La scuola evoca pensieri tristi. Levatacce, ogni mattina,
corse con l’affanno, e lunghe ore chiusi con altri bambini molesti e vice-madri
arcigne. E così appare all’entrata, alle otto: i piccoli millennials
sgambettano insofferenti, seri, tesi. Si ammucchiano ai cancelli senza
guardarsi intorno, come vitellini che si affollassero alle porte del macello.
Ma quando finalmente i cancelli si aprono si avventano dentro senza guardarsi
indietro, senza rispondere ai “ciao, ciao” e ai “mi raccomando”, urtandosi,
spingendosi, improvvisamente loquaci. Vanno alle arcigne maestre che li
aspettano ai piani come se corressero a una meta agognata.
Che sia la scuola diventata un paradiso? Sarebbe utopia.
Certo è che quando escono, dopo cinque, otto ore, ammutoliscono, e fanno
l’occhio triste. Forse i bambini sono invidiosi dei genitori che li aspettano
rumorosi, giulivi. Benché da loro accuditi e quasi soffocati, loro sì
gelosamente onnipresenti. Alla stessa maniera dell’animale domestico, un oggetto
di amore sconfinato, non più di rispetto e di attenzione vigile, la filosofica
cura, che vuole il bene del paziente per il bene proprio, e non viceversa. A
cui non si lascia nemmeno il gioco,
nemmeno il sonno. Una proprietà esclusiva, una droga.
Si dice, ora è d’uso nella psicologia, che i bambini siano
cattivi. E sarà vero, chissà, loro non parlano, neppure se interrogati,
soprattutto non se interrogati. Repressi, forse, dal rancoroso ultimo
Novecento, della fine delle illusioni, e forse già depressi, saranno in petto, chissà, dei fieri rivoltosi.
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