martedì 17 febbraio 2015

Il piacere dell’esilio (interiore)

Piccole prose da terza pagina - feuilletons, elzeviri - che Roth sa animare, l’incantatore è lui: il prestigiatore, un tempo incantatore, i manichini, le vecchie fotografie, e le nuove, il clown (“il clown è piuttosto un accessorio da pausa. Di fatto esiste allo stato di un suono di campanello e di un rullo di tamburi”), il boy.
Claudia Ciardi, che ha curato l’edizioncina, le dice “miniature, confinate nel limbo di una spettrale corporeità”. E questo è forse il mondo rothiano, ancora prima dell’esilio e la déchéance, quale Marino Freschi l’ha delineato nella monografia a lui dedicata: “l’attualissima riflessione rothiana sulla figura del «nomade» quale destino estremo dell'uomo contemporaneo, sempre più «libero» da radici e da atavici condizionamenti” – “e sempre più angosciato”, prosegue Freschi, “per una libertà che non sa tradursi in progetto”, ma non qui, non ancora. Qui la malinconia è ancora quella mitteleuropea, di un esilio interiore, da sopravvissuto della storia della Belle Èpoque, prima che di reietto razziale.
Joseph Roth storicizza in ogni parola al massimo, della storia fin negli interstizi. E le persone e le cose che ne fa emergere fa rifiutare dalla realtà – il mondo, la storia. Da intimo convivente dell’umanità, e tuttavia sradicato, esiliato, anonimo.
Joseph Roth, L’incantatore e altre prose, Ocra gialla, pp. 33 € 4

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