domenica 8 febbraio 2015

La volpe di Hitler

Trascurato in Italia, fino a questa traduzione tarda e alla macchia, della casa editrice eretica di Massimo e Lorenzo Fagioli, era un libro volutamente polemico, che faceva di Heidegger il filosofo coperto del nazismo. Uneresia all’uscita nel 2005. Un po’ meno alla riedizione due anni dopo. Non più oggi. Faye peraltro è un filosofo e non un polemista  – anche se si lascia andare alla fine a un eccessivo “i risultati delle nostre ricerche ci hano indotto a rmettere in questione le’sistemza stessa di una «filosofia» di Heidegger”: studioso di Bovelles, Montaigne, Descartes, dirige il Centro di storia della filosofia moderna e contemporanea dell’università parigina di Nanterre.
La tesi che sembrava ardita e sbagliata, che la filosofia di Heidegger si sia sviluppata segretamente attorno ai temi base del nazismo, e in un universo mentale nazista, era tuttavia per un lettore di Heidegger plausibile e anzi chiarificatrice. Di tante, troppe, ambiguità – si dice il discorso di Heidegger involuto, ma quando lo è, lo è di proposito: spesso è anche, e sempre nelle lettere, chiaro e diretto, quasi brutale. Così come in troppi passi dei “Contributi alla filosofia (Dall’evento)”, opera del 1936-38 che Heidegger volle pubblicata postuma – e, assicura Faye, nelle nelle due miscellanee successive delle Opere compete, “Koinon” (“La forma cristiana e borghese del «bolscevismo» inglese è la più pericolosa. Senza il suo annientamento, l’epoca moderna resta inattuata”), e “Besinnung”, riflessione.
Non aveva molti dubbi già Lacan, quando fu curatore delluniversità di Friburgo, dove Heidegger insegnava, subito dopo loccupazione, nel 1945-1946, e ne ascoltò un paio di volte contorti esercizi verbali per non negare il nazismo. Era perplesso Derrida, sul piano più ristretto della riflessione, seppure sempre molto rispettoso, già venticinque anni fa, in “Dello spirito: Heidegger e la questione”: si tratta di sapere a cosa porta il “si” di accettazione a un certo punto, diciamo nel 1933, a quale obbedienza dopo il rifiuto, insieme col gran parlare che si fa dello “spirito” dopo averlo cassato, e se e come coinvolge il “si” impersonale invece dell’“io”. Fermo restando che “si tratta di ciò che resta da pensare del nazismo in generale e del nazismo di Heidegger”, oltre che “delle politiche dello spirito”. Si sa che Heidegger rifiuta la razza, ma in quanto biologica. Della razza ha invece concezione più radicale, quella “spirituale”: una “selezione naturale della razza” trova “metafisica”, in un “pensiero della razza”. 
Faye fa anche emergere qualche scritto trascurato o seminario (messaggio orale) inedito, e soprattutto il contesto: la corrispondenza, le frequentazioni, la rete intellettuale, i modi di essere, di dire, di vivere – non c’è una biografia di Heidegger, ma tutto quello che si sa va in questo senso. Del corso su Nietzsche recupera una lunga parte, poi omessa nella riedizione finale nel 1961, in ui Heidegger interpreta “metafisicamente” l’invasione della Francia. E “la motorizzazione della Wehrmacht”. Le testimonianze degli studenti cui si devono le redazioni dei colloqui e seminari sono contradittorie in materia di politica: alcuni ne fanno un oppositore e quasi un resistente. Ma si annullano con testimonianze di segno opposto.
Gli inediti sono peraltro (erano?) temporanei, notava Faye già dieci anni fa, come ora è palese. C’era e c’è una strategia di pubblicazione e diffusione, a carattere familiare e privato, che punta a far emergere le asperità naziste più evidenti: antisemitismo, illiberalismo, bellicismo, misteriosofismo, e l’uso corrente delle parole d’ordine hitleriane, sacrificio, sangue, terra, patria, destino (Schicksal, Volk, Boden, Blut, Opfer, Rasse, Stamm). Come di un testamento a futura memoria, per un destino che non potrà non avverarsi, che era la fede nazista, ed è il fondo delle conferenze di Brema del 1949 che ne sancirono la riabilitazione (delle camere e gas e i campi di sterminio come errori e eccessi della deprecata tecnica, col famoso “la guerra non ha deciso niente”), e dell’ironia che sottende l’intervista con lo “Spiegel” a titolo postumo, “Solo un Dio ci può salvare”. Oggi Donatella di Cesare, vice presidente della Fondazione Heidegger, può porsi su “La lettura” il problema: “Perché, a metà degli anni Settanta, (Heidegger) ha progettato la pubblicazione dei «Quaderni neri»? Che cosa si aspettava dall’Europa in cui noi oggi viviamo?” Nulla di preciso probabilmente, non propriamente nel 2014-2015, i due anni che la “famiglia” ha scelto per ravvivare le vendite, ma voleva che a un certo punto si sapesse, quello era il suo pensiero.
In effetti, a quello che appare, è anche probabile che la cosa non finisca qui. I temi non sono ancora maturi per un revisionismo tedesco, ma le premesse sono tenute vive: sui bombardamenti, la resa incondizionata, la bomba H. Quanto agli ebrei, quello di Heidegger è antiebraismo più che antisemitismo. Lo argomenta infatti non tanto sulla razza, da cui rifugge, nella versione biologica, ma sullo sradicamento del popolo ebraico, per ciò stesso per lui popolo senza patria. È la stessa cosa che Yuri Slezkine, lo slavista di Berkeley, ha rivendicato dieci anni fa con “Il secolo ebraico”:  la “mercurialità” o “nomadismo terziario” del popolo ebraico quale fonte di mobilità intellettuale e sociale, duttilità, innovazione, perequazione, merito. Che il mondo finalmente libero sta modulando su questi presupposti - quello che Heidegger chiama “ingiudamento” del mondo e depreca.
Lo “spirito” di Heidegger è nei due testi allora inediti che Faye proponeva non ragione né comprensione, ma “vento”, “tempesta”, “impulso”, “impegno”. È ciò che trascina il popolo, non ciò che ne rischiara la conoscenza. Del seminario su Hegel che Faye, un corso di fine 1934, il senso è netto in questo preliminare: “Si è detto che Hegel nel 1933 era morto; al contrario, è allora soltanto che ha cominciato a vivere”.
Contro tanto esplicito nazismo ci sono, se si guarda bene alla cosa, solo due errori di fatto. La derubricazione del nazismo a un episodio di follia di alcuni folli. E la storia d’amore di Heidegger con Hannah Arendt, con la difesa che Arendt ne ha fatto, determinata e accorta fino alla riabilitazione, dopo l’allontanamento del suo vecchio amante dall’insegnamento, che è stata una consacrazione. Col sostegno decisivo di Karl Jaspers, che della stessa Arendt era stato ed era il maestro di elezione. Una restaurazione non isolata peraltro: Rothaker e Becker, due filosofi di regime, restarono in cattedra a Bonn dopo la guerra.
La volpe
I filosofi non leggono Hitler, e non leggono nemmeno i filosofi hitleriani: Heidegger parla e scrive come loro. Hannah Arendt non ha contestato  i fatti che il processo di denazificazione aveva accumulato, Karl Löwith, discepolo già amato, aveva denunciato nel 1946 su “Les Temps modernes” in risposta a de Towarnicki, e Guido Schneeberger pubblicherà nel 1962, ma li ha voluti nulli - dopo aver scritto al marito, Heinrich Blücher:  “Heidegger mente notoriamente su tutto, e tutte le volte che può”. C’è riuscita, ha fatto di Heidegger un ingenuo in politica in mezzo a tanti furbi - la volpe che resta prigioniera della tana che si è costruita - e questa immagine resiste.
La stessa relazione tra i due, che fu sempre intima e quasi nulla sul piano scientifico, è emblematica di un modo di essere di Heidegger che solo la cecità dell’infatuazione può aver trascurato. Chi ha frequentato Hannah Arendt, opere, memorie e lettere, sa che era una storia a senso unico, lui è sempre stato ambiguo nei sentimenti, e sfruttatore di fatto. Era e si manifestava un quarantenne tradito dalla moglie e affamato di rivincite, che si sbatteva una ventenne, ebrea per giunta, che sapeva di greco, di notte, fuori città, su convocazione imperiosa dell’ultimo minuto.
Incide anche la riabilitazione preventiva di Heidegger in Francia subito dopo la guerra, essendo il Baden zona d’occupazione francese. La Francia era un paese e una cultura, filosofia compresa, che Heidegger apertamente disprezzava. Ma si attaccò come una ventosa al giovane tenente Frédérick de Towarnicki che, avendolo in consegna, lo aveva riconosciuto (l’aveva sentito nominare), e all’ancora giovane insegnante di filosofia Jean Beaufret con cui de Towarnicki lo mise in contatto - nel mentre che presentava Heidegger in una veste lusinghiera nel 1945-46 su “Les Temps modernes”, la rivista di Sartre. Heidegger non perse occasione di dispensare seminari in Francia ovunque. Fino agli incontri teatrali, simbolici, consacratori, con René Char, il capitano “Alexandre” della Resistenza, e Paul Celan, nella baita-rifugio-cenacolo di Todtnauberg. Ma fu premuroso e perfino servizievole solo per opportunismo. Non condannò mai la guerra, né la prima né la seconda. Come non condannò mai il nazismo, non per lo sterminio, e nemmeno per la guerra perduta. In “una strategia”, dice Faye, “di occultazione e dissimulazione”. Clauss, uno dei pochi filosofi sanzionati dalla denazificazione, si lamenterà con Rothaker in questi termini: “La saggezza allora di Heidegger! «Che cosa penso, lo dirò quando sarò ordinario», mi è mancata allora in gioventù, e ora è troppo tardi”. L’antiebraismo non sfoggiò finché non fu ordinario.
Per chi ha letto Heidegger, ovunque con qualche meraviglia, l’argomentazione di Faye è solo semplice, didascalica. È pure vero che il nazismo è stato sconfitto ma non è morto. L’eccesso polemico che a Faye si rimprovera è nel ridurre troppi al nazismo, Jünger per esempio, e Carl Schmitt, e Nolte. E il nazismo alla Soluzione Finale. L’antisemitismo così diffuso nella Germania postbellica, nella morsa tra la sconfitta (la Francia feroce) e il sovietismo, non arriva a tanto, solo alle proprietà e ai posti degli ebrei – Hitler lo direbbe vile. Il nazionalismo al contrario era diventato fortissimo, una “metafisica” in Heidegger, rafforzato dalla sconfitta.
Scadenti pure alcuni particolari, che nella notevole congerie che ammassa Faye evidentemente non rivede. Alla fine fa Heidegger in fuga da Messkirch, dove s’era rifugiato dai bombardamenti su Friburgo, in bicicletta verso Est, “temendo di essere arrestato dagli Alleati”. Verso i russi? In bicicletta? Per un’affrettata lettura di un aneddoto raccontato da Nolte a Antonio Gnoli su “Repubblica dell’11 settembre 1992: “Un giorno lo raggiunsi in bicicletta per portargli uno zaino pieno di biancheria e di generi alimentari che mi aveva dato la moglie”, da Friburgo. 
La trattazione dà fastidio perché monotematica: non è Heidegger ma, per cinquecento pagine, una parte di Heidegger, quella nazista. Faye dice nazista lo Heidegger di prima e quello di dopo, ma argomenta debolmente – o forse non bastano per questo le sue cinquecento pagine. È però vero che la tecnica (la modernità) non è buona prima in Heidegger, è buonissima con Hitler, e torna cattiva dopo. Uno dei punti centrali cioè del pensiero di Heidegger.
Ed è pure vero che Heidegger per l’essenziale è semplice. Negli “esistenziali” per esempio: l’essere-nel-mondo, l’essere-in-comune, l’essere-per-la-morte. Nei concetti chiave di comunità di destino e di popolo, Schicksalsgemenischaft e Volksgemeinschaft, anche di esistenziali o elementari. O sull’ebraismo. Con gli omaggi precoci a Yorck von Wartenberg e il concetto dirimente di stanzialità, radicamento, comunità di luogo. E quello che oggi si legge nei diari postbellici dei “Quaderni neri”, di un ebraismo costituivo, una questione ebraica. Questo ebraismo è “ciò che distrugge”. E ciò che distrugge naturalmente si autodistrugge – come oggi si legge: la Soluzione Finale è l’“autoannientamento degli ebrei”. Il nazismo però no: non distrugge, e non si è autodistrutto. Non se ne parla spesso in Heidegger, ma è presente, solo responsabile di qualche eccesso e alcuni errori, ed è anzi l’angelo vendicatore, di giustizia. L’ebraismo come la tecnica. Che vuol dire, in più punti chiaramente, l’America. Heidegger è un’altra civiltà. Ma non da ora e non isolatamente: tutto questo che Heidegger dice era – è – il nucleo della “rivoluzione conservatrice”, da Thomas Mann a Schmitt e Jünger.
Livia Profeti, la curatrice, ricorda che già nel 1980 Massimo Fagioli aveva individuato matrici naziste in Heidegger. La traduzione ha condotto sulla seconda edizione di Faye, 2007, con alcuni tagli e “fisiologici aggiustamenti” -  “concordati con l’Autore”. Il taglio riguarda i “seminari heideggeriani analizzati nell’opera quando erano inediti e che invece sono stati recentemente pubblicati”. E la figura di Erik Wolf, che si vuole un eroe della resistenza luterana (la “chiesa confessante”) invece che un nazista, malgrado la riconversione tardiva.  
Procedendo alla ritraduzione delle traduzioni di Faye da Heidegger, Profeti si è rifatta, dove possibile, a quelle già disponibili in edizione italiana. Salvo riscontrare discrepanze abnormi tra quelle di Franco Volpi e le altre, disinvolte e devianti. E anche questo è parte del problema – dopotutto il tedesco è una lingua viva, non intraducibile. 
Emmanuel Faye, L’introduzione del nazismo nella filosofia, L’Asino d’Oro, pp. 502 € 30

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