa, solo mancava la foto ritoccata.
Nenni
– Era storia moscovita al tempo dell’Urss,
che avesse
riconquistato nel 1948 il partito Socialista, che era passato agli autonomisti,
con Malenkov, e le pelli e l’oro di Mosca. Malenkov era il capo del Pcus, il partito
comunista sovietico, per conto di Stalin. Malenkov e Nenni s’incontravano a
Praga al tempo delle purghe, e continuarono.
Malenkov
era rotondo e pacioso, ma era uomo di mano di Stalin. Ne fu il successore e
fece avere a Nenni il premio Stalin. Che poi Angelo Rizzoli, dopo il 1956, dovette rifondere.
Possesso
– Gli Usa si sono voluti a lungo, e tuttora surrettiziamente si pensano, “socialismo
senza socialisti”. La patria delle uguaglianze. Ma confermando dunque che il
socialismo è possesso, è “avere”.
“Il possesso si collega nella storia alla
vittoria di Salamina, senza la quale le tenebre del dispotismo orientale
avrebbero avvolto la terra”, spiega Condorcet. Cioè alla democrazia.
È stato il socialismo a indurre e generalizzare l’idea del possesso.
Flaubert l’ha visto nel ’48, la rivoluzione della libertà, guardando le
barricate da lontano, e l’ha dettagliato vent’anni dopo nella sua “Educazione sentimentale”,
che invece è politica. A
un certo punto i socialisti si smarcarono dai liberali, che ne furono atterriti
e si segregarono. “Allora”, dice Flaubert, “la Proprietà montò nei rispetti al
livello della Religione e si confuse con dio. Gli attacchi che le si portavano parvero
sacrilegio, quasi antropofagia.”
È
la chiave – l’appeal – delle
rivoluzioni: il rivolgimento è come una presa di possesso. Grande è stata, è,
l’avidità dei baby-boomers, la
generazione della guerra che ha fatto il Sessantotto. Che si può definire un
grande movimento per il possesso, di desiderio, di avidità. È stata la
generazione vivente che si è “preso tutto”: le pensioni, la sanità,
l’istruzione, il viaggio pure semigratuito con l’interrail, il fumo, la fitness.
Con la casa in Toscana, anche in Umbria, o sennò in Sabina e Lomellina. E la
duplice accoppiata possesso-sesso.
L’avidità,
il desiderio di possesso, ha marchiato il Movimento Studentesco e i gruppuscoli
che se ne sono generati, fino al terrorismo. Forse più della voglia di
liberazione, che anzi è una parte di quella generale presa di possesso. Da golosi
più che ingordi. Rifiutando, cioè scegliendo. Non per l’accumulo, la carriera:
non finalizzando, spesso variando, e dissipando. Vivendo secondo l’umore.
Quello che si pubblicizza come “qualità della vita”: amori, amicizie, avventure.
astolfo@antiit.eu
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