Piccole prose da terza pagina - feuilletons, elzeviri - che Roth sa
animare, l’incantatore è lui: il prestigiatore, un tempo incantatore, i manichini,
le vecchie fotografie, e le nuove, il clown (“il clown è piuttosto un accessorio da pausa. Di fatto esiste allo
stato di un suono di campanello e di un rullo di tamburi”), il boy.
Claudia Ciardi, che ha curato
l’edizioncina, le dice “miniature, confinate nel limbo di una spettrale
corporeità”. E questo è forse il mondo rothiano, ancora prima dell’esilio e la déchéance, quale Marino Freschi l’ha
delineato nella monografia a lui dedicata: “l’attualissima riflessione rothiana sulla figura del «nomade»
quale destino estremo dell'uomo contemporaneo, sempre più «libero» da radici e
da atavici condizionamenti” – “e sempre più angosciato”, prosegue Freschi, “per
una libertà che non sa tradursi in progetto”, ma non qui, non ancora. Qui la
malinconia è ancora quella mitteleuropea, di un esilio interiore, da
sopravvissuto della storia della Belle Èpoque, prima che di reietto razziale.
Joseph Roth storicizza in ogni parola al
massimo, della storia fin negli interstizi. E le persone e le cose che ne fa
emergere fa rifiutare dalla realtà – il mondo, la storia. Da intimo convivente
dell’umanità, e tuttavia sradicato, esiliato, anonimo.
Joseph Roth, L’incantatore e altre prose, Ocra gialla, pp. 33 € 4
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