domenica 8 febbraio 2015

Letture - 203

letterautore

Barthes – Non se ne parla benché siano cent’anni della nascita. Era nato scrittore, con le “Mitologie” (1957), ha creato “il grado zero della scrittura”, scomponendo e disattivando i processi creativi,  finì scrittore, malgré lui, col diario-ricordo della madre a un anno della morte. Ottimo scrittore in effetti, anche attraverso la critica e la semiologia dei processi creativi, di cui non una pratica o legge resta applicabile.

Casanova – Fellini lo trovava illeggibile, e quando dovette farlo al cinema come “film «capofila, la carota per il somarello», produttore e pubblico, per poi poter fare il film che interessa, lo svuota. Non riuscendo altrimenti, aggiungeva, “mi sono messo in testa di raccontare la storia di un uomo che non è mai nato, le avventure di uno zombie, una funebre marionetta senza idee personali, sentimenti, punti di vista”. Male accolto, naufragando contro il Casanova personaggio, che si vuole brillante e disinvolto, avventuroso, un don Giovanni pieno di sé, padrone del mondo. Ma non veridico? Casanova era un vecchio italiano rintanato in una cupa regia sassone, che scriveva in francese. Malinconico in effetti più che divertito.

Confessione - Lo “Heautontimorùmenos” di Terenzio o Menandro, su cui si basa la letteratura della  confessione di se stesso senza riserve, alluvionale, quello del “sono un uomo e niente di ciò che è umano reputo estraneo”, significa “il boia di se stesso”. Troppa confessione annienta, non solo il lettore.

“I miei film della memoria raccontano ricordi completamente inventati”. E del resto che differenza fa?” (Fellini, “Fare un film”). I selfie si leggono e si vedono non perché dicono al verità, ma solo se la inventano bene, naturalmente, succulenta.

Dante – Walter Pater lo legge al confronto con Botticelli, nel “Saggio su Sandro Botticelli” (1870): “Proprio ciò che Dante disprezza come egualmente indegno del cielo e dell’inferno, Botticelli l’accetta, quel mondo sospeso in cui gli uomini non si schierano da nessuna parte nei grandi conflitti, non decidono alcuna grande causa, e fanno grandi rifiuti”.

Francia - Quella canonica è di un belga, Simenon. Che la Francia ha anche digerito male: lo voleva ebreo durante l’Occupazione, collaborazionista alla Liberazione, l’ha costretto a un lungo esilio negli Usa, e non gli ha mai riconosciuto status letterario. È una Francia vecchiotta, di provincia e di viali periferici, di passioni indelebili, delle nebbie, del fumo, della birra e dell’ombra. È anche la  Francia del Nord, tra Parigi e le Fiandre. La Francia ha dimenticato la Provenza, da Aix alla Costa Azzurra fino a Marsiglia, che era centrale fino mezzo secolo fa, e l’Aquitania dall’altro lato, compresa la Gironda e Bordeaux.

Il francese diventa lingua franca, veicolare, ben prima di essere adottato dalla nobiltà slava. E dall’illuminismo tedesco, da Federico il Grande in giù.  Con le imprese dei Franchi (ma Carlo Magno parlava tedesco) contro gli arabi, e poi dei Normanni, in Inghilterra, in Italia e nei Balcani.

Kerouac – Buon cattolico, è stato anche chierichetto? La scrittura fratta sembra presa di vangeli, comprese le parabole. Ha anche i miracoli, a suo modo.

Pasolini - Il suo sesso ripetitivo è compulsivo. Non è l’omosessualità proibita, segreta. È diverso in Forster, dove il godimento, muto, è pieno. O in Gide. In lui, dov’è esibito, è stanco. O l’impegno ne suo caso travolgeva il senno – succede quando è mostra d’obbedienza, come da soldato all’addestramento formale. Ci sono poeti che sanno, e i poeti della separatezza, i bozzettisti, talora confusi con i decadenti, cioè i disperati. Pasolini ama cascarci, che alle socie dell’Associazione culturale spiegava: “Ho vissuto tre anni in borgata, condividendo e cercando di capire”. Giacche Palànse per le marchette, ma questo non lo diceva.
Tra le borgate e Termini andavano autobus celeri, per sole cinquanta lire. In quale mondo vive chi cerca nelle borgate la realtà in scatola? Era avido in realtà di miseria, qualcosa da disprezzare per potersi disprezzare, e quindi stabilire un rapporto che chiama amore. La catena s’è rotta a monte. Non si sono fiutati con Ginsberg, miglior poeta, che lo ha cercato, come frocio deve averlo disgustato, fatto di acido, che non sta bene.

Paternità – Patrick Leigh Fermor dà nell’ultima raccolta di scritti – postuma, a titolo testamentario - un ritratto tutto negativo del padre, che fu un apprezzato scienziato. Mentre ne dà uno tutto positivo della madre, che si divertì a fare l’artista svagata, da inglese d’India sbarcata a Londra. Le figure genitoriali non sono utilitaristiche, ma voluttuarie, sentimentali, egoiste: ci sono doveri dei genitori verso i figli, legali e psicologici, non ce ne sono dei figli verso i padri.

Leopardi fu molto legato al padre, contrariamente alla vulgata politica, e ostile, alla sua maniera beneducata, alla madre, Adelaide Antici. La corrispondenza che ebbe da Roma, nel suo primo soggiorno fuori casa, coi familiari, ne dà evidenza macroscopica. Dei parenti che lo ospitano non fa che parlare male, lo zio, la zia, le cugine. e delle figlie. Che gli sono parenti per parte di madre. Carlo Antici è lo zio-padre, presuntuoso, uomo di supposta esperienza, che angaria e offende Giacomo con reprimende e esortazioni, prolisse. Col padre Monaldo, invece, Giacomo corrisponde di letteratura, nonché di filologia, e della biblioteca di casa, che entrambi accudiscono al dettaglio. Con lunghe, ripetute, perfino tenere espressioni di affetto, malgrado le “opinioni e inclinazioni molto diverse in politica”. Può farlo, si capiscono. Mentre a Roma non ci riesce, non in  famiglia – ma, poi, nella città del papa giusto con i letterati stranieri che trova dagli ambasciatori di Prussia, prima Niebuhr poi Bunsen, e dal Reinhold, ambasciatore d’Olanda, amico e estimatore del padre,  riesce a esprimersi.
Nella “leopardiana” Adelaide Antici Leopardi si vuole quella che “salva” la famiglia, a dispetto del bizzoso Monaldo.

Roma - “Se è vero che a Roma ci sono pochissimi nevrotici, è anche vero, come sostiene lo psicoanalista, che la nevrosi è provvidenziale” – allo psicanalista? “È una città di bambini svogliati, scettici e maleducati; anche un pò deformi psichicamente, giacché impedire la crescita è innaturale”. “Insultata come nessun’altra città, Roma non reagisce”. Questo è vero.  “Incarnando i vari ceti di Roma in una figura ectoplastica, mi sembra che ne esca un’immagine pesante: abbastanza tetra, spenta, che suggerisce una visione pessimistica, plumbea: lo sguardo basso, sonolento, rinunciatario, non approvante; non ha curiosità, oppure non crede che la curiosità serva”. “Ora mi domando spesso perché ho fatto un film su Roma”. Uno solo? Fellini ha sette pagine di contumelie su Roma, in testa alla sceneggiatura del film “Roma”. Da “vero” romano, archetipo. Ha fatto del resto una ventina di film, e tutti sono romani.

Scanabissi – Clotilde, in arte Nyta Jasmar, autrice un secolo fa delle “Memorie di una telegrafista”,. Romanzo d’amore passato ignoto, me capitato per caso trent’anni dopo su una bancarella nelle mani di Mario Praz, fu commentato punto per punto, derisoriamente, come se fosse un romanzo dannunziano – prima che Praz si convertisse a esegeta del vate. Anche l’autrice era passata ignota, avendo adottato questo strano nome – non più certo del cognome. Non fosse stato appunto per Praz, che stano nella congerie un accenno a Budrio. Come Nyta Jasmar si meritò nel 1975 un ripescaggio nella collana Centopagine di Italo Calvino, ma con una nota, seria, di Giulio Ungarelli.

Sogno - Scorre come un film muto. Con molti avanti e indietro, e già visto. E quando si sente il bisogno di parlare si soffoca.

Tedesco – Intimidisce. È l’unica lingua di cui si teme sempre di sbagliare la traduzione, e se ne mette tra parentesi a ogni riga la parola chiave originaria. Come se esprimesse un pensiero intraducibile. Incomprensibile.
Molti autori tedeschi, soprattutto filosofi, se ne giovano. Se ne vantano anche, di essere intraducibili.  Mentre il tedesco si esprime diretto, e quasi infantile, nella conversazione, rispetto alla sottigliezza che l’inglese coltiva, e alle formule assertive complesse che impinguano e connotano il francese. Ma è vero che si vuole preciso, e quindi incomprensibile (intraducibile) nella versione scientifica, cioè filosofica.

letterautore@antiit.eu

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