“I grandi scrittori del Sud tornano nelle
antologie scolastiche. È l’effetto di una risoluzione presentata dagli
esponenti del M5S e approvata dalla commissione Cultura di Montecitorio. Alcuni
autori meridionali del Novecento – tra cui Salvatore Quasimodo, Leonardo
Sciascia e Matilde Serao – erano stati cancellati dalle indicazioni nazionali
della commissione di esperti nominata nel 2010 dall’allora ministro
dell’Istruzione, Mariastella Gelmini” (l’Espresso”, 12 marzo)
Mafiosi
ancora uno sforzo
Nella Piana di Gioia Tauro, un bacino di utenza
di 200-250 mila persone, facciamo la spesa in due centri commerciali, Il Porto
degli Ulivi e Annuziata, in odore di mafia. Adiacenti, ma in ambiti comunali
diversi. Entrambi ben gestiti, con le migliori firma nazionali e europee, con
parcheggi e ogni altro servizio, puliti, ordinati, ma entrambi sequestrati con
l’accusa di associazione mafiosa: l’uno ai Crea di Rizziconi, il secondo ai
Piromalli di Gioia Tauro.
Sequestrate anche, nell’un caso e nell’altro,
appendici romane, in tavole calde, ristoranti, caffè, esercizi dove il denaro
gira. Quasi tutti a indirizzo prestigioso, via Veneto, via Bissolati, Pantheon,
cioè con larga clientela di passaggio.
Se l’accusa è vera, un’ipotesi è da formulare:
la mafia è solo a un passo dalla rispettabilità. Sarebbe un fatto storico,
essendosi prodotto in due-tre generazioni, l’esperienza personale: una mafia è
nata nella Piana nei tardi anni Cinquanta, primi Sessanta, si è imposta in un quindicennio,
ha diversificato successivamente, quasi ovunque impunita, e ora, all’ora del giudizio,
potrebbe trovarsi ripulita e in ordine, perché no. Le basterebbe cessare la
minaccia costante, grazie anche all’impunità goduta finora, poiché questa
impunità sembra non esserci più.
La mafia di Gioia Tauro ha saputo diversificare
e sa, evidentemente, gestire. Deve ora rinunciare al monopolismo: smettere i metodi della dissuasione, pizzo e bombe, e
accontentarsi di quanto ha accumulato, proponendosi come soggetto economico
alla luce del sole. Già paga le tasse, le basterebbe rinunciare al controllo. Successe
così nel grande capitale americano un secolo e mezzo fa: assassini e bastonatori
senza volto si trasformarono in imprenditori acclamati. Colmati dalla fortuna,
furono benefattori munifici – le due cose col maltolto sono facili.
Forse, nel balzo alla rispettabilità, un mezzo
passo è stato fatto. Dei due centri commerciali, quello più recente, gli Ulivi,
aperto nel 2008, è stato sequestrato quasi subito - mentre si dava la caccia al
capocosca Crea, gli inquirenti essendo stati bene indirizzati dalla mafia di
Gioia Tauro. Il centro Annunziata, invece, è attivo in agro di Gioia Tauro da
una trentina d’anni. Aperto da una famiglia di amalfitani, come se ne trovano
molti a Gioia, commercianti, era stato bruciato subito dopo l’apertura. Poi ha
riaperto e prosperato, ingrandendosi.
La mafia
siamo noi
Non ci sono probabilmente più attentati e
assassinii in Calabria ogni giorno di quanti ve ne sono in una città con
popolazione analoga, Roma. Peggio nella provincia d Roma, a cominciare da
Ostia: bombe ai portoni e alla saracinesche, pistolettate, macchine e furgoni
incendiati, e ogni settimana un morto di media. Ma non c’è mafia a Roma – ora
c’è questa Mafia Capitale, ma è invenzione di Pignatone e Prestipino, siciliani
del tutto mafia in trasferta, non una cosa seria.
Cosa fa la differenza è il tessuto sociale. Nel
corpaccione di Roma, per molle che sia, le bombe sono punture di spillo, e i
mafiosi delinquenti sparsi o ladri con scasso. Non terrorizzano. Inquinano
anche poco, qualche dipendente comunale, qualche dipendente di banca, qualche
finanziere, più complici che vittime. A fronte di una solida autorefenzialità, basata
sul fatto che i delitti si puniscono quasi sempre, e comunque si perseguono.
In Calabria ogni evento criminoso è un disastro.
Perché si cumula con una miriade di altri eventi, poco puniti e quasi mai
perseguiti. E a un’insicurezza indotta dal disprezzo, dei Carabinieri e
dell’opinione – le antimafie fanno parte del problema, così violentemente
antagoniste dei perseguitati (commercianti, piccoli proprietari, sindaci e
assessori) più che dei persecutori. Dal cliché,
dallo stereotipo, dal”discorso su”. Per cui dalla violenza non ci si salva. Non
c’è modo di combatterla, e in qualche modo bisogna cedere, venire a patti.
Questa traccia sembra rivoltante, e in certo senso
disfattista. Ma è il punto da cui una vera antimafia dovrebbe ripartire: riconnettere
il tessuto sociale Depurato se possibile dalle sue piccole reti, confessionali,
parentali, di ceto, di classe se vogliamo, anche occulte. In Calabria questa è
una mancanza evidente, testimoniata dalla diffusione delle reti occulte. Che
sono più massoniche – più numerose e ampie – e confessionali che mafiose.
Calabria
Parla una lingua che non ha futuro.
“Sono un meridionale dispersivo”, ha lasciato
scritto di sé Domenico Marafioti, di San Procopio, “un paesino del circondario
di Palmi”, morto di recente a poco meno di novant’anni. Laureato a vent’anni in
Filosofia del diritto, brillante avvocato a Roma, con attico sul Monte Mario,
dove invitava spesso, autore di un profetico “La Repubblica dei Procuratori”
trent’anni fa, collaboratore del “Mondo” di Pannunzio, del “Ponte” e del “Giorno”,
e tuttavia conscio di essere “uno che non fa storia”.
Si chiamava Saraceno il vescovo che decretò la
fine del rito greco a Reggio e a Rossano. Un francescano, più volte inquisitore
nel Regno di Napoli, e organizzatore di crociate per la liberazione di
Costantinopoli dai turchi che non ebbero mai luogo.
Candidato vescovo con tre papi, Eugenio IV,
Niccolò V e Pio II, da questi infine nominato, Matteo Saraceno si segnalò per l’abolizione
totale del rito greco, che ancora accompagnava in molte diocesi il rito latino,
malgrado la radicale latinizzazione della Calabria imposta dai Normanni tre secoli
prima Più attivo il Saraceno fu nella crociata per la liberazione di Otranto
dai turchi, che l’avevano occupata nel 1480, ma morì prima.
“Credesi
che la marina da Reggio a Gaeta sia quasi la più dilettevole parte d’Italia”, scriveva
Boccaccio nel “Decameron”, iniziando l’avventura di Landolfo Rufolo, il ricco
commerciante di Ravello che desidera arricchirsi ancora di più. Converrebbe
oggi invitare Boccaccio come testimonial d’eccezione, oppure lasciarlo nella
illusione?
Il suo nome ricorre per molti alberghi e
ristoranti in Calabria, ma è dubbio che non si tratti del vaso di vetro per le
conserve, detto “boccaccio”.
Due sole cantine calabresi fra le 103 italiane
censite da “Wine Spectator”, bibbia del settore. Una volta la Calabria era
specializzata nel vino: nella costa sopra Locri-Gerace sono stati localizzati palmenti del vino a centinaia. Con molti vitigni
autoctoni, di ottima consistenza e sapore. Ma ora che il vitigno “diverso” va a
premio sul gusto “internazionale”, la Calabria il vino lo trascura – renderà bene, ma è faticoso. Ne produce ogni
anno meno, ora è quasi al livello della
Valle d’Aosta. Spariti gli ottimi bianchi della costa tra Scilla
e Palmo, non un tralcio sopravvive. Per
l’eccezionale zibibbo Bagnara festeggiava con famose Sagre dell’Uva negli anni
1950.
La Puglia e la Sicilia si sono invece portate
negli ultimi anni al vertice, scavalcando in quantità, e anche qualità, il
Veneto. A opera, in molti casi, di operatori veneti, è vero.
Tre sole etichette della Calabria – di cui due giusto
perché bio – tra le centinaia catalogate nell’ “Atlante degli olii italiani”. Della
regione che più produce olio d’oliva in Italia, e in Europa. Diecine invece le
etichette del Garda o del Piemonte, anche dell’Abruzzo, perfino dell’Emilia,
dove gli olivi li contano.
Ma non per cattiveria dell’autore, Luigi
Caricato. È che altrove sanno vendere.
Marina Terragni segnala su “Io Donna" la rete
“Cangiari”, cambiamento, in una delle sue attività più caratterizzanti: “Telai
antichi per cambiare la Calabria. È la scommessa di Cangiari: un brand che «armato» di filati bio e
artigiane entusiaste si è affermato nel mondo della moda”. Con un fatturato di
4-5 milioni, dà lavoro a 100 persone. Ma lo segnala come di un’eccezione, mentre
è una delle tante invenzioni per sopravvivere. Speciali perché non si può
essere normali. A causa della Calabria, ma anche della sua mostrificazione –“fare
rete” è quasi impossibile. E della mostrificazione delle sue donne, la metà più
qualcosa della popolazione – la famosa “donna del sud”.
Marina segnala che la rete è nata vent’anni fa,
come consorzio sociale, da un’idea dell’allora vescovo di Locri, Giancarlo
Bregantini. Ma non dice che per questo, per gli “affari economici”, il vescovo
fu presto “promosso”, a Benevento. “Il vero pericolo”, le dice Linarello, che
presiede il consorzio sociale, “è il discredito”.
leuzzi@antiit.eu
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