“Un uomo può cominciare a bere perché si
sente un fallito e così fallire sempre di più per il fatto che beve. È più o
meno quello che sta accadendo alla lingua inglese”. Orwell parte con uno scatto
di malumore. Non ingiustificato, per usare una brutta frase (l’affermazione
per doppia negazione): la lingua “diventa brutta e imprecisa perché i nostri
pensieri sono stupidi, ma la trascuratezza della nostra lingua ci rende più
facile avere pensieri stupidi”, la cosa è reversibile - il precetto è poi diventato morettiano,
nel senso di Nanni Moretti (in “Palombella rossa”: “Le parole sono importanti.
Chi parla male pensa male e vive male”), ma ciò non toglie.
L’argomento
non è peregrino: liberarsi dalle cattive abitudini è necessario per “pensare con più
chiarezza e pensare con chiarezza è un primo necessario passo verso il
rinnovamento della politica” (usiamo la traduzione, molto efficace, di Umberta
Masina, free online). Una polemica che Pasolini, viene da pensare, abvrebbe radicalizzato in Italia negli anni 1970. Ma, a ben guardare, su presupposti e con effetti diversi. Non fuori da- e a difesa della politica, ma dentro la politica, a fini di partito. Che è ciò che Orwell depreca.
Orwell scriveva nel 1946, vittima del patriottismo dei vincitori, di bassa lega, e di un ideologismo all’epoca tanto acceso quanto settario, fazioso, e quindi vuoto. L’italiano di oggi è stretto fra tre linguaggi tutti egualmente deteriori: il “mercatismo”, roba da latte alle ginocchia; il talk-showismo, il non dire nulla in bella copia traslato dai divi del cinema e del pallone alla politica – e alle scuole di scrittura; l’inestetismo e la vaghezza della prosa giudiziaria imperante, dei giudici e i loro cronisti – non si capisce mai se uno è colpevole o è vittima, e di che cosa, le imputazioni assommano spesso a centinaia di pagine, migliaia perfino, e gli atti fino a centomila pagine e oltre. Mettiamo che il linguaggio si sia deteriorato, soprattutto in politica, per l’assalto dei fascio comunisti, ma poi il fascio comunismo – l’ubriacatura, la Seconda Repubblica - ha rotto tutto.
Orwell scriveva nel 1946, vittima del patriottismo dei vincitori, di bassa lega, e di un ideologismo all’epoca tanto acceso quanto settario, fazioso, e quindi vuoto. L’italiano di oggi è stretto fra tre linguaggi tutti egualmente deteriori: il “mercatismo”, roba da latte alle ginocchia; il talk-showismo, il non dire nulla in bella copia traslato dai divi del cinema e del pallone alla politica – e alle scuole di scrittura; l’inestetismo e la vaghezza della prosa giudiziaria imperante, dei giudici e i loro cronisti – non si capisce mai se uno è colpevole o è vittima, e di che cosa, le imputazioni assommano spesso a centinaia di pagine, migliaia perfino, e gli atti fino a centomila pagine e oltre. Mettiamo che il linguaggio si sia deteriorato, soprattutto in politica, per l’assalto dei fascio comunisti, ma poi il fascio comunismo – l’ubriacatura, la Seconda Repubblica - ha rotto tutto.
Orwell portava
cinque esempi, di autori importanti, di prosa non solo brutta – contorta,
faticosa – ma anche stantia e incomprensibile. Per l’uso incontrollato di metafore
trite, locuzioni senza significato, gerghi, politici, tecnici, scientifici,
ampollosità, costruzioni irte. Farne un calco in italiano non sarebbe
difficile.
George Orwell, Politics and the English Language, Penguin Classics, pp. 12 € 2
La
politica e la lingua inglese, a cura di Umberta Mesina, free online
http://www.archiviocaltari.it/wp-content/uploads/2012/04/orwell_it_politics-and-the-english-language4.pdf
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