Althusser legge Machiavelli come già Rousseau:
legge“Il principe” alla luce dei “Discorsi”, repubblicani. Il “radicamento del
principe nel popolo per il gioco delle leggi è la condizione assoluta della durata dello Stato e della sua potenza, cioè della sua capacità d’ ingrandirsi”. E ci trova “la politica” - se non
proprio “le leggi e le regole oggettive della politica” che diceva Croce – che invece
non trovava in Marx. Ha scoperto Machiavelli reduce dalla critica alla “tesi
aberrante” della “autonomia del politico”, e nel mentre che trovava in Marx e
Engels un altro “limite assoluto”, la loro “incapacità a pensare «la politica»”.
Rousseau, lamentando anche
lui di Machiavelli che “questo politico profondo non ha avuto fin qui che lettori superficiali o corrotti”,
stabiliva: “Fingendo di dare lezioni ai Re, ne ha date di grandi al popolo. Il «Principe»
di Machiavelli è il libro dei Repubblicani”. Con l’esempio di Roma, aggiunge
Althusser, “la repubblica fondata dai re” – “è qui ciò che ha fatto credere agli
Enciclopedisti, a Rousseau, a Foscolo e agli altri ideologi del Risorgimento
che Machiavelli era repubblicano”: il che è vero, ma di una repubblica diversa,
che è Roma. E d’altra parte “i «Discorsi» non parlano di altro rispetto al «Principe»:
parlano della stessa cosa”». Di come
può nascere e prosperare l’Italia. Con l’esempio della Francia, riferimento
costante del “Principe”, e della Spagna.
Un Machiavelli insomma rivoluzionario, seppure mascherato. Lettura non nuova – Chabod fra i tanti l’aveva appena detto, “un’esplosione rivoluzionaria”, o un secolo prima Quinet, che l’ultimo capitolo del “Principe”, della serva Italia, eleggeva a “Marsigliese del sedicesimo secolo”. Ma con novità di sostanza. Il “principe nuovo” non è Cesare Borgia. “Quando Machiavelli scrisse «Il principe», nel 1513, Cesare è sparito dalla scena italiana da sette anni, e alla lettera non resta niente della sua opera. Niente altro che il suo esempio”. Machiavelli ne fa un identikit, che Althusser traccia punto per punto. E questi punti, si può aggiungere, corrispondono a un’identità precisa: il principe nuovo di Machiavelli sarà Cavour. Ma con mezzi non molto diversi. Solo in linea, tre secoli e mezzo dopo, con gli Stati costituzionali.
Un Machiavelli insomma rivoluzionario, seppure mascherato. Lettura non nuova – Chabod fra i tanti l’aveva appena detto, “un’esplosione rivoluzionaria”, o un secolo prima Quinet, che l’ultimo capitolo del “Principe”, della serva Italia, eleggeva a “Marsigliese del sedicesimo secolo”. Ma con novità di sostanza. Il “principe nuovo” non è Cesare Borgia. “Quando Machiavelli scrisse «Il principe», nel 1513, Cesare è sparito dalla scena italiana da sette anni, e alla lettera non resta niente della sua opera. Niente altro che il suo esempio”. Machiavelli ne fa un identikit, che Althusser traccia punto per punto. E questi punti, si può aggiungere, corrispondono a un’identità precisa: il principe nuovo di Machiavelli sarà Cavour. Ma con mezzi non molto diversi. Solo in linea, tre secoli e mezzo dopo, con gli Stati costituzionali.
Non è un accostamento furbastro. Althusser non si
ricorda di Cavour, ma cita lungamente Hegel, che “Sulla costituzione della
Germania”, 1802, fa un elogio sperticato di Machiavelli profeta e
scienziato dello Stato, della costituzione patriottica – “Sulla costituzione
della Germania” si apre con la frase famosa: “Deutschland ist kein Staat mehr”, la Germania non è più uno Stato. Per
il resto la disamina di Althusser è coincidente punto per punto. Il principe deve avere un esercito, Cavour ce l’aveva. Deve provvedersi di “ausiliari”,
e Cavour ebbe Garibaldi. Usare l’astuzia, Cavour ne fu maestro. Cavour non ebbe
la religione, che Machiavelli vuole necessaria al consenso del popolo, e questo
fu un male, per l’Italia cavouriana o liberale, e per quella successiva, fascista
e repubblicana. La “virtù” di Machiavelli Althusser dice il successo. Di questo
Cavour fu sempre conscio, attento infaticabile tessitore, anche nelle sconfitte, e al gioco di negare l’intrigo e di farsi temere intrigante: “essere temuto e
non essere odiato”, dice Machiavelli – belle pagine, da ultimo, Althusser
dedica a questa ambivalenza.
Il
libro segreto
Questo è il libro segreto di Althusser.
Che scrisse e riscrisse per almeno un decennio, dal 1962 al 1972, spogliandosi
del gergo del Diamat, e senza parlarne con i compagni, senza il parere dei
quali per solito non filosofava. Che lascerà però inedito, salvo una sintesi di
19 pagine, “Solitude de Machiavel”, datata 1 luglio 1985. L’edizione francese
ha una introduzione circostanziata di Etienne Balibar, l’italianista dell’università
di California Irvine, suo inalterabile compagno di ortodossia marxista (continua
a leggere Lenin come Platone e Kant), e suo esercitatore principe. E a seguire due
saggi di François Matheron, curatore testamentario di fatto di Althusser, e suo traghettatore in questo interminabile day after, “Althusser
et l’insituabilité de la politique” e “La recurrence du vide chez Louis
Althusser”.
Una passione sbocciata in Romagna, in un
viaggio di lavoro-vacanza nei mesi estivi del 1961, ospite a Bertinoro di
Franca Madonia, sua traduttrice. Francese d’Algeria, cattolico, allievo di Jean
Guitton, Althusser era cresciuto preparato a decrittare Machiavelli. Anche se gli
rimarrà, come a tutti, “un enigma”. Su Machiavelli tenne poi il corso 1962 alla
École Normale Supérieure, e pubblicò un saggio, “Solitude de Machiavel”. Un scoperta
che lo accompagnerà nel turbolento prosieguo della vita e nella riflessione,
quasi testimone segreto. Aiutandolo nella scoperta della “politica”,
introvabile in Marx, di cui era l’esegeta. Balibar testimonia che “lo scarto
degli stili e delle problematiche è propriamente abissale” con la saggistica
marxista che negli stessi anni andava pubblicando.
Il problema con Machiavelli, esordisce il
filosofo di Marx, è sempre come lo disse De Sanctis, che “ti colpisce all’improvviso
e ti fa pensoso”. Che è “avvincente” e “inafferrabile”, Etienne Balibar
sintetizza così nella prefazione il suo, e quello del suo amico Althusser,
concetto – “Se è chiaro che siamo costantemente
davanti a un pensiero teorico di grande rigore, il punto centrale in cui
teoricamente tutto si lega sfugge interminabilmente alla ricerca” (citando da uno scritto minore questa riflessione, Matheron
ipotizza una identificazione di Althusser in Machiavelli, accomunati dal “salto
nel vuoto teorico” di cui il filosofo marxista fa merito al segretario
fiorentino, egli stesso concludendo la sua esperienza nel 1982 col “vuoto che è la
filosofia stessa”, e quattro anni più tardi col vuoto come “categoria centrale
di ogni filosofia”, la scienza incerta e peregrina). Si spiegano così i “fulminati”, tanti:
Leo Strauss, Merleau-Ponty e Croce prima di Althusser, e Gramsci, Marx, Hegel,
Rousseau, Montesquieu, perfino Spinoza (“verum
index sui et falsi”). E gli indifferenti: Carl Schmitt, Bobbio, Arendt –
contrari molti, per il “machiavellismo”, da Bodin a Kant.
Il
filosofo del fare
Lui ne fa, dopo un primo rifiuto, subito
successivo alla scoperta nel 1961, un filosofo. Un politico certamente. Il “libretto”,
l’“opuscolo”, “appena 80 pagine”, rileva del “Principe” con meraviglia, venendo
dai malloppi della ermeneutica marxiana, ma testo “chiaro, denso, vigoroso e appassionato”, un “atto politico”. E alla fine anche un filosofo.
Accreditandogli un “dispositivo teorico” innovatore: quello della “spazio
teorico” elaborato duplicemente, come “pura teoria” e come “pratica politica”.
Metodologia e dottrina di Machiavelli Althusser
sintetizza apocrifamente in “è male non chiamare il male un male”. Arrivando
per questa via a decostruire anticipatamente la “scienza politica”: non le
regole universali applicare all’analisi particolare, ma le stesse regole
sottoporre alle esigenze del fare. Un’elaborazione di cui Machiavelli ebbe piena
coscienza, nell’introduzione ai “Discorsi”: “Mi sono determinato ad aprire una
strada nuova”, ritenendo “più conveniente andare drieto alla verità
effettuale della cosa, che alla immaginazione di essa”. Niente di meno, spiega Althusser,
che “una teoria generale delle leggi della
storia”: vedere le cose nella loro effettività, e scoprirne le “leggi”. Senza
rifarsi, aggiunge, come tutti ad Aristotele, all’ipse dixit. Mancanza tanto più strana per un classicista. Al più, nota
Althusser, si rifà a Polibio, la disamina istituzionale ancorando agli eventi.
E non concepisce un contratto sociale – Althusser vuole precisarlo, senza
nominare Rousseau, fervido machiavelliano, giusto per differenziarsene. Le specificità – la “congiuntura” – non sono
dei dati da sottoporre al vaglio della teoria, e divengono forze reali e virtuose
nella lotta per l’obiettivo storico.
La conclusione sarebbe dunque che
Machiavelli non è un filosofo ma un uomo d’azione. Ma il suo retroterra teorico
Althusser valuta cospicuo. Analizzando “Il principe”, il filosofo di Marx
perverrà agli “scarti”, le aporie e divaricazioni che costituiranno il punto
ancora vivo della sua filosofia politica. Tra la teoria e la pratica. Tra il
principe e il popolo, “che si presuppongono sempre ma non si identificano mai”
(Balibar) - il che comporterebbe “la fine della politica”. Tra le realtà
istituzionali e sociali e l’astuzia del politico (“parafrasando Weber”, scrive
Althusser, “si potrebbe dire che il potere del Principe riposa sul monopolio
dell’astuzia legittima”). Tra la “congiuntura” rivoluzionaria e l’indeterminazione
del tempo, il luogo, gli agenti del suo realizzarsi pratico.
Ma il libro segreto si legge soprattutto
come una confessione indiretta: un testo autoreferenziale e autocritico. Una
sorta di “Machiavelli e io”, dice Balibar. Anche se l’“autonomia del politico”
gli resta indigesta, ancora tra le rovine.
Louis Althusser, Machiavelli e noi, manifesto libri, remainders, pp. 168 € 6,50
Machiavel et nous, Tallandier, pp. 235 € 10
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