Una prova di autocreazione – di
reincarnazione assistita. Una metamorfosi, dice l’autrice. Scrittrice di qualità
e successo in inglese, moglie e madre appagata, Jumpha Lahiri decide a 45 anni
di vivere a Roma e pensare e scrivere in italiano. Senza altra ragione che una
fascinazione fuggevole in una visita lampo con la sorella a Firenze, quando
aveva 27 anni. “In altre parole” è la
prova della reincarnazione riuscita. Un miracolo, di cui fa partecipe con una
prosa asciutta e in ogni parola pregna.
Un
libro che si è venuto scrivendo giorno per giorno, dopo un primo anno di
disorientamento, e pubblicato in brevi capitoli su “Internazionale”. Come un
puerperio. Con momenti difficili, di scoraggiamento, angoscia – di “straniamento”,
“disincanto” – ma nel complesso gioioso, poiché c’è il lieto fine. Di una
lingua che lei stessa dice “covata”.
Non è il primo caso, ma i precedenti illustri
sono diversi. Joyce stesso aveva provato per qualche anno a scrivere in
italiano, ma poté “fare Joyce” solo in inglese. Beckett era da tempo in larga misura francesizzato,
quando decise di scrivere in francese. Lo stesso per Conrad – che comunque ha
sempre avuto problemi – con l’inglese. Nabokov era cresciuto con l’inglese,
ogni famiglia di russi colti aveva una seconda lingua. Lahiri è nata in una
famiglia bengali emigrata da Calcutta negli Usa, nella cui lingua è stata
cresciuta nell’infanzia, che però non padroneggia, l’inglese era la sua lingua.
Nella quale si è formata e ha scritto, prevalentemente narrativa, riconosciuta e apprezzata, dalla critica e dai
lettori. Ha voluto il cambiamento per una sua decisione. Non da ribelle. Scrittrice
anzi classica, di buoni sentimenti, dell’integrazione possibile tra mondi
diversi – è suo “Il destino del nome”, il racconto delle due generazioni
bengali tra India e Usa da cui Mira Nair ha tratto il film una diecina d’anni
fa. La decisione è stata una scelta, non un capriccio o un salto di umore. L’esito
è per più di motivo una pietra miliare.
È la storia di un amore, di una lingua.
Ma di più sarà un trattato di linguistica. Cioè non un trattato, un esperimento
in corpore – questa è la reazione di
un’esperienza. Con più di una novità sulla maternità glottologica: l’inseminazione,
la gestazione, il puerperio, il primo nutrimento. Un test-case di come si entra nella lingua: Non per imprinting, ma
come uscendo dal nido, dall’uovo. Né per apprendimento, come “si impara una lingua”,
ma per immersione. Affascinante. “Un progetto talmente arduo che sembra sadico”,
“un’impresa folle”, riflette l’autrice, e tuttavia un atto di coraggio. L’inculturazione,
anche, di cui tanto si blatera per le nostre società polietniche, è questa
rinascita.
Un esperimento personale naturalmente, una sfida
a se stessa, alla propria creatività. Troppo nuovo, e anche troppo denso, pur
nella sua brevità. E un racconto sui
generis. Aggraziato, di metafore semplici, evocative e familiari.
La scelta di un’altra lingua, in età
matura, senza alcuna costrizione e anzi a dispetto di condizioni di partenza
vantaggiose, è una novità assoluta. È un rifacimento di sé, un remake. Come nuotare in mare aperto, a
un certo punto Jhumpa Lahiri ha questa impressione, rifiutando per giunta l’acqua
che la sorreggerebbe, l’inglese con cui è crescita e di cui è specialista. Ma la
traversata è ben governata, con quadranti e timoni. A suo sostegno si possono portare
i pareri di Carlo Cattaneo e Karl Marx, che l’India assomigliavano all’Italia (un’identificazione
di cui si può leggere a:
http://www.antiit.com/2014/07/il-mondo-come-182.html).
Autorevoli, anche se nessuno dei due sapeva nulla dell’India, e Marx niente neppure
dell’Italia.
Jhumpa Lahiri, In altre parole, Guanda, pp. 156 € 14
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