Gli
acquisti di titoli pubblici da parte della Banca d’Italia nel quadro del quantitative easing di Draghi, circa 6
miliardi al mese di titoli italiani per diciotto mesi, 110 miliardi circa,
potrebbero portare al consolidamento di un 5 per cento del debito, stesso, in
titoli irredimibili. Altre forme di consolidamento (riduzione) del debito sono
possibili e vanno realizzate. Tanto prima tanto meglio. Anzi ora o mai più, non ci saranno condizioni altrettanto favorevoli: il rischio è il fallimento,
un derapaggio inarrestabile dell’economia verso il basso, continuandosi a
pagare sempre più tasse a un serpente che si morde la coda (“più tasse più
tasse”), nel mentre che divora l’economia - le tasse al 50 per cento del pil semplicemente strozzano la produzione e i consumi.
Ridurre
il debito è indispensabile perché: 1) costa troppo, anche se i tassi
d’interesse sono al minimo, 2) penalizza la concorrenza (l’Italia, con un debito
pari a quello della Germania, paga di interessi ogni anno il doppio, una
cinquantina di miliardi), e 3) restringe il credito. L’esito è un ostacolo
permanente alla crescita dell’economia. Senza alcun vantaggio per la spesa
sociale: il debito eccessivo, dentro l’euro, è solo un bruciatore di risorse.
Quando
la politica avrà riacquistato l’autonomia, si potrà incidere sui due bubboni
della spesa pubblica: la sanità e gli appalti. Macchine macina miliardi, al
coperto del mercato liberatore, cioè del complesso mediagiudiziario. Per ora ci
si può solo difendere, tagliando il debito. Che il mercato vuole anch’esso
ridotto – è una delle sue pretese “riforme”, ma qui con un fondamento.
La struttura economica italiana è solida, è
diversificata, ed è produttiva checché se ne dica. Almeno un migliaio di prodotti
italiani sono di eccellenza, primeggiano nei mercato internazionali. L’Italia è
il secondo paese industriale (manifatturiero) in Europa. L’Italia ha fatto le riforme
del bilancio, della previdenza e del lavoro che il mercato globale esige, anche
se Bruxelles dice di no: il lavoro è flessibilissimo come più non si può, le pensioni
sono dimezzate, eccetto che per le generazioni a morire, il bilancio corrente è
più o meno in equilibrio, e non fosse per gli interessi che deve pagare sul
debito è da molti anni in attivo, ma il debito aumenta, vieppiù insostenibile. La
vera riforma è del debito.
Oggi,
oltre che opportuno e conveniente, è anche possibile consolidare il debito
pubblico – ridurlo. I modi non sono indolori, ma un governo solido e affidabile
può promuoverlo con effetti, alla sommatoria, positivi anche nell’immediato. E
il governo Renzi è solido: ha un’opposizione frantumata e confusa, e avrà tra
due mesi, alle elezioni regionali, il suffragio del voto che gli manca, ben più
solido di quello ottenuto alla elezioni europee un anno fa. Le condizioni
internazionali ci sono pure: è fallito, o comunque rientrato, l’attacco
all’euro. Oggi molto più forte per essersi indebolito nei confronti del
dollaro, in una fase di prezzi cedenti delle fonti di energie – denominate in
dollari.
La tassa sull’ombra
Aumentare le
tasse è solo dannoso. È anche impossibile, le tasse al 50 per cento del pil sono al ridicolo. Bologna tassa gli annunci dei saldi in vetrina – “sono
pubblicità”. E i menù esposti fuori del ristorante, che pure sono obbligatori.
E l’orario di apertura esposto agli ingressi, e i marchietti delle carte di
credito accettate. Per una norma varata nel 2009, in piena crisi, ultimo atto
del sindaco assente Cofferati, che
governava Bologna da Genova. Una norma che ebbe una prima esemplare
applicazione con una tassa sullo zerbino - di un negozio di gioielleria col
logo della ditta.
Ma
Cofferati non è un’eccezione. Se Roma arde di risanare il bilancio tassando
prostitute e prostituti – con gli “studi di settore”? Tutti gli enti pubblici, piccoli e grandi,
centrali e locali, sono centri di spesa incontenibili, e quindi di tassazioni
sempre più feroci – hanno moltiplicato all’inverosimile le patrimoniali sulla
case, ora ci provano, compiacente la Corte Costituzionale, con una patrimoniale
sui servizi, mentre moltiplicano le multe stradali, con sistemi di controllo
elettronici tutti in varia misura fasulli. Senza benefici sociali e a danno del
reddito, dei consumi e dell’economia. Effetto perverso del plebiscitarismo, che
pure sarebbe democratico, l’elezione diretta dei governanti locali.
Risponde
da Roma l’Agenzia delle Entrate, ex ministero delle Finanze, chiedendo di
tassare i versamenti in contanti alla banca. Ora: i supermercati e i
commercianti in genere, gli idraulici, etc, come si devono far pagare, con
marchietti? Dice: per tassare gli evasori fiscali. No, per tassare. È per
questo che le Finanze si sono trasformate in Entrate, per stupidità?
Una
modesta proposta a tanto acume si potrebbe avanzare, tratta da “La morte è
giovane”, romanzo anamorfico di Astolfo, in via di pubblicazione, con esempi
anche di un passato recente, dopo la crisi del petrolio del 1973-74:
“Anche ai possessori di automobili il governo chiede una tassa, un
contributo una tantum. Col vincolo di conservarne certificazione
per la vita, pena dura ammenda. E poiché la spesa generosa della pubblicità
“Telefona al governo” ha eroso il gettito dell’una tantum, una
sovrattassa sulla benzina lo ricostituirà. La ricetta risolutiva è sempre
quella di Cervantes, Dialogo dei cani:
se tutti i sudditi digiunano un giorno, e danno il risparmio al re, il debito
si estingue. L’America non manca d’innovare, a protezione congiunta del fisco e
della società, intesa come Dio e famiglia: tasse sui matrimoni, per le
modifiche che causano allo stato civile, sul celibato, in misura superiore, sui
divorzi, in misura doppia per ragioni etiche. Ma la tassa sui celibi è debole:
le donne furono grate a Mussolini che la praticò, ma per poco, mentre potrebbe
favorire matrimoni di comodo, per esempio di gay con lesbiche. Torna pure la
ricetta con cui Churchill sconfisse Hitler: vietare gli ascensori fino al terzo
piano.
“Una tassa è possibile sull’accesso ai
luoghi di culto, il cui mantenimento costa. Nonché sull’assenteismo dai luoghi
di culto, che costano comunque. Più cara se la religione è di Stato. Si
istituisca una Carta del Culto, da punzonare a ogni entrata e allegare alla
dichiarazione dei redditi. Risalendo nella storia viene utile il guidrigildo di
Federico II, in tempi calamitosi assicura ottime entrate: la comunità,
caseggiato, quartiere, paese, paga per ogni delitto impunito al suo interno.
Bisanzio calcolava di coprire un terzo della spesa tassando veggenti,
giocolieri e ciarlatani. Il repertorio più completo è sempre di Aristotele. A
caso: vendere il demanio (si fece a Bisanzio), vendere la cittadinanza agli
immigrati (idem) e ai fuggiaschi, mettere all’asta lo spazio sovrastante le
costruzioni abusive che sporgano sulla pubblica via (Ippia di Atene: gli
abusivi corsero a comprare a caro prezzo), tassare le scale e i ballatoi sul
suolo pubblico e le porte che aprono verso l’esterno (sempre Ippia, che così
tassava tutti: le porte si aprivano allora verso l’esterno, dalla parte della
strada, prima di aprirle si bussava), gli incarichi pubblici e privati (vari),
i capelli lunghi (Condalo, luogotenente di Mausolo), i funerali (lo stesso).
“Alla campionatura del Magister sono
complemento Plutarco e Svetonio. Licurgo, secondo Plutarco, “avviò la
spartizione dei beni mobili, al fine di eliminare differenze e sperequazioni
fra i cittadini, e intuendo che, presi di petto, non avrebbero consentito a
farsi spogliare, li aggirò con un trucco”: sostituì l’oro e l’argento delle
monete col ferro, e alle monete di ferro attribuì un valore così basso da
renderne impossibile la custodia e il trasporto. Anticipò la repubblica di
Weimar. Gli spartani reagirono anticipando i tedeschi, che del resto se ne
proclameranno eredi: si arresero al governo. A Roma l’imperatore “ciocia”
Caligola (caligula è l’anfibio, lo scarpone militare, anche se,
derivando dalla nota caligo, ne subisce la polisemia, n.d.C.), quello
che voleva distrutte le opere di Omero per il motivo che doveva essere
consentito a lui quello che si consente a Platone, il quale come si sa bandisce
Omero dalla Repubblica, e temendo per il suo regno l’oblio causa la prosperità
fomentò sconfitte, incendi, stragi, pestilenze, carestie, innovò il fisco. Aprì
bordelli di Stato, promiscui, e tassò i facchini, allora la classe operaia più
numerosa, per l’ottava parte del reddito. La prescrizione facendo affiggere a
caratteri microscopici in posti reconditi, per avere molti inadempienti da
tassare ulteriormente. Si deve a Caligola la ricetta di dichiarare la carestia
dopo avere chiuso i granai, nocciolo della trionfante Austerità. Mossa
politicamente non sbagliata, se Bacone ha accertato che “ciò che abbatte lo
spirito di un popolo è caricarlo di tasse”. Lo Stato italiano si rifà a Ippia,
tassando “la proiezione sul suolo pubblico di balconi, tende e pensiline, anche
se da ciò non deriva alcuna limitazione all’uso dello stesso”: tassa l’ombra.
“Sostiene Foucault che il sesso è il
fondamento del potere, la testa del membro maschile. Non si ha più
nulla da dare al popolo, lo sapeva già Rousseau, se non l’appello “date soldi”,
che si dice “coi manifesti ai muri e gli sbirri nelle case”. Il Contratto sociale scade per questo di tono: “Datelo, il denaro, e presto ce
l’avrete in quel posto”. Plutarco ricorda che gli ateniesi ci fu un
periodo che “urbanizzavano” – avevano un presentimento della “società civile”?
-, chiamando compagne le puttane, il carcere abitazione, gli sbirri custodi, e
le tasse contributi. Anche i papi, altri maschilisti, mostreranno analoga
fantasia: tassarono i tordi, la fojetta di vino, detta “studio”, e la farina. Il
potere si vuole osceno”.
Le Finanze erano una Scienza
Qui
ci vuole un preambolo. Sulla incompeteneza, se non è ignoranza, delle Finanze, oggi Entrate, che pure fino alla riforma Visentini, 1974, erano la parte migliore della burocrazia. Ora accavalla tasse su tasse e moltiplica le leggi e i regolamenti, a cadenza di poche settimane o mesi. Con lo scopo di allargare il prelievo riducendo l’evasione, mentre invece la incrementa - e forse in realtà per aumentare il proprio potere di concussione, anche se non lo sa: le Finanze si sono surrogate un potere imenso, e distruttivo. Non solo le tasse sono onerose, ma sono in
Italia in corsa frenetica all’inefficienza. Con una velocità di ricambio (di
calcolo, di modalità di pagamento) assurda – come se si volesse scoraggiare l’adempimento.
Troppe vessazioni inducono l’evasione – questa cosa si è saputa per millenni, ma alle Entrate non l’hanno imparata. A parte il fatto che non sanno recuperare nemmeno il dovuto, denunciato, testimoniato, certificato. Una riforma il riformatorio dovrebbe prima di tutto fare delle Entrate. A cominciare dalla dirigenza, che si è riempita in questi anni allegri di Seconda Repubblica di portaborse di ministri e sottosgretari, digiuni della materia - si parla di centinaia di posizioni, forse un migliaio.
Troppe vessazioni inducono l’evasione – questa cosa si è saputa per millenni, ma alle Entrate non l’hanno imparata. A parte il fatto che non sanno recuperare nemmeno il dovuto, denunciato, testimoniato, certificato. Una riforma il riformatorio dovrebbe prima di tutto fare delle Entrate. A cominciare dalla dirigenza, che si è riempita in questi anni allegri di Seconda Repubblica di portaborse di ministri e sottosgretari, digiuni della materia - si parla di centinaia di posizioni, forse un migliaio.
C’era una volta una Scienza delle Finanze, ma si è perduta. Si può dire che
il debito cresce per l’ignoranza della Scienza delle Finanze. Dei fondamentali
di questa scienza, pure semplice. Che ha avuto in Italia cultori apprezzati, da
Einaudi fino a Reviglio e Tremonti, ma è da tempo desueta. Insieme con tutta la
Funzione Pubblica: fa parte della derelizione dello Stato in onore del mercato
trionfante. L’esito è il disastro in materia imposto da Mario Monti.
Monti
ha portato la tassazione a livelli record e insostenibili, nel mentre che
tagliava le spese, nelle retribuzioni, nella formazione, nella sanità, e
accresceva il debito. Perché lo ha fatto lo sanno tutti, anche se non si dice,
per carità di patria, per Milano che egli rappresenta al sommo grado, e per
Napolitano che ce lo ha imposto. Per un concentrato d’insipienza altrimenti
impossibile da immaginare, se non per la protervia liberista. Uscirne non sarà
facile ma è possibile.
Monti
ha violentemente ridotto la spesa sanitaria, ha stroncato le spese per la
scuola, specie per la secondaria e l’università (dell’università pubblica,
ovviamente), bloccando il ricambio, e ha fermato la contrattazione e
l’anzianità tra i dipendenti pubblici. Ha cresciuto l’imposizione fiscale di 3
punti percentuali, ufficialmente, il doppio di fatto e nel “percepito”,
imponendo la deflazione che è causa e motore principale della recessione – un
circolo vizioso. E ha aumentato il debito. Da 1.843 a 1.988 miliardi – e a 2.166
miliardi a fine gennaio.
Le tasse non colmano il debito ma lo
aumentano. Sono risorse sottratte alla produzione, cioè al reddito, e
quindi a una fiscalità rigorosa e produttiva. Le troppe tasse riducono e
soffocano il meccanismo accumulativo produzione\occupazione\reddito. Per non
parlare degli effetti indotti, ma sistemici. La supertassazione della casa di
cui Monti si è fatto merito in Parlamento cambierà in una-due generazioni il
panorama millenario dell’Italia. Addio palazzi e ville, mantenuti tal quale per il rispetto della tradizione -meglio farne alberghi, uffici, condomini, e ampliarne le cubature. Addio
seconde case, che per una buona metà sono le vecchie case di origine, di
famiglia, di paese. E addio vecchi paesi. In molti Comuni il fenomeno è già
avvertito, l’attesa è che si generalizzi: i tre italiani su quattro che sono
emigrati, di prima o seconda generazione, abbandonano la casa paterna.
Dispossessandosi il più delle volte, col rifiuto dell’eredità e in altre forme,
poiché delle case vecchie nei paesi non c’è mercato: lasciando gli immobili al
deperimento. Si perderà con la casa anche il senso delle origini? È
inevitabile. Ma con l’urgenza di liberarsi della casa il processo si affretta,
in un tempo non lungo. E senza la patina del tempo, in una forma violenta di
sradicamento. Delle radici che sono state finora la forza dell’Italia, anche
nella modernità: crescere in un luogo proprio, con la piazza e la fontana,
magari con le najadi, e far valere la tradizione. Il pensiero dei tecnocrati è
sempre corto, da apprendisti stregoni.
Il
fenomeno del disavanzo incomprimibile con la tassazione non è solo italiano, ed
è noto. Lo hanno spiegato una dozzina d’anni fa Vito
Tanzi, italiano d’America, allora al Fondo Monetario internazionale, vice-ministro
di Tremonti all’Economia, e Ludger Schuknecht, ora consigliere principe del
ministro tedesco delle Finanze Schaüble, nello studio “La spesa pubblica nel
XXmo secolo”. I due studioso documentavano che la crescita abnorme del debito
pubblico nei paesi industriali nell’ultimo terzo del secolo non nasceva da un allargamento
del welfare, del sistema di protezione
sociale, che non ne beneficiava, se non in misura irrisoria. A un certo punto
il debito si autoriproduce, senza alcun effetto virtuoso o produttivo. Tanzi e
Schuknecht prospettavano una riduzione necessaria del debito per effetto della
globalizzazione, della competizione con sistemi produttivi a basso o nullo
impatto del debito. La crisi successiva,
da cui l’Europa dopo otto anni stenta a riprendersi, ha peggiorato le
simulazioni dei due economisti.
Che fare
Usava
tra i letterati e artisti indebitarsi. Fino a D’Annunzio era quasi una regola.
Poi tutto è cambiato, e anche l’artista si vuole regolarizzato, in pace col
fisco e gli amici. In economia il debito è durato più a lungo. Rabelais ne fa l’elogio
ai capp. III e IV del “Terzo Libro”: Panurgo, a cui Pantagruele rimprovera di
avergli mangiato il grano, fa l’elogio dell’indebitamento – di cui il creditore
dovrebbe andare orgoglioso giacché è il
suo pane. E tuttora ci sono economie che prosperano col debito: il Giappone è
un caso, e anche gli Usa. Ma per tutti gli altri, si può dire, il debito è un
fardello. Ridurlo è una necessità, e molti sistemi, più o meno risolutivi, sono
stati escogitati.
L’Italia
non ne discute, ma è il primo indiziato di un necessario consolidamento. Con
misure straordinarie. Il Belgio ci è riuscito negli anni 1990 con una manovra complessa
di taglia di spesa e aumenti pro tempore delle tasse – della fiscalità
indiretta sui consumi, non delle patrimoniali. I tagli di spesa sono poco
produttivi in Italia: 23 anni di attivo primario, a partire dal fatale 1992,
dalla crisi della lira, di un comparto pubblico cioè in attivo al netto degli
interessi sul debito, non hanno compresso il totale de debito stesso ma l’hanno
aumentato. Per alcuni anni, attorno alla metà del ventennio, e in corrispondenza
con l’avvio dell’euro, il debito si è contratto, ma poi è tornato a macinare
nuovi record negativi. E oggi, malgrado i fortissimi aumenti della fiscalità
dei governi Monti e Letta, macina nuovi record negativi.
Prestito irredimibile. Bisogna
intervenire sullo stock del debito. Si è riscoperto
il debito irredimibile ed è una buona cosa. Si è riscoperto in inglese, come “a
perpetuità”, e giusto perché Londra ha deciso di rimborsare il vecchio debito
del 1914, ma non importa. Il debito che sta passando nella titolarità della
Banca d’Italia è un ottimo candidato all’irredimibilità. Ma molti privati ne
sarebbero sicuramente attratti. Con un attivo primario stabile da ormai un
quarto di secolo, l’Italia è in condizione di pagare uno spread aggiuntivo sugli interessi di mercato. Necessario è ridurre,
nello schema di Maastricht, lo stock del debito. L’Italia ne ha una buona
esperienza.
Patrimoniale.
Non è da escludere. “Siamo
contrari a qualsiasi ipotesi di imposta patrimoniale, diretta e indiretta, per
l’abbattimento del debito”, è il punto principale, in grassetto, del programma
del partito di Corrado Passera, Italia Unica. Dopo che Passera, con le imposte
patrimoniali ordinarie e anzi a vita ha distrutto mezza Italia – la quale lo ha
subito affondato, con Monti. E invece una patrimoniale straordinaria gli
italiani volentieri la pagherebbero – l’oro alla patria. Per abbattere il debito. Sarebbe l’analogo
del prestito forzoso.
Privatizzazioni.
Servono ma non risolvono. Il gran parlare che se ne fa è, al coperto dell’ideologia,
o delle voci interessate, di acquirenti-gestori per un lucro, banche d’affari e
affaristi individuali, non è decisivo. L’effetto è stato, nelle privatizzazioni
di Draghi e Ciampi, minimo. Una buona gestione del patrimonio pubblico, anche
abitativo, inciderebbe di più, molto – come i dividendi incassati annualmente
da Eni, Enel, Poste, e gli altri pochi soggetti rimasti in mano pubblica.
Eurobond. Gli eurobond
non sono tramontati, e potrebbero trovare - passata la crisi, col rischio di
doversi sobbarcare il debito altrui – un interesse convergente in paesi europei
oggi contrari. L’Italia ne ha
esperienza. Fu italiano il primo consolidamento moderno del debito, subito dopo
l’unità, a opera di Antonio Scialoja, ministro delle Finanze. Il 2 maggio 1866,
in reazione alla caduta delle quotazioni dei titoli del debito pubblico
italiano alla Borsa di Parigi, per una delle tante crisi commerciali, Scialoja
proclamò il “corso forzoso”, ossia la temporanea inconvertibilità. Al contempo
il ministro obbligava la Banca Nazionale, antenata della Banca d’Italia, a
fornire al Tesoro un mutuo di 250 milioni – l’odierno acquisto Bce a sostegno
del corso del debito. E subito dopo emise un prestito redimibile forzoso, a carico
delle banche. Che non ci rimisero, e anzi ci guadagnarono.
Mutualizzare
una quota del pil. Marcello Minenna propone di sopravanzare subito il
rischio eurobond, di mutualizzazione del debito, mutualizzando invece subito il
pil. Non tutto, un 30 per cento. Questo è quanto basta per decurtare il debito
italiano a misura sostenibile, dal 120-130 per cento del pil, cioè, al 90-100
per cento – “la nota soglia critica”, dice lo specialista nel calcolo del
rischio, “oltre la quale è difficile ipotizzare con
le regole attuali dell’Eurosistema (incluso il fiscal compact) che il debito possa avviare un naturale percorso di
riduzione”. Questo sarebbe di interesse anche della Germania, che
vedrebbe “mutualizzato gran parte del proprio
debito, perché più un paese è virtuoso e più debito mutualizza”, in percentuale.
Ma la manovra è d’ingegneria
complessa, troppo per le pletoriche e deboli istituzioni europee . Meglio, dal
punto di vista decisionale, le manovre complesse, anche se ognuna di esse non
decisive.
Prestito forzoso. Se ne sono
fatti in passato per le più varie emergenze. La guerra. La ricostruzione. La
ricostruzione locale. Il prestito forzoso è odioso. E tuttavia è meglio che un
aumento costante delle tasse: è meno ingiusto e più democratico di un’imposizione
fiscale elevata, che a ogni manovra, cioè a ogni bilancio, si aumenta.
Cassa per l’Ammortamento. La più azzardata, e la meglio riuscita fu il consolidamento
del francese nel 1926 – su cui la curiosità si potrà esercitare a:
Meno drammatica ma
molto produttiva fu la manovra italiana per rientrare dal debito contratto con
la Grande Guerra. Mussolini aveva adottato una
Cassa per l’Ammortamento del Debito Pubblico interno dello Stato – dopo avere
beneficiato dell’abbuono del debito estero contratto in guerra dall’Italia con
Stati uniti e Gran Bretagna – un anno prima di Poincaré. Con effetti anch’essi
risolutivi. Nel 1918 l’Italia più che la Germania sembrava predestinata al fallimento.
Nel 1914 il debito pubblico era il 75 per cento del pil, nel 1918 il 150 per
cento. Un primo tentativo di ammortamento del debito, nel 1920, con una patrimoniale
fortemente progressiva, fallì: il gettito fu esiguo. Le cose si trascinarono
fino al fascismo, e al correlato miglioramento della fiducia degli ambienti
internazionali, specie di quelli finanziari. Mussolini, col suo ministro De
Stefani, ricavò molto più della patrimoniale con la riduzione della spesa, e il
contenimento delle tasse. Nel 1926 De Stefani poté vantare un debito pubblico
al 50 per cento del pil. Ma sapeva che ciò era l’effetto soprattutto del
condono del debito estero da parte degli Stati Uniti e della Gran Bretagna. Da
qui il progetto di una Cassa d’Ammortamento, che il nuovo ministro del Tesoro
Volpi realizzerà un anno dopo. Abbastanza per riportare la lira nel gold standard,
con la famosa Quota Novanta (92 lire, esattamente, per una sterlina).
“Una Cassa d’ammortamento è, insegna
Jean-Baptiste Say, al cap. 30, “Sui prestiti pubblici”, del suo
“Catechismo d’economia politica”, “un mezzo per sostenere il credito del
governo”. Domanda: “Che cos’è
una cassa d’ammortamento?” Risposta: “Quando si mette un’imposta per pagare gli
interessi di un prestito, la si mette un po’ più alta di quanto è necessario
per pagare questi interessi, e l’eccedente è confidato a una cassa speciale che
si chiama cassa d’ammortamento, la quale lo utilizza per riacquistare ogni
anno, ai corsi di mercato, una parte delle rendite pagate dallo Stato.
I ratei delle rendite
riscattati dalla cassa d’ammortamento sono quindi versati in questa cassa, che
li impiega, così come la quota di imposte che le viene attribuita a questo
scopo, per il riacquisto di una nuova quantità delle rendite”.
“Say non amava il
debito pubblico: “Un governo che vende delle rendite per appropriarsene il
prezzo vende in realtà il reddito dei cittadini”. Non molti anni prima del suo
“Catechismo”, nel 1776, una Cassa d’ammortamento era stata creata, col favore
di Turgot, a fronte di un debito pubblico che all’improvviso apparve colossale,
con lo scopo di rassicurare i sottoscrittori. Malgrado la Cassa, la Francia
finì nella Rivoluzione. E la Rivoluzione, che si può anche dire provocata
dall’instabilità finanziaria, finì negli assignats, cioè nella
cancellazione della moneta”.
Spa del debito. Nel
2005 l’ex ministro delle Finanze Guarino ha proposto il consolidamento sotto una
forma diversa di cassa d’ammortamento: una società per azioni, alla quale
conferire i tanti attivi non esigibili dello Stato. Una società privata, fuori
cioè dello Stato. In grado di produrre utili, e di raccogliere quindi un
conveniente numero di sottoscrittori privati. Questo grazie al conferimento di
un patrimonio che Guarino stimava in 450 miliardi, pari al 35 per cento del
debito (di allora). Forse addirittura in 600 miliardi, pari al 45 per cento del
debito, che così sarebbe sceso sotto la soglia virtuosa del 60 per cento del
pil.
Era una stima
prudente: il patrimonio pubblico, dello Stato e degli enti locali, si valuta in
1.800 miliardi. Togliendo dal computo i beni artistici, e quelli locali,
difficilmente mobilitabili, l’Agenzia del Demanio calcolava all’epoca che beni
per 450 miliardi si potevano agevolmente mettere sul mercato: partecipazioni,
quotate e non, immobili, crediti.
Il debito sarebbe
stato abbattuto a mano a mano che le quote di Debito Spa venivano vendute agli
investitori. Per un controvalore appunto di 450-600 miliardi.
Il professor Guarino
era un ex democristiano, senza più autorità, per di più ministro dell’infausto
governo Amato nel 1992, e la sua proposta non ebbe fortuna. Lui stesso ridusse
l’attivo ipotetico della Debito Spa a 60 miliardi, e poi non ne fece nulla.
Inoltre, Guarino prevedeva che fossero le banche e le grandi imprese italiane
ad avviare il successo di Debito Spa nel mercato, prendendone una quota di almeno
il 10 per cento, e oggi le banche non sono in condizione di farlo, né le grandi
imprese totalmente private, Fiat, Telecom, Pirelli, Autostrade, eccetera.
La
pratica, da Guarino passata al governo Prodi, fu affossata perché “economicamente
priva di senso”. Ma il professor Messori, consulente di Prodi a palazzo Chigi,
riteneva che in forma specializzata e non aggregata, con una serie di holding e
non una sola, il progetto potesse riuscire. Lo stesso Prodi peraltro riteneva essenziale la riduzione
dello stock del debito. Successivamente alla proposta Guarino da lui bocciata,
Il Mulino bolognese, un think tank nel quale il
Professore aveva molto peso, redasse “Debito pubblico”, una pubblicazione a cura del professor Musu, che è
assolutoria e anzi incitatoria. No, categorica: “Il risanamento finanziario
connesso a un processo di riduzione del debito pubblico può essere paragonato
alla produzione di un bene pubblico, di un bene cioè del quale tutti i
cittadini possono godere simultaneamente e in modo non reciprocamente
esclusivo”.
La
ricetta Belgio, o del circolo virtuoso. Analoga
per molti aspetti all’esperienza italiana, quella del Belgio si differenzia
all’ultimo stadio: ha riuscito il consolidamento. A partire dal 1993, quando il
debito salì al 137,8 per cento del pil, come l’Italia allora e ora, con un
servizio del debito all’8 per cento dello stesso pil, come ora l’Italia, il
paese si è imposto un avanzo primario di bilancio. Come l’Italia. Un
plafonamento della spesa pubblica. Come l’Italia. Un patto di stabilità con gli
enti locali. Come l’Italia. Un aumento del prelievo fiscale fino al 45 per
cento. Come l’Italia. Ma tutto questo ha fatto per un decennio fino al 2002.
Mentre l’Italia va avanti con la stessa ricetta da oltre vent’anni, e senza
esito. Dov’è la differenza? Nel 2001 il governo belga vara un piano quinquennale
di rientro del debito, al 90 per cento del pil. E ci riesce. Un piano quinquennale
non fantasmagorico: vendita dei beni pubblici, compreso l’oro, in parte, della Banca centrale belga, rimborso anticipato
di parte del debito, allungamento delle scadenze del debito in essere. L’esito
è stato l’azzeramento dello spread,
minori costi del debito, minore debito – il circolo virtuoso.
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