Trascurato
in Italia, fino a questa traduzione tarda e alla macchia, della casa editrice
eretica di Massimo e Lorenzo Fagioli, era un libro volutamente polemico, che
faceva di Heidegger il filosofo coperto del nazismo. Un’eresia all’uscita nel
2005. Un po’ meno alla riedizione due anni dopo. Non più oggi. Faye peraltro è
un filosofo e non un polemista – anche se si
lascia andare alla fine a un eccessivo “i risultati delle nostre ricerche ci
hano indotto a rmettere in questione le’sistemza stessa di una «filosofia» di
Heidegger”: studioso di Bovelles, Montaigne, Descartes, dirige il Centro di storia della filosofia
moderna e contemporanea dell’università parigina di Nanterre.
La tesi
che sembrava ardita e sbagliata, che la filosofia di Heidegger si sia
sviluppata segretamente attorno ai temi base del nazismo, e in un universo
mentale nazista, era tuttavia per un lettore di Heidegger plausibile e anzi
chiarificatrice. Di tante, troppe, ambiguità – si dice il discorso di Heidegger
involuto, ma quando lo è, lo è di proposito: spesso è anche, e sempre nelle
lettere, chiaro e diretto, quasi brutale. Così
come in troppi passi dei “Contributi alla filosofia (Dall’evento)”, opera del
1936-38 che Heidegger volle pubblicata postuma – e, assicura Faye, nelle nelle
due miscellanee successive delle Opere compete, “Koinon” (“La forma cristiana e borghese del «bolscevismo»
inglese è la più pericolosa. Senza il suo annientamento, l’epoca moderna resta inattuata”), e “Besinnung”,
riflessione.
Non aveva molti dubbi già Lacan, quando fu curatore dell’università di Friburgo, dove Heidegger insegnava, subito dopo l’occupazione, nel 1945-1946, e ne ascoltò un paio di volte contorti esercizi verbali per non negare il nazismo. Era perplesso Derrida, sul piano più ristretto della
riflessione, seppure sempre molto rispettoso, già venticinque anni fa, in “Dello
spirito: Heidegger e la questione”: si tratta di sapere a cosa porta il “si” di accettazione a un certo punto, diciamo nel 1933, a quale obbedienza dopo il rifiuto, insieme col gran parlare che si fa dello “spirito” dopo averlo cassato, e se e come coinvolge il “si”
impersonale invece dell’“io”. Fermo restando che “si tratta di ciò che resta da
pensare del nazismo in generale e del nazismo di Heidegger”, oltre che “delle
politiche dello spirito”. Si sa
che Heidegger rifiuta la razza, ma in quanto biologica. Della razza ha invece
concezione più radicale, quella “spirituale”: una “selezione naturale della
razza” trova “metafisica”, in un “pensiero della razza”.
Faye fa anche emergere qualche scritto trascurato o seminario (messaggio orale) inedito, e soprattutto
il contesto: la corrispondenza, le frequentazioni, la rete intellettuale, i
modi di essere, di dire, di vivere – non c’è una biografia di Heidegger, ma
tutto quello che si sa va in questo senso. Del
corso su Nietzsche recupera una lunga parte, poi omessa nella riedizione finale
nel 1961, in ui Heidegger interpreta “metafisicamente” l’invasione della
Francia. E “la motorizzazione della Wehrmacht”. Le testimonianze degli studenti cui si devono le redazioni dei colloqui e seminari sono contradittorie in materia di politica: alcuni ne fanno un oppositore e quasi un resistente. Ma si annullano con testimonianze di segno opposto.
Gli
inediti sono peraltro (erano?) temporanei, notava Faye già dieci anni fa, come
ora è palese. C’era e c’è una strategia di pubblicazione e diffusione, a
carattere familiare e privato, che punta a far emergere le asperità naziste più
evidenti: antisemitismo, illiberalismo, bellicismo, misteriosofismo, e l’uso corrente delle
parole d’ordine hitleriane, sacrificio, sangue, terra, patria, destino (Schicksal, Volk, Boden, Blut, Opfer, Rasse,
Stamm). Come di un testamento a futura memoria, per un destino che non
potrà non avverarsi, che era la fede nazista, ed è il fondo delle conferenze di Brema del 1949 che ne sancirono la
riabilitazione (delle camere e gas e i campi di sterminio come errori e eccessi
della deprecata tecnica, col famoso “la guerra non ha deciso niente”), e dell’ironia
che sottende l’intervista con lo “Spiegel” a titolo postumo, “Solo un Dio ci può salvare”. Oggi Donatella
di Cesare, vice presidente della Fondazione Heidegger, può porsi su “La
lettura” il problema: “Perché, a metà degli anni Settanta, (Heidegger) ha
progettato la pubblicazione dei «Quaderni neri»? Che cosa si aspettava
dall’Europa in cui noi oggi viviamo?” Nulla di preciso probabilmente, non
propriamente nel 2014-2015, i due anni che la “famiglia” ha scelto per ravvivare
le vendite, ma voleva che a un certo punto si sapesse, quello era il suo
pensiero.
In
effetti, a quello che appare, è anche probabile che la cosa non finisca qui. I
temi non sono ancora maturi per un revisionismo tedesco, ma le premesse sono tenute
vive: sui bombardamenti, la resa incondizionata, la bomba H. Quanto agli ebrei,
quello di Heidegger è antiebraismo più che antisemitismo. Lo argomenta infatti
non tanto sulla razza, da cui rifugge, nella versione biologica, ma sullo sradicamento
del popolo ebraico, per ciò stesso per lui popolo senza patria. È la stessa
cosa che Yuri Slezkine, lo slavista di Berkeley, ha rivendicato dieci anni fa con “Il secolo
ebraico”: la “mercurialità” o “nomadismo
terziario” del popolo ebraico quale fonte di mobilità intellettuale e sociale, duttilità,
innovazione, perequazione, merito. Che il mondo finalmente libero sta modulando
su questi presupposti - quello che Heidegger chiama “ingiudamento” del mondo e depreca.
Lo “spirito” di Heidegger è nei due testi allora inediti che Faye proponeva non ragione né comprensione, ma
“vento”, “tempesta”, “impulso”, “impegno”. È ciò che trascina il popolo, non
ciò che ne rischiara la conoscenza. Del seminario su Hegel che Faye, un corso di fine 1934, il senso è netto in questo preliminare: “Si è
detto che Hegel nel 1933 era morto; al contrario, è allora soltanto che ha
cominciato a vivere”.
Contro
tanto esplicito nazismo ci sono, se si guarda bene alla cosa, solo due errori
di fatto. La derubricazione del nazismo a un episodio di follia di alcuni
folli. E la storia d’amore di Heidegger con Hannah Arendt, con la difesa che
Arendt ne ha fatto, determinata e accorta fino alla riabilitazione, dopo
l’allontanamento del suo vecchio amante dall’insegnamento, che è stata una
consacrazione. Col sostegno decisivo di Karl Jaspers, che della stessa Arendt era stato ed era il maestro di elezione. Una restaurazione non isolata peraltro: Rothaker e Becker, due filosofi di regime,
restarono in cattedra a Bonn dopo la guerra.
La volpe
La volpe
I
filosofi non leggono Hitler, e non leggono nemmeno i filosofi hitleriani:
Heidegger parla e scrive come loro. Hannah Arendt non ha contestato i fatti che il processo di denazificazione
aveva accumulato, Karl Löwith, discepolo già amato, aveva denunciato nel 1946 su
“Les Temps modernes” in risposta a de Towarnicki, e Guido Schneeberger
pubblicherà nel 1962, ma li ha voluti nulli - dopo aver scritto al marito, Heinrich Blücher: “Heidegger
mente notoriamente su tutto, e tutte le volte che può”. C’è riuscita, ha fatto di Heidegger un ingenuo in politica
in mezzo a tanti furbi - la volpe che resta prigioniera della tana che si è costruita - e questa immagine
resiste.
La
stessa relazione tra i due, che fu sempre intima e quasi nulla sul piano
scientifico, è emblematica di un modo di essere di Heidegger che solo la cecità
dell’infatuazione può aver trascurato. Chi ha frequentato Hannah Arendt, opere,
memorie e lettere, sa che era una storia a senso unico, lui è sempre stato
ambiguo nei sentimenti, e sfruttatore di fatto. Era e si manifestava un
quarantenne tradito dalla moglie e affamato di rivincite, che si sbatteva una
ventenne, ebrea per giunta, che sapeva di greco, di notte, fuori città, su
convocazione imperiosa dell’ultimo minuto.
Incide
anche la riabilitazione preventiva di Heidegger in Francia subito dopo la
guerra, essendo il Baden zona d’occupazione francese. La Francia era un paese e
una cultura, filosofia compresa, che Heidegger apertamente disprezzava. Ma si
attaccò come una ventosa al giovane tenente Frédérick de Towarnicki che,
avendolo in consegna, lo aveva riconosciuto (l’aveva sentito nominare), e
all’ancora giovane insegnante di filosofia Jean Beaufret con cui de Towarnicki
lo mise in contatto - nel mentre che presentava Heidegger in una veste
lusinghiera nel 1945-46 su “Les Temps modernes”, la rivista di Sartre.
Heidegger non perse occasione di dispensare seminari in Francia ovunque. Fino
agli incontri teatrali, simbolici, consacratori, con René Char, il capitano
“Alexandre” della Resistenza, e Paul Celan, nella baita-rifugio-cenacolo di Todtnauberg. Ma fu premuroso e perfino
servizievole solo per opportunismo. Non condannò mai la guerra, né la prima né
la seconda. Come non condannò mai il nazismo, non per lo sterminio, e nemmeno
per la guerra perduta. In “una strategia”, dice Faye, “di occultazione e
dissimulazione”. Clauss, uno dei pochi filosofi sanzionati dalla
denazificazione, si lamenterà con Rothaker in questi termini: “La saggezza
allora di Heidegger! «Che cosa penso, lo dirò quando sarò ordinario», mi è
mancata allora in gioventù, e ora è troppo tardi”. L’antiebraismo non sfoggiò finché
non fu ordinario.
Per chi
ha letto Heidegger, ovunque con qualche meraviglia, l’argomentazione di Faye è
solo semplice, didascalica. È pure vero che il nazismo è stato sconfitto ma non
è morto. L’eccesso polemico che a Faye si rimprovera è nel ridurre troppi al
nazismo, Jünger per esempio, e Carl Schmitt, e Nolte. E il nazismo alla
Soluzione Finale. L’antisemitismo così diffuso nella Germania postbellica, nella
morsa tra la sconfitta (la Francia feroce) e il sovietismo, non arriva a tanto,
solo alle proprietà e ai posti degli ebrei – Hitler lo direbbe vile. Il
nazionalismo al contrario era diventato fortissimo, una “metafisica” in
Heidegger, rafforzato dalla sconfitta.
Scadenti
pure alcuni particolari, che nella notevole congerie che ammassa Faye
evidentemente non rivede. Alla fine fa Heidegger in fuga da Messkirch, dove s’era
rifugiato dai bombardamenti su Friburgo, in bicicletta verso Est, “temendo di
essere arrestato dagli Alleati”. Verso i russi? In bicicletta? Per un’affrettata
lettura di un aneddoto raccontato da Nolte a Antonio Gnoli su “Repubblica dell’11
settembre 1992: “Un giorno lo raggiunsi in bicicletta per portargli uno zaino
pieno di biancheria e di generi alimentari che mi aveva dato la moglie”, da
Friburgo.
La trattazione dà fastidio perché monotematica: non è
Heidegger ma, per cinquecento pagine, una parte di Heidegger, quella nazista.
Faye dice nazista lo Heidegger di prima e quello di dopo, ma argomenta
debolmente – o forse non bastano per questo le sue cinquecento pagine. È però
vero che la tecnica (la modernità) non è buona prima in Heidegger, è buonissima
con Hitler, e torna cattiva dopo. Uno dei punti centrali cioè del pensiero di
Heidegger.
Ed è pure vero che Heidegger
per l’essenziale è semplice. Negli “esistenziali” per esempio: l’essere-nel-mondo,
l’essere-in-comune, l’essere-per-la-morte. Nei concetti chiave di comunità di destino
e di popolo, Schicksalsgemenischaft e
Volksgemeinschaft, anche di esistenziali o elementari. O sull’ebraismo. Con gli omaggi precoci a Yorck von
Wartenberg e il concetto dirimente di stanzialità,
radicamento, comunità di luogo. E
quello che oggi si legge nei diari postbellici dei “Quaderni neri”, di un ebraismo
costituivo, una questione ebraica. Questo ebraismo è “ciò che distrugge”. E ciò
che distrugge naturalmente si autodistrugge – come oggi si legge: la Soluzione
Finale è l’“autoannientamento degli ebrei”. Il nazismo però no: non distrugge,
e non si è autodistrutto. Non se ne parla spesso in Heidegger, ma è presente,
solo responsabile di qualche eccesso e alcuni errori, ed è anzi l’angelo
vendicatore, di giustizia. L’ebraismo come la tecnica. Che vuol dire, in più
punti chiaramente, l’America. Heidegger è un’altra civiltà. Ma non da ora e non isolatamente: tutto questo che
Heidegger dice era – è – il nucleo della
“rivoluzione conservatrice”, da Thomas Mann a Schmitt e Jünger.
Emmanuel
Faye, L’introduzione del nazismo nella
filosofia, L’Asino d’Oro, pp. 502 € 30
Livia
Profeti, la curatrice, ricorda che già nel 1980 Massimo Fagioli aveva
individuato matrici naziste in Heidegger. La traduzione ha condotto
sulla seconda edizione di Faye, 2007, con alcuni tagli e “fisiologici aggiustamenti”
- “concordati con l’Autore”. Il taglio
riguarda i “seminari heideggeriani analizzati nell’opera quando erano inediti e
che invece sono stati recentemente pubblicati”. E la figura di Erik Wolf, che
si vuole un eroe della resistenza luterana (la “chiesa confessante”) invece che
un nazista, malgrado la riconversione tardiva.
Procedendo alla ritraduzione delle traduzioni di Faye da Heidegger, Profeti
si è rifatta, dove possibile, a quelle già disponibili in edizione italiana. Salvo
riscontrare discrepanze abnormi tra quelle di Franco Volpi e le altre, disinvolte
e devianti. E anche questo è parte del problema – dopotutto il tedesco è una
lingua viva, non intraducibile.
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