Un’apologia della grazia a Sofri – il
sottotitolo è “Dalla condanna alla «tregua civile»” - che involontariamente,
dopo la presidenza Napolitano, riporta al cuore della questione. A dieci anni
dall’uscita, la perorazione di Cazzullo è per questo forse più interessante.
Ai fini della grazia, Cazzullo
esclude alcune cose. Di Lotta continua, che era violenta. Sofri no, Lc sì. Nel
mito gappista, dei “Senza tregua”, anche in occasione dell’assassinio di
Calabresi – i Gap sono la parte meno efficace della Resistenza, ma sono il terrorismo
urbano, che tornerà negli anni 1970 coi Tupamaros e altre bande sudamericane, e
“Senza tregua” è il suo manuale italiano. Cazzullo lo ricorda, di “Lotta
continua”, il giornale, che scrive: “La violenza gappista è giusta e rivoluzionaria”.
E cita gli inni alla violenza, sempre del giornale: all’assassinio di Calabresi
nel 1972, e ancora nel 1973 di Carrero Blanco e dei fratelli Mattei - uno dei
quali aveva otto anni. Ma sottovoce. E ne esclude il contesto, culturale e
storico: la Rivoluzione Culturale cinese, le Guardie Rose, Il libretto di Mao,
i colonnelli in Grecia e la semimilitarizzazione del Mediterraneo, i
Tupamaros col terrorismo urbano. Esclude anche la “scena del delitto”:
Milano, con piazza Fontana e il linciaggio di Calabresi. Manca “l’Espresso”,
sul quale Scalfari raccolse nel giugno 1971 ottocento firme contro Calabresi,
manca Feltrinelli, manca Camilla Cederna, “Pinelli, una finestra sulla strage”,
pubblicato da Feltrinelli a metà 1971. Mancano le colpe dello stesso Calabresi.
E mancano le diffidenze dell’apparato repressivo, magistrati e polizie, nei
confronti di Calabresi.
Questo ancora può essere giusto. Ma,
forse per facilitare la pratica, Cazzullo fa di Lotta continua una costola del
Pci. No. Questo è importante per capire il prosieguo della vicenda, con la carcerazione e le assurde condane. Sofri sì, in parte, all’origine, Lotta continua no. Anzi, è nata e si
è sviluppata in opposizione al Pci. Sofri stesso non ha più avuto tessere dopo
quella giovanile del Pci, eccetto quelle radicali. E si era avvicinato
politicamente al Psi, dal rapimento e l’assassinio di Moro in poi, a una parte
del Psi, quella più in sintonia con le lotte di libertà, che Claudio Martelli
negli anni 1980 impersonava. Ed è qui che s’innesta il caso Sofri.
Sofri è la pietra d’inciampo e la prima
vittima della reazione. Che sarà cieca e assoluta. Contro ogni evidenza
dibattimentale e anzi contro le procedure, con la distruzione in massa di tutte
le prove del (non) reato - tutte tutte no, la maggior parte.
Come
nasce Sofri
Il cuore della questione è: come è nata
la questione Sofri? Dalla testimonianza
di Marino. E com’è nato Marino? Dalla frequentazione del Pci. E dalla reazione
giudiziaria al rovinoso referendum sulla responsabilità civile dei giudici
promosso dai radicali e dai socialisti per i Morti del 1987, con l’80 per cento
di voti in appoggio, e un 65 per cento di votanti, due record. A poco più di un
anno, il tempo di preparare la trappola, dal referendum stesso. A opera di inquirenti di destra, missini. In contemporanea con la parallela offensiva che, sempre sul lato missino, lanciava
in Calabria contro i socialisti il giudice Cordova.
Il fasciocomunismo, come all’epoca si sarebbe detto, non è inventato - né è invenzione posteriore di Pennacchi romanziere. Né sono eccezioni Marco Travaglio firma dell’“Unità” e D’Avanzo di “Repubblica”, altri Cazzullo può trovare agevolmente al suo giornale. Col Pci che sostiene Cordova, che pure professava le sue idee - isolando e mettendo nel mirino Falcone - etc.. Sofri è il primo anello di un aggiramento del Psi che si concluderà nel 1992, sul terreno più fertile del finanziamento illecito. Il cuore della questione sono le condanne preconcette, in tribunale e fuori. Dei giudici, del Msi e del Pci.
Il fasciocomunismo, come all’epoca si sarebbe detto, non è inventato - né è invenzione posteriore di Pennacchi romanziere. Né sono eccezioni Marco Travaglio firma dell’“Unità” e D’Avanzo di “Repubblica”, altri Cazzullo può trovare agevolmente al suo giornale. Col Pci che sostiene Cordova, che pure professava le sue idee - isolando e mettendo nel mirino Falcone - etc.. Sofri è il primo anello di un aggiramento del Psi che si concluderà nel 1992, sul terreno più fertile del finanziamento illecito. Il cuore della questione sono le condanne preconcette, in tribunale e fuori. Dei giudici, del Msi e del Pci.
L’opinione si può aggiungere dei
compagni di strada di Sofri, scrittori, critici, giornalisti, sociologi,
psicologi, ambientalisti, che videro in Marino Gasparazzzo e in Sofri il
cattivo maestro, il vile presuntuoso. Mosca cocchiera di questa opinione si può
prendere l’ubiquo Franco Fortini, l’intellettuale onesto per definizione,
moralista incontenibile e stolido, che se ne fece sostenitore sul “Manifesto”, denunciando
“l’ipocrisia generale” e anzi la “congiura”, dell’“arrogante pregiudizio
d’innocenza assoluta e metafisica”. Subito a caldo, subito dopo l’incriminazione
di Sofri. Pomarici e Bonaventura non avrebbero mai osato aspettarsi tanto.
Senza pregiudizio per Sofri, per carità, ma per il bisogno di denunciare il
conformismo degli intellettuali di sinistra, etc. E senza prove, certo, il
critico non deve cercarle, il critico risponde alla sua coscienza - il
sovietismo è un fatto di “buona” coscienza. Ma questa opinione si può
compensare col pregiudizio favorevole. Giudici e Pci invece agivano, il loro pregiudizio
fu solido.
Il vero processo
“Per il
sostituto procuratore Ferdinando Pomarici non ci sono dubbi: Leonardo Marino
dice il vero quando confessa d’aver guidato l’auto, quando accusa Ovidio
Bompressi d’aver sparato, quando dice che i mandanti furono Adriano Sofri e
Giorgio Pietrostefani. Undici mesi esatti dopo i mandati di cattura,
diciassette anni dopo l’omicidio, l’inchiesta sulla morte del commissario Luigi
Calabresi è chiusa” – “la Repubblica”, 29 giugno 1989. Ma il vero processo è
ancora da fare.
Sofri è stato accusato, processato e
condannato sulla stampa, prima che nei tribunali, senza mai essere sentito. Sofri
non ha mai avuto udienza, nemmeno come parte lesa, benché accusato di un
assassinio, alla Procura di Milano. Solo un colloquio derisorio col giudice
Pomarici, di cui non resta nemmeno traccia agli atti: il giudice fu elusivo e
non gli disse niente: “Se la caverà con niente”, una cosa del genere. Un’indagine
e un’incolpazione dunque singolari.
Subito le
indiscrezioni passate all’“Unità” e a “Panorama”. Ogni pochi giorni una notizia
scaccia notizia, tutte infondate, tutte gravi: covi di armi, cascine nascoste,
l’arma del delitto, testimonianze anonime sicure, partigiani sbandati, arresti
e controarresti. Infine, dopo un anno, l’accusa formale. La fantasia malvagia
non difetta, o l’arsenale della disinformazione: “Panorama”, diretto da Claudio Rinaldi, ex di Lotta continua, era allora di sinistra, la scelta dei cronisti giudiziari
mostra in radice la “costruzione” del caso. Con “l’Espresso”, che come “Panorama” era pieno di dossier
riservati, che si sbracciava per tenere il passo del concorrente nelle
grazie della Procura di Milano – pubblicò perfino una serie di intercettazioni
di telefonate di amici e conoscenti a casa Sofri, additandoli in neretto. Era
tutta qui l’“inchiesta” di Pomarici. Col patrocinio di Borrelli, il futuro
Grande Inquisitore, inaugurando la serie di processi, di fonte quasi sempre
oscura, che s’imporrà come Mani Pulite. Col sistema dell’indiscrezione
pilotata, prima che la vittima possa difendersi. I metodi cioè della
disinformazione, la specialità dei servizi segreti.
Nella
fattispecie, il rinvio a giudizio inaugurava una serie di dibattimenti che
resteranno una vergogna del sistema giudiziario, con giudici violenti in aula,
irridenti nelle sentenze, o apertamente truffaldini. Una sentenza d’assoluzione
fu scritta in modo che venisse cassata. Fu scritta dai due giudici togati, Lucilio
Gnocchi e Ferdinando Pincione, contro i sei della giuria popolare che avevano
imposto l’assoluzione: per 382 pagine Gnocchi e Pincione elogiano Mario (“è
stato per anni interno in un Istituto di Salesiani a Torino e ciò non può che
avere lasciato tracce indelebili nella sua personalità morale”), e mettono in
dubbio le testimonianze a discarico, nelle residue quattro dispongono
l’assoluzione. Senza nessun riscontro: lo storico Ginzburg ha analizzato riga
per riga le prime due - e poi definitive
– sentenze di condanna, quelle di Minale e di Bertolé Viale, e ci ha scritto
sopra un libro, “Il giudice e lo storico”, con coda di lettera aperta al ministro della Giustizia
Flick, avendo scoperto che “i riscontri alle accuse di marino non esistono”.
Mentre gli oggetti del reato sparivano, erano distretti, o non erano cercati: l’arma,
le automobili, i vestiti, le pallottole. E i testimoni oculari derisi - Dario
Fo ci poté fare una “commedia” piena di mancanze, col tempo e le distanze
variabili. Sull’unica prova dell’accusa di Marino, livorosa ma incerta.
Si doveva
colpire Sofri, e fu fatto. La controprova è che i suoi correi, Bompressi e
Pietrostefani, vennero trattati l’uno con clemenza, dopotutto era per l’accusa
l’assassino, l’altro nemmeno cercato, al suo lavoro in Francia. A Bompressi la
grazia è stata concessa da Napolitano subito, subito dopo il suo insediamento
al Quirinale – tanto in fretta che si dimenticarono di preavvisare il familiari
di Calabresi. Anche Marco Boato e Paolo Liguori furono inclusi
nell’eliminatoria, ma in qualche modo la scapolarono – Marino, per loro come
per gli altri, a giorni ricordava a giorni no, ma per loro alla fine fu deciso
per il no.
Lavorare coi servizi
Il
giudice Pomarici lavorava con i servizi segreti. Il colonnello Umberto Bonaventura,
carabiniere, veniva dalla famigerata divisione “Pastrengo”, non una buona
scuola (c’era stato Dalla Chiesa ma anche Palumbo, e lo stupro di Franca Rame),
ed era dei servizi segreti, specialista della controinformazione. Tratterà lui
il “Dossier Mitrokhin”, che infamerà non pochi giornalisti onesti. Il generale dei
carabinieri Bozzo, che lo ebbe ai suoi comandi, ne conserva una buona opinione,
ma ha voluto dire che non ha apprezzato il modo come l’allora maggiore
Bonaventura raccolse la testimonianza di Marino contro Sofri, soprattutto non
la decisione di remunerarlo.
Collaborano
(collaboravano) con i servizi molti dei sodali di Sofri. Forse non molti, ma
alcuni sì. Nacque con questo caso la commistione letale media-giudici. Letale
per la democrazia, i condannati in genere poi vengono recuperati - quelli
disponibili, non Moro per esempio.
Pomarici
e Bonaventaura erano incaricati delle indagini sull’assassinio di Calabresi da
subito, nel 1972. E si erano perduti in ipotesi fantasiose. Dovevano non fare
la vera indagine? A che cosa lavorava Calabresi quando fu assassinato?
Calabresi era vice-capo dell’Ufficio politico della Questura quando fu
assassinato. In servizio attivo. Non passava le giornate nelle polemiche la
causa con Lotta continua, come narravano i giornali.
Vittima,
ma colpevole
Sofri ha voluto stare “dentro il
processo”, prendendolo per buono. Si è anzi messo poi con i suoi
carnefici, al gruppo L’Espresso-la
Repubblica, e ai festival dell’“Unità”, o con l’intrattabile Tabucchi, altro
grande egotista, bolscevico postsovietico, e quindi è come se si considerasse
sì vittima, ma colpevole. Non facendo forse torto a sé, ognuno vive la sua
vita, ma sì al lavoro di se stesso e dei suoi compagni, e alla verità storica.
Che ci dev’essere, perché no – troppo riflusso finisce in gastrite, non
platonica.
Vittima colpevole con più ragione si
direbbe Calabresi. Il commissario è però uno dei pilastri della Seconda
Repubblica, e quindi non lo diremo. La Seconda Repubblica ha alcuni santuari
che non è opportuno penetrare. Un altro è la pronta liberazione degli assassini
dichiarati e irredenti di via Fani e di Moro prigioniero inerme – un piccolo
Isis – a opera degli stessi che vollero Moro morto.
Ma è al Pci, per restare al caso Sofri, che il pregiudizio porta
direttamente – Sherlock Holmes non avrebbe avuto dubbi. Non quello dei moralisti
e gli opportunisti, compresi giornalisti celebrati, ma quello solido dei politici,
dei loro referenti nell’amministrazione e le polizie, e dei giudici di partito.
Che la condanna precorsero in pareri e considerazioni, e anche in dibattimento.
A partire da Manlio Minale, il giudice del primo processo, che contro ogni
evidenza da lui stesso improvvidamente sollevata in dibattimento, lo chiuse
bruscamente e decise la condanna poi definitiva – poi il giudice diventerà
Procuratore Capo. Con Laura Bertolé Viale e Gerardo D’Ambrosio. Coperti dall’andreottiano
Borrelli, il Procuratore Capo. E il duo Lucilio Gnocchi e Ferdinando Pincione
della sentenza suicida.
Del
Pci
Del Pci sono i primi confidenti di
Marino. Del Pci il primo collegamento tra Marino e Bonaventura. Del Pci – del
pool giudiziario “l’Unità”-“Panorama”-Procura di Milano-servizi – la campagna
di stampa che accompagnò l’incriminazione e forzò la condanna. Cazzullo ricorda
il senatore Bertone, come tramite coi servizi. Ma si schierarono molto politici
subito, i giornali di partito, e anche l’Anpi, l’associazione dei partigiani. Ancora
nel Duemila Piero Fassino, ministro ex Pci della Giustizia, non solo si rifiutò
di proporre la grazia per Sofri, come avrebbe dovuto nella vecchia procedura,
ma per non scarcerare Sofri non propose nemmeno l’indulto, benché lo chiedesse
il papa, per il giubileo del millennio.
Con Napolitano la grazia non sarà nemmeno
discussa, e Sofri si farà tutto il carcere, fino alla scadenza della pena nel
2012. Caso raro, anzi unico, nella giustizia italiana. È l’unica delle tre presidenze
della detenzione che non hanno discusso la grazia. Lo fece perfino Scalfaro, in
medias res. Mentre Ciampi arrivò a
promuovere una decisione della Corte Costituzionale che gliene attribuisce la
facoltà anche col parere contrario del governo. La pronuncia della Corte, a prevalenza
ex Pci, arrivò tre giorni dopo la scadenza del mandato di Ciampi. In occasione
della grazia per direttissima a Bompressi, il proponente Mastella, ministro di Giustizia,
annunciò che la proposta era in arrivo anche per Sofri, solo un po’ più
complicata. Ma non è stata mai proposta, né da Mstella né da Napolitano, che dopo
la sentenza della Corte Costituzionale poteva agire di sua iniziativa.
Ma non c’è scandalo, non più. Sofri, che
avrebbe potuto essere Sofri dopo la caduta del Muro, si è invece appiattito sul
sovietismo di riporto, che tanto ancora governa l’Italia – pensa di governarla,
attraverso un giornalismo in ritirata (o non sarà disfattista?).
Aldo Cazzullo, Il caso Sofri, Mondadori remainders, pp. 165 € 4,20
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