Si scorre come passeggiando allo zoo: in un mondo diverso
e alieno, per quanto bene ci venga presentato, e malgrado la nostra domenicale,
modesta, curiosità. L’avvio è fulminante, che invoglia il lettore: “Quando un
paese si sviluppa e si rafforza, ha giornali e giornalisti che crescono insieme
a lui. Quando il paese declina e s’indebolisce, anche la stampa perde energia e
rischia di essere inutile”. Lo
svolgimento non c’è: il problema non è del tipo l’uovo o la gallina, ma Pansa
non se ne cura. Ma si può prendere la sua come la storia (involontaria?) della
(vera) reazione – un abbozzo di storia.
Si poteva, si potrebbe, scrivere molto di “Repubblica”,
di cosa è stato e non è stato (il “Monde” italiano), di Scalfari, dei fondatori,
che sempre sono scommettitori (Pansa non lo è), dei compagni di ventura come
Pansa, e dei suoi “dirigenti”, come usò infine chiamarli, quando vennero dal
Pci (certo, non dal Pci, da “Paese Sera” e dall’ “Unità”), di cui invece non si
parla. Pansa ha scelto l’aneddotica, e le cose viste. Con un punto importante:
che Berlinguer gli fece la famosa intervista alla vigilia delle elezioni del
1976, per dire che preferiva “l’ombrello Nato” a quello di Mosca, per
opportunismo elettorale, candidandosi al governo. E molti compiacimenti personali.
I giornali sono argomento che a Pansa piace, ci aveva già
scritto due libri, “Il malloppo” e “L’intrigo”. Non si può fargliene una colpa:
è stato grande giornalista, sempre nei migliori giornali, “la Stampa”, “il Messaggero”, il “Corriere della
sera”, “la Repubblica”, “Panorama”, “l’Espresso”, ne ha molti ricordi, e ce li
racconta. Molto in soggettiva. Non c’è solo Berlinguer, acuto e opportunista.
Pansa ridà l’onore a Angelo Rizzoli. E spessore a Spartaco Vannoni. Dice anche una
parte dell’indicibile: il settarismo del Pci, che si applica a lungo e più
volte anche nei confronti di “Repubblica”, e di Scalfari. Si poteva dire di più.
Dei personaggi evocati spesso manca l’essenziale. Dell’egotismo
di Scalfari, uomo solo, anche tra gli amici di una vita – a partire forse dallo
stesso Calvino, compagno di liceo. Della passione per il gioco di Caracciolo e
Alessandro Perrone, protagonisti ancora nei primi anni 1970 delle tavolate di
poker più azzardate di Roma. Della “passione” di Scalfari per De Mita, su cui
Pansa si interroga, ma senza sfiorare il segreto – un trasporto del tutto
incongruo col naturale dandysmo di Scalfari.
Insolute Pansa lascia le cause e le modalità, su cui
torna spesso, della vendita di “Repubblica” a De Benedetti. Caracciolo e
Scalfari l’hanno fatto per arricchirsi? No, “non esiste”. Caracciolo e De
Benedetti lo lasciano intendere nei loro libri-intervista, ma senza dire come, mentre Scalfari ha taciuto. I venditori sono
stati pagati in realtà con una “scatola vuota”, la Cartiera d’Ascoli, titoli di una società inesistente. E non si
chiarisce se la cessione non fu invece dovuta, l’esito della cambiale da tre
miliardi sottoscritta dai “Gemelli” nel 1978, quando non avevano i soldi per la
ricapitalizzazione di “Repubblica”, a De Benedetti che glieli prestava.
Insolute Pansa lascia le cause e le modalità, su cui
torna spesso, del passaggio di “Repubblica” a De Benedetti. Caracciolo e
Scalfari l’hanno fatto per arricchirsi? No, “non esiste”. Caracciolo e De
Benedetti lo lasciano intendere nei loro libri-intervista, ma senza dire come, mentre Scalfari ha taciuto. I venditori sono
stati pagati in realtà con una “scatola vuota”, la Cartiera d’Ascoli, titoli di una società inesistente. E non si
chiarisce se la cessione non fu invece l’esito della cambiale da tre miliardi
sottoscritta dai “Gemelli” nel 1978, quando non avevano i soldi per la
ricapitalizzazione di “Repubblica” e De Benedetti glieli prestò.
Scalfari si avvicinò a De Mita quando De Mita divenne il
segretario della Dc. E in quanto tale il dominus
degli enti pubblici, comprese le banche. Da De Mita Scalfari si aspettava molto
(probabilmente la liberazione dal nodo De Benedetti), attraverso i suoi
banchieri e finanzieri: Tanzi, Ventriglia al Banco Napoli e canddiato alla
Banca d’Italia, Geronzi al Banco di Roma, e altri minori, avrebbero dovuto districare
i “Gemelli” dall’abbraccio di De Benedetti. Un segreto che non è segreto, per
chi avesse lavorato in quegli anni alla redazione Economia di “Repubblica”, e
doveva sostenere come miglior “tecnico” nelle nomine di vertice sempre il banchiere
di De Mita, nella triade di candidati che l’ineffabile Guido Carli sornione
proponeva – il banchiere che non era Dc poteva fare il vice-presidente.
Ma il senso è quello, soprattutto leggendo il libro “a
babbo morto”, a un anno dall’uscita: malinconico. Di un che di remoto, seppure
prossimo, per la lontananza del giornalismo, e quindi dei suoi protagonisti, come
trincerati a beccarsi dietro una cortina di disattenzione - di cui sembrano ignari – calata all’improvviso.
Come di vecchie belle donne che si atteggiassero a sciantose. Il lettore ala
fine si chiede perché leggere di giornalismo e giornalisti. Un mondo oscuro più
che libero, e liberatore. Tanto più se non compra (più) il giornale. Pansa è un
dei migliori giornalisti: il giornalismo è al meglio autoreferente, un orto
chiuso? Molti dei personaggi di questo libro li incontriamo ogni giorno in tv,
e ci chiediamo il perché.
La “storia” Di Pansa non è irriverente, e il potere di
“Repubblica” non è invisibile, come il sottotitolo suggerisce – è stato
visibile e ora è inesistente. Del “Gruppone” reggono i giornali locali. Un’idea
che Caracciolo ereditò dall’Eni, da Franco Bristico, direttore per la comunicazione dell’Eni, quando nel
1974 cercò un sostegno finanziario per “l’Espresso” – lo ottenne tramite l’Anic,
la capogruppo chimica dell’ente petrolifero.
Giampaolo Pansa, la
Repubblica di Barbapapà, Rizzoli remainders, pp. 303, ril. € 6,65
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