martedì 3 marzo 2015

Il giornale in ritirata

Si scorre come passeggiando allo zoo: in un mondo diverso e alieno, per quanto bene ci venga presentato, e malgrado la nostra domenicale, modesta, curiosità. L’avvio è fulminante, che invoglia il lettore: “Quando un paese si sviluppa e si rafforza, ha giornali e giornalisti che crescono insieme a lui. Quando il paese declina e s’indebolisce, anche la stampa perde energia e rischia di essere inutile”.  Lo svolgimento non c’è: il problema non è del tipo l’uovo o la gallina, ma Pansa non se ne cura. Ma si può prendere la sua come la storia (involontaria?) della (vera) reazione – un abbozzo di storia.
Si poteva, si potrebbe, scrivere molto di “Repubblica”, di cosa è stato e non è stato (il “Monde” italiano), di Scalfari, dei fondatori, che sempre sono scommettitori (Pansa non lo è), dei compagni di ventura come Pansa, e dei suoi “dirigenti”, come usò infine chiamarli, quando vennero dal Pci (certo, non dal Pci, da “Paese Sera” e dall’ “Unità”), di cui invece non si parla. Pansa ha scelto l’aneddotica, e le cose viste. Con un punto importante: che Berlinguer gli fece la famosa intervista alla vigilia delle elezioni del 1976, per dire che preferiva “l’ombrello Nato” a quello di Mosca, per opportunismo elettorale, candidandosi al governo. E molti compiacimenti personali.  
I giornali sono argomento che a Pansa piace, ci aveva già scritto due libri, “Il malloppo” e “L’intrigo”. Non si può fargliene una colpa: è stato grande giornalista, sempre nei migliori giornali,  “la Stampa”, “il Messaggero”, il “Corriere della sera”, “la Repubblica”, “Panorama”, “l’Espresso”, ne ha molti ricordi, e ce li racconta. Molto in soggettiva. Non c’è solo Berlinguer, acuto e opportunista. Pansa ridà l’onore a Angelo Rizzoli. E spessore a Spartaco Vannoni. Dice anche una parte dell’indicibile: il settarismo del Pci, che si applica a lungo e più volte anche nei confronti di “Repubblica”, e di Scalfari. Si poteva dire di più.
Dei personaggi evocati spesso manca l’essenziale. Dell’egotismo di Scalfari, uomo solo, anche tra gli amici di una vita – a partire forse dallo stesso Calvino, compagno di liceo. Della passione per il gioco di Caracciolo e Alessandro Perrone, protagonisti ancora nei primi anni 1970 delle tavolate di poker più azzardate di Roma. Della “passione” di Scalfari per De Mita, su cui Pansa si interroga, ma senza sfiorare il segreto – un trasporto del tutto incongruo col naturale dandysmo di Scalfari.
Insolute Pansa lascia le cause e le modalità, su cui torna spesso, della vendita di “Repubblica” a De Benedetti. Caracciolo e Scalfari l’hanno fatto per arricchirsi? No, “non esiste”. Caracciolo e De Benedetti lo lasciano intendere nei loro libri-intervista, ma senza dire come,  mentre Scalfari ha taciuto. I venditori sono stati pagati in realtà con una “scatola vuota”, la Cartiera d’Ascoli,  titoli di una società inesistente. E non si chiarisce se la cessione non fu invece dovuta, l’esito della cambiale da tre miliardi sottoscritta dai “Gemelli” nel 1978, quando non avevano i soldi per la ricapitalizzazione di “Repubblica”, a De Benedetti che glieli prestava.
Insolute Pansa lascia le cause e le modalità, su cui torna spesso, del passaggio di “Repubblica” a De Benedetti. Caracciolo e Scalfari l’hanno fatto per arricchirsi? No, “non esiste”. Caracciolo e De Benedetti lo lasciano intendere nei loro libri-intervista, ma senza dire come,  mentre Scalfari ha taciuto. I venditori sono stati pagati in realtà con una “scatola vuota”, la Cartiera d’Ascoli,  titoli di una società inesistente. E non si chiarisce se la cessione non fu invece l’esito della cambiale da tre miliardi sottoscritta dai “Gemelli” nel 1978, quando non avevano i soldi per la ricapitalizzazione di “Repubblica” e De Benedetti glieli prestò.
Scalfari si avvicinò a De Mita quando De Mita divenne il segretario della Dc. E in quanto tale il dominus degli enti pubblici, comprese le banche. Da De Mita Scalfari si aspettava molto (probabilmente la liberazione dal nodo De Benedetti), attraverso i suoi banchieri e finanzieri: Tanzi, Ventriglia al Banco Napoli e canddiato alla Banca d’Italia, Geronzi al Banco di Roma, e altri minori, avrebbero dovuto districare i “Gemelli” dall’abbraccio di De Benedetti. Un segreto che non è segreto, per chi avesse lavorato in quegli anni alla redazione Economia di “Repubblica”, e doveva sostenere come miglior “tecnico” nelle nomine di vertice sempre il banchiere di De Mita, nella triade di candidati che l’ineffabile Guido Carli sornione proponeva – il banchiere che non era Dc poteva fare il vice-presidente.
Ma il senso è quello, soprattutto leggendo il libro “a babbo morto”, a un anno dall’uscita: malinconico. Di un che di remoto, seppure prossimo, per la lontananza del giornalismo, e quindi dei suoi protagonisti, come trincerati a beccarsi dietro una cortina di disattenzione  - di cui sembrano ignari – calata all’improvviso. Come di vecchie belle donne che si atteggiassero a sciantose. Il lettore ala fine si chiede perché leggere di giornalismo e giornalisti. Un mondo oscuro più che libero, e liberatore. Tanto più se non compra (più) il giornale. Pansa è un dei migliori giornalisti: il giornalismo è al meglio autoreferente, un orto chiuso? Molti dei personaggi di questo libro li incontriamo ogni giorno in tv, e ci chiediamo il perché.
La “storia” Di Pansa non è irriverente, e il potere di “Repubblica” non è invisibile, come il sottotitolo suggerisce – è stato visibile e ora è inesistente. Del “Gruppone” reggono i giornali locali. Un’idea che Caracciolo ereditò dall’Eni, da Franco Bristico, direttore  per la comunicazione dell’Eni, quando nel 1974 cercò un sostegno finanziario per “l’Espresso” – lo ottenne tramite l’Anic, la capogruppo chimica dell’ente petrolifero.
Giampaolo Pansa, la Repubblica di Barbapapà, Rizzoli remainders, pp. 303, ril. € 6,65 

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