Agonismo - È un
fatto di misticismo, di ascesi mistica. Che è sempre voluta, forzata. Ed è essa
pure un fatto fisico, di postura, respirazione, ritmi psicofisici. Molto vi
concorre: il protagonismo, anche nello sport di squadra: la concentrazione,
l’eccitazione convergente (indirizzata, regolata), la preparazione mirata
(procedure, modalità).
Amico\Nemico – Non è
concetto politico o sociale anodino, neutro. Si connota quasi sempre in Carl.
Schmitt e poi in Heidegger, così come all’origine in Jünger, per l’aggressività,
come scontro. Che viene sempre portato all’estremo, all’annientamento. È uno
schema relazionale aggressivo, distruttivo. Anche perché non c’è compromesso
possibile, traslazione da uno stato all’altro, la delimitazione è tribale e
razziale, del “sangue e suolo”. Di un radicamento esclusivo e escludente.
Complotto - È della
politica anzitutto. Che crede a se stessa, alle bugie – la propaganda.
Ineguaglianza – È come
la libertà: è uno spreco, ma non si può eliminare. Sfugge pure ai liberali, che
per essere utilitaristi erano già comunisti - e al movimento, che si voleva
anarchico. Che l’utilitarismo liberale sia una finzione comunista sull’unità
della società è scoperta di Myrdal: tutti finalizzati a uno scopo, quindi
tenuti assieme dalla solita Mano Invisibile.
Memoria – È dei
luoghi più che del tempo, della storia. Parigi si continua a descrivere e immaginare
città frizzante, di piume e cancan, mentre è la capitale-paese, la capitale di
un paese che non c’è, molto grande e anche triste - non pensosa: distratta. O Praga che per un paio di generazioni è
sinonimo di libertà, mentre è una modesta città, dove si fa commercio di tutto.
Mosca viene sempre descritta, dopo un quarto di secolo di arricchimenti, mafie
e spregiudicatezza, come un ammasso stalinista, un cupo parallelepipedo chiuso.
Mosca o la pésanteur. Una città insonora, di fascino
fosco, per l’attrazione persistente del non essere, o essere in negativo. Dei
compagni che sparivano di notte, a opera di compagni. Dei condannati in attesa,
al manicomio o in Siberia. Di uomini che hanno tentato di volare, eliminando la
fisica e la fatica. Ma erano uomini forse sbagliati, pingui, finti. Con un’eco
persistente di propaganda, che, non creduta e anzi rifiutata, pure si ripete. Non
per abiezione, per la rivoluzione. Ma “faro spento” diceva Mosca già all’epoca Mario
Tronti.
Rimuove. Si costituisce, si ricostituisce,
navigando tra le rimozioni. Più spesso di eventi e emozioni recenti – la memoria
gradisce il passato. Ed è
avvilente scoprirsi rimossi, in una memoria recente e già antica. Ma è il
“vuoto del cuore” di Wilhelm von Humboldt. Che pure lo portò alla felicità. Con
una che anch’essa coltivava il “vuoto del cuore”, Caroline von Daschröden, la
vita come prova, l’attesa. La memoria è una zavorra?
La sensualità non coltiva la
memoria, e anzi la rifiuta. Un’infatuazione ogni giorno varia e senza residui è
l’essenza dell’eccitabilità. Della disponibilità. Dell’innamoramento. Poi
svanisce. Perché l’amore non si costruisce sulla memoria? Perché i sensi sono
curiosi e quindi incostanti.
Papa – Paolo VI abolì il latino per
rendere la religione ordinaria, come bere, e poi fare pipì. Papa Francesco il pisciatoio l’ha
messo nella basilica. Ma
il cristianesimo non è un’etica: questa c’era, e c’è, anche altrove,
altrettanto raffinata e mite, amore del prossimo compreso. Mentre una sola bella
donna mette in imbarazzo i preti. Il Deuteronomio e i Vangeli dicono di
scegliere il bene e la vita invece del male e la morte, ma sembra solo ovvio.
Non c’è ancora un’etica senza religione, per la nota ragione che non c’è stato
ancora un popolo ateo per tre o più generazioni, il tempo di cancellare la
memoria del divino, ma questo è un altro discorso: di valori è pieno il mondo, ma senza
costrutto.
Il
cristianesimo non è escatologico, una promessa di salvezza in altri mondi. E
non è conquistatore: Cristo, che lo fonda, è finito male, tra i ladroni,
giustiziato da povera gente, povera di spirito. Il cristianesimo è un’istituzione,
la sola durata millenni, e in
quanto tale può attrarre o respingere. Ma soprattutto è Cristo, questa figura
unica di Dio con noi. Che molte cose ha detto giuste, come tanti le dicevano
all’epoca, e talvolta si è stizzito, non sempre amorevole se non a sorpresa –
ridurre Cristo a un uomo buono è un’assurdità.
Possesso – Sarà
innato, come il linguaggio,
impresso nel dna. Uno, se lo volesse, non potrebbe grugnire come il porco. Lo
stesso per il possesso. Come fanno i cinesi allo stadio, come facevano, quando
vestivano lo stesso camiciotto nero, e avevano un solo tipo di bicicletta, nera?
Come facevano, uscendo dallo stadio, a trovare ognuno la sua bicicletta.
L’identità è
definita più spesso dal possesso: ci identificano le cose – che del resto sono
nostra espressione. Anche quelle di possesso recente o valore infimo. La camicia
dimenticata e la macchina rubata sono una mancanza ugualmente onerosa, una
sottrazione alla persona e una violenza. Con l’aggravante, rispetto alla
violenza fisica, che è impossibile il gesto di difesa con cui d’istinto si
reagisce all’aggressione, con effetto comunque risarcitivo.
Potere – Fa a meno della proprietà,
e anche del possesso. E pure delle bombe e i cannoni. La controinformazione, ormai
ipercollaudata, meglio di tutti lo sa, che è divenuta un potere incontrollato: esso
fa a meno della proprietà, e pure del possesso, e si esprime con rebus e tagliole,
anche solo verbali, non avendo in realtà bisogno di bombe e cannoni. O meglio,
volendo accedere alla fonte della proprietà, dire che essa non è possesso, non
c’è bisogno del Devoto per spiegarselo: la proprietà di linguaggio, per
esempio, la proprietà di pensiero – lo sanno da sempre i parroci, che diffidano
delle beghine – e il pensiero stesso.
La democrazia si praticava in Atene fra chi
possedeva la parola, il censo è rilevante se facilita la
conoscenza - chi ha il
denaro ha i libri, argomenterà il prete Cosma alla vigilia dell’anno Mille nel
trattato contro i Bogomili, ha il sapere e i vantaggi che ne derivano. Il
vantaggio della ricchezza, si sa, è che si può permettere il vino buono. Mentre
la controinformazione è dai tempi di Tacito
l’arma dei servizi segreti, che sono il cuore del potere.
Roma – Heidegger
si faceva un dovere di evitare quelle che chiamava römische Worte, la terminologia latina. E
quando le usa, lo fa a casaccio – numerose attribuzioni ha trovato Emmanuel
Faye di Heidegger a Descartes, nel corso su Nietzsche del 1940, anno ferale, in
cui Heidegger era signore della Francia, che non sono roba di Descartes e sono
anzi anticartesiane: “cogito me cogitare”, l’ “ego cogito” come “subjectum”, e anche
come “fundamentum absolutum inconcussum veritatis”. Per questo non parla di Rasse, non per altro, ma usa Geschlecht, Stamm, Sippe, genere, stirpe,
schiatta. In abbondanza. Roma non ne ha colpa.
La latinità
era evitata in Germania non da tutti, nel decennio di fuoco, gli anni 1930.
Carl Schmitt, per molti aspetti di Heidegger maestro, ne era a sua volta
maestro, e non si svitava una citazione latina – le maneggia come una clava. La
latinità rifiutata di Heidegger è quella cristiana, dell’irenismo: la realtà (la
Germania) voleva combattiva (agonale), e non aperta, inclusiva, ma chiusa.
zeulig@antiit.eu
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