martedì 17 marzo 2015

La vera riforma è del debito

Gli acquisti di titoli pubblici da parte della Banca d’Italia nel quadro del quantitative easing di Draghi, circa 6 miliardi al mese di titoli italiani per diciotto mesi, 110 miliardi circa, potrebbero portare al consolidamento di un 5 per cento del debito, stesso, in titoli irredimibili. Altre forme di consolidamento (riduzione) del debito sono possibili e vanno realizzate. Tanto prima tanto meglio. Anzi ora o mai più, non ci saranno condizioni altrettanto favorevoli: il rischio è il fallimento, un derapaggio inarrestabile dell’economia verso il basso, continuandosi a pagare sempre più tasse a un serpente che si morde la coda (“più tasse più tasse”), nel mentre che divora l’economia - le tasse al 50 per cento del pil semplicemente strozzano la produzione e i consumi.
Ridurre il debito è indispensabile perché: 1) costa troppo, anche se i tassi d’interesse sono al minimo, 2) penalizza la concorrenza (l’Italia, con un debito pari a quello della Germania, paga di interessi ogni anno il doppio, una cinquantina di miliardi), e 3) restringe il credito. L’esito è un ostacolo permanente alla crescita dell’economia. Senza alcun vantaggio per la spesa sociale: il debito eccessivo, dentro l’euro, è solo un bruciatore di risorse.
Quando la politica avrà riacquistato l’autonomia, si potrà incidere sui due bubboni della spesa pubblica: la sanità e gli appalti. Macchine macina miliardi, al coperto del mercato liberatore, cioè del complesso mediagiudiziario. Per ora ci si può solo difendere, tagliando il debito. Che il mercato vuole anch’esso ridotto – è una delle sue pretese “riforme”, ma qui con un fondamento.
La  struttura economica italiana è solida, è diversificata, ed è produttiva checché se ne dica. Almeno un migliaio di prodotti italiani sono di eccellenza, primeggiano nei mercato internazionali. L’Italia è il secondo paese industriale (manifatturiero) in Europa. L’Italia ha fatto le riforme del bilancio, della previdenza e del lavoro che il mercato globale esige, anche se Bruxelles dice di no: il lavoro è flessibilissimo come più non si può, le pensioni sono dimezzate, eccetto che per le generazioni a morire, il bilancio corrente è più o meno in equilibrio, e non fosse per gli interessi che deve pagare sul debito è da molti anni in attivo, ma il debito aumenta, vieppiù insostenibile. La vera riforma è del debito.
Oggi, oltre che opportuno e conveniente, è anche possibile consolidare il debito pubblico – ridurlo. I modi non sono indolori, ma un governo solido e affidabile può promuoverlo con effetti, alla sommatoria, positivi anche nell’immediato. E il governo Renzi è solido: ha un’opposizione frantumata e confusa, e avrà tra due mesi, alle elezioni regionali, il suffragio del voto che gli manca, ben più solido di quello ottenuto alla elezioni europee un anno fa. Le condizioni internazionali ci sono pure: è fallito, o comunque rientrato, l’attacco all’euro. Oggi molto più forte per essersi indebolito nei confronti del dollaro, in una fase di prezzi cedenti delle fonti di energie – denominate in dollari.

La tassa sull’ombra
Aumentare le tasse è solo dannoso. È anche impossibile, le tasse al 50 per cento del pil sono al ridicolo. Bologna tassa gli annunci dei saldi in vetrina – “sono pubblicità”. E i menù esposti fuori del ristorante, che pure sono obbligatori. E l’orario di apertura esposto agli ingressi, e i marchietti delle carte di credito accettate. Per una norma varata nel 2009, in piena crisi, ultimo atto del sindaco assente  Cofferati, che governava Bologna da Genova. Una norma che ebbe una prima esemplare applicazione con una tassa sullo zerbino - di un negozio di gioielleria col logo della ditta.
Ma Cofferati non è un’eccezione. Se Roma arde di risanare il bilancio tassando prostitute e prostituti – con gli “studi di settore”?  Tutti gli enti pubblici, piccoli e grandi, centrali e locali, sono centri di spesa incontenibili, e quindi di tassazioni sempre più feroci – hanno moltiplicato all’inverosimile le patrimoniali sulla case, ora ci provano, compiacente la Corte Costituzionale, con una patrimoniale sui servizi, mentre moltiplicano le multe stradali, con sistemi di controllo elettronici tutti in varia misura fasulli. Senza benefici sociali e a danno del reddito, dei consumi e dell’economia. Effetto perverso del plebiscitarismo, che pure sarebbe democratico, l’elezione diretta dei governanti locali.
Risponde da Roma l’Agenzia delle Entrate, ex ministero delle Finanze, chiedendo di tassare i versamenti in contanti alla banca. Ora: i supermercati e i commercianti in genere, gli idraulici, etc, come si devono far pagare, con marchietti? Dice: per tassare gli evasori fiscali. No, per tassare. È per questo che le Finanze si sono trasformate in Entrate, per stupidità?
Una modesta proposta a tanto acume si potrebbe avanzare, tratta da “La morte è giovane”, romanzo anamorfico di Astolfo, in via di pubblicazione, con esempi anche di un passato recente, dopo la crisi del petrolio del 1973-74:
 “Anche ai possessori di automobili il governo chiede una tassa, un contributo una tantum. Col vincolo di conservarne certificazione per la vita, pena dura ammenda. E poiché la spesa generosa della pubblicità “Telefona al governo” ha eroso il gettito dell’una tantum, una sovrattassa sulla benzina lo ricostituirà. La ricetta risolutiva è sempre quella di Cervantes, Dialogo dei cani: se tutti i sudditi digiunano un giorno, e danno il risparmio al re, il debito si estingue. L’America non manca d’innovare, a protezione congiunta del fisco e della società, intesa come Dio e famiglia: tasse sui matrimoni, per le modifiche che causano allo stato civile, sul celibato, in misura superiore, sui divorzi, in misura doppia per ragioni etiche. Ma la tassa sui celibi è debole: le donne furono grate a Mussolini che la praticò, ma per poco, mentre potrebbe favorire matrimoni di comodo, per esempio di gay con lesbiche. Torna pure la ricetta con cui Churchill sconfisse Hitler: vietare gli ascensori fino al terzo piano.
“Una tassa è possibile sull’accesso ai luoghi di culto, il cui mantenimento costa. Nonché sull’assenteismo dai luoghi di culto, che costano comunque. Più cara se la religione è di Stato. Si istituisca una Carta del Culto, da punzonare a ogni entrata e allegare alla dichiarazione dei redditi. Risalendo nella storia viene utile il guidrigildo di Federico II, in tempi calamitosi assicura ottime entrate: la comunità, caseggiato, quartiere, paese, paga per ogni delitto impunito al suo interno. Bisanzio calcolava di coprire un terzo della spesa tassando veggenti, giocolieri e ciarlatani. Il repertorio più completo è sempre di Aristotele. A caso: vendere il demanio (si fece a Bisanzio), vendere la cittadinanza agli immigrati (idem) e ai fuggiaschi, mettere all’asta lo spazio sovrastante le costruzioni abusive che sporgano sulla pubblica via (Ippia di Atene: gli abusivi corsero a comprare a caro prezzo), tassare le scale e i ballatoi sul suolo pubblico e le porte che aprono verso l’esterno (sempre Ippia, che così tassava tutti: le porte si aprivano allora verso l’esterno, dalla parte della strada, prima di aprirle si bussava), gli incarichi pubblici e privati (vari), i capelli lunghi (Condalo, luogotenente di Mausolo), i funerali (lo stesso).
“Alla campionatura del Magister sono complemento Plutarco e Svetonio. Licurgo, secondo Plutarco, “avviò la spartizione dei beni mobili, al fine di eliminare differenze e sperequazioni fra i cittadini, e intuendo che, presi di petto, non avrebbero consentito a farsi spogliare, li aggirò con un trucco”: sostituì l’oro e l’argento delle monete col ferro, e alle monete di ferro attribuì un valore così basso da renderne impossibile la custodia e il trasporto. Anticipò la repubblica di Weimar. Gli spartani reagirono anticipando i tedeschi, che del resto se ne proclameranno eredi: si arresero al governo. A Roma l’imperatore “ciocia” Caligola (caligula è l’anfibio, lo scarpone militare, anche se, derivando dalla nota caligo, ne subisce la polisemia, n.d.C.), quello che voleva distrutte le opere di Omero per il motivo che doveva essere consentito a lui quello che si consente a Platone, il quale come si sa bandisce Omero dalla Repubblica, e temendo per il suo regno l’oblio causa la prosperità fomentò sconfitte, incendi, stragi, pestilenze, carestie, innovò il fisco. Aprì bordelli di Stato, promiscui, e tassò i facchini, allora la classe operaia più numerosa, per l’ottava parte del reddito. La prescrizione facendo affiggere a caratteri microscopici in posti reconditi, per avere molti inadempienti da tassare ulteriormente. Si deve a Caligola la ricetta di dichiarare la carestia dopo avere chiuso i granai, nocciolo della trionfante Austerità. Mossa politicamente non sbagliata, se Bacone ha accertato che “ciò che abbatte lo spirito di un popolo è caricarlo di tasse”. Lo Stato italiano si rifà a Ippia, tassando “la proiezione sul suolo pubblico di balconi, tende e pensiline, anche se da ciò non deriva alcuna limitazione all’uso dello stesso”: tassa l’ombra.
“Sostiene Foucault che il sesso è il fondamento del potere, la testa del membro maschile. Non si ha più nulla da dare al popolo, lo sapeva già Rousseau, se non l’appello “date soldi”, che si dice “coi manifesti ai muri e gli sbirri nelle case”. Il Contratto sociale scade per questo di tono: “Datelo, il denaro, e presto ce l’avrete in quel posto”. Plutarco ricorda che gli ateniesi ci fu un periodo che “urbanizzavano” – avevano un presentimento della “società civile”? -, chiamando compagne le puttane, il carcere abitazione, gli sbirri custodi, e le tasse contributi. Anche i papi, altri maschilisti, mostreranno analoga fantasia: tassarono i tordi, la fojetta di vino, detta “studio”, e la farina. Il potere si vuole osceno”.

Le Finanze erano una Scienza
Qui ci vuole un preambolo. Sulla incompeteneza, se non è ignoranza, delle Finanze, oggi Entrate, che pure fino alla riforma Visentini, 1974, erano la parte migliore della burocrazia. Ora accavalla tasse su tasse e moltiplica le leggi e i regolamenti, a cadenza di poche settimane o mesi. Con lo scopo di allargare il prelievo riducendo l’evasione, mentre invece la incrementa - e forse in realtà per aumentare il proprio potere di concussione, anche se non lo sa: le Finanze si sono surrogate un potere imenso, e distruttivo. Non solo le tasse sono onerose, ma sono in Italia in corsa frenetica all’inefficienza. Con una velocità di ricambio (di calcolo, di modalità di pagamento) assurda – come se si volesse scoraggiare l’adempimento. 
Troppe vessazioni inducono l’evasione – questa cosa si è saputa per millenni, ma alle Entrate non l’hanno imparata. A parte il fatto che non sanno recuperare nemmeno il dovuto, denunciato, testimoniato, certificato. Una riforma il riformatorio dovrebbe prima di tutto fare delle Entrate. A cominciare dalla dirigenza, che si è riempita in questi anni allegri di Seconda Repubblica di portaborse di ministri e sottosgretari, digiuni della materia - si parla di centinaia di posizioni, forse un migliaio. 
C’era una volta una Scienza delle Finanze, ma si è perduta. Si può dire che il debito cresce per l’ignoranza della Scienza delle Finanze. Dei fondamentali di questa scienza, pure semplice. Che ha avuto in Italia cultori apprezzati, da Einaudi fino a Reviglio e Tremonti, ma è da tempo desueta. Insieme con tutta la Funzione Pubblica: fa parte della derelizione dello Stato in onore del mercato trionfante. L’esito è il disastro in materia imposto da Mario Monti.
Monti ha portato la tassazione a livelli record e insostenibili, nel mentre che tagliava le spese, nelle retribuzioni, nella formazione, nella sanità, e accresceva il debito. Perché lo ha fatto lo sanno tutti, anche se non si dice, per carità di patria, per Milano che egli rappresenta al sommo grado, e per Napolitano che ce lo ha imposto. Per un concentrato d’insipienza altrimenti impossibile da immaginare, se non per la protervia liberista. Uscirne non sarà facile ma è possibile.
Monti ha violentemente ridotto la spesa sanitaria, ha stroncato le spese per la scuola, specie per la secondaria e l’università (dell’università pubblica, ovviamente), bloccando il ricambio, e ha fermato la contrattazione e l’anzianità tra i dipendenti pubblici. Ha cresciuto l’imposizione fiscale di 3 punti percentuali, ufficialmente, il doppio di fatto e nel “percepito”, imponendo la deflazione che è causa e motore principale della recessione – un circolo vizioso. E ha aumentato il debito. Da 1.843 a 1.988 miliardi – e a 2.166 miliardi a fine gennaio.
Le tasse non colmano il debito ma lo aumentano. Sono risorse sottratte alla produzione, cioè al reddito, e quindi a una fiscalità rigorosa e produttiva. Le troppe tasse riducono e soffocano il meccanismo accumulativo produzione\occupazione\reddito. Per non parlare degli effetti indotti, ma sistemici. La supertassazione della casa di cui Monti si è fatto merito in Parlamento cambierà in una-due generazioni il panorama  millenario dell’Italia. Addio palazzi e ville, mantenuti tal quale per il rispetto della tradizione -meglio farne alberghi, uffici, condomini, e ampliarne le cubature. Addio seconde case, che per una buona metà sono le vecchie case di origine, di famiglia, di paese. E addio vecchi paesi. In molti Comuni il fenomeno è già avvertito, l’attesa è che si generalizzi: i tre italiani su quattro che sono emigrati, di prima o seconda generazione, abbandonano la casa paterna. Dispossessandosi il più delle volte, col rifiuto dell’eredità e in altre forme, poiché delle case vecchie nei paesi non c’è mercato: lasciando gli immobili al deperimento. Si perderà con la casa anche il senso delle origini? È inevitabile. Ma con l’urgenza di liberarsi della casa il processo si affretta, in un tempo non lungo. E senza la patina del tempo, in una forma violenta di sradicamento. Delle radici che sono state finora la forza dell’Italia, anche nella modernità: crescere in un luogo proprio, con la piazza e la fontana, magari con le najadi, e far valere la tradizione. Il pensiero dei tecnocrati è sempre corto, da apprendisti stregoni.
Il fenomeno del disavanzo incomprimibile con la tassazione non è solo italiano, ed è noto. Lo hanno spiegato una dozzina d’anni fa Vito Tanzi, italiano d’America, allora al Fondo Monetario internazionale, vice-ministro di Tremonti all’Economia, e Ludger Schuknecht, ora consigliere principe del ministro tedesco delle Finanze Schaüble, nello studio “La spesa pubblica nel XXmo secolo”. I due studioso documentavano che la crescita abnorme del debito pubblico nei paesi industriali nell’ultimo terzo del secolo non nasceva da un allargamento del welfare, del sistema di protezione sociale, che non ne beneficiava, se non in misura irrisoria. A un certo punto il debito si autoriproduce, senza alcun effetto virtuoso o produttivo. Tanzi e Schuknecht prospettavano una riduzione necessaria del debito per effetto della globalizzazione, della competizione con sistemi produttivi a basso o nullo impatto del debito. La  crisi successiva, da cui l’Europa dopo otto anni stenta a riprendersi, ha peggiorato le simulazioni dei due economisti.

Che fare
Usava tra i letterati e artisti indebitarsi. Fino a D’Annunzio era quasi una regola. Poi tutto è cambiato, e anche l’artista si vuole regolarizzato, in pace col fisco e gli amici. In economia il debito è durato più a lungo. Rabelais ne fa l’elogio ai capp. III e IV del “Terzo Libro”: Panurgo, a cui Pantagruele rimprovera di avergli mangiato il grano, fa l’elogio dell’indebitamento – di cui il creditore dovrebbe andare orgoglioso  giacché è il suo pane. E tuttora ci sono economie che prosperano col debito: il Giappone è un caso, e anche gli Usa. Ma per tutti gli altri, si può dire, il debito è un fardello. Ridurlo è una necessità, e molti sistemi, più o meno risolutivi, sono stati escogitati.
L’Italia non ne discute, ma è il primo indiziato di un necessario consolidamento. Con misure straordinarie. Il Belgio ci è riuscito negli anni 1990 con una manovra complessa di taglia di spesa e aumenti pro tempore delle tasse – della fiscalità indiretta sui consumi, non delle patrimoniali. I tagli di spesa sono poco produttivi in Italia: 23 anni di attivo primario, a partire dal fatale 1992, dalla crisi della lira, di un comparto pubblico cioè in attivo al netto degli interessi sul debito, non hanno compresso il totale de debito stesso ma l’hanno aumentato. Per alcuni anni, attorno alla metà del ventennio, e in corrispondenza con l’avvio dell’euro, il debito si è contratto, ma poi è tornato a macinare nuovi record negativi. E oggi, malgrado i fortissimi aumenti della fiscalità dei governi Monti e Letta, macina nuovi record negativi.
Prestito irredimibile. Bisogna intervenire sullo stock del debito. Si è riscoperto il debito irredimibile ed è una buona cosa. Si è riscoperto in inglese, come “a perpetuità”, e giusto perché Londra ha deciso di rimborsare il vecchio debito del 1914, ma non importa. Il debito che sta passando nella titolarità della Banca d’Italia è un ottimo candidato all’irredimibilità. Ma molti privati ne sarebbero sicuramente attratti. Con un attivo primario stabile da ormai un quarto di secolo, l’Italia è in condizione di pagare uno spread aggiuntivo sugli interessi di mercato. Necessario è ridurre, nello schema di Maastricht, lo stock del debito. L’Italia ne ha una buona esperienza.
Patrimoniale. Non è da escludere. “Siamo contrari a qualsiasi ipotesi di imposta patrimoniale, diretta e indiretta, per l’abbattimento del debito”, è il punto principale, in grassetto, del programma del partito di Corrado Passera, Italia Unica. Dopo che Passera, con le imposte patrimoniali ordinarie e anzi a vita ha distrutto mezza Italia – la quale lo ha subito affondato, con Monti. E invece una patrimoniale straordinaria gli italiani volentieri la pagherebbero – l’oro alla patria.  Per abbattere il debito. Sarebbe l’analogo del prestito forzoso.
Privatizzazioni. Servono ma non risolvono. Il gran parlare che se ne fa è, al coperto dell’ideologia, o delle voci interessate, di acquirenti-gestori per un lucro, banche d’affari e affaristi individuali, non è decisivo. L’effetto è stato, nelle privatizzazioni di Draghi e Ciampi, minimo. Una buona gestione del patrimonio pubblico, anche abitativo, inciderebbe di più, molto – come i dividendi incassati annualmente da Eni, Enel, Poste, e gli altri pochi soggetti rimasti in mano pubblica.
Eurobond. Gli eurobond non sono tramontati, e potrebbero trovare - passata la crisi, col rischio di doversi sobbarcare il debito altrui – un interesse convergente in paesi europei oggi contrari. L’Italia ne ha esperienza. Fu italiano il primo consolidamento moderno del debito, subito dopo l’unità, a opera di Antonio Scialoja, ministro delle Finanze. Il 2 maggio 1866, in reazione alla caduta delle quotazioni dei titoli del debito pubblico italiano alla Borsa di Parigi, per una delle tante crisi commerciali, Scialoja proclamò il “corso forzoso”, ossia la temporanea inconvertibilità. Al contempo il ministro obbligava la Banca Nazionale, antenata della Banca d’Italia, a fornire al Tesoro un mutuo di 250 milioni – l’odierno acquisto Bce a sostegno del corso del debito. E subito dopo emise un prestito redimibile forzoso, a carico delle banche. Che non ci rimisero, e anzi ci guadagnarono.
Mutualizzare una quota del pil. Marcello Minenna propone di sopravanzare subito il rischio eurobond, di mutualizzazione del debito, mutualizzando invece subito il pil. Non tutto, un 30 per cento. Questo è quanto basta per decurtare il debito italiano a misura sostenibile, dal 120-130 per cento del pil, cioè, al 90-100 per cento – “la nota soglia critica”, dice lo specialista nel calcolo del rischio, “oltre la quale è difficile ipotizzare con le regole attuali dell’Eurosistema (incluso il fiscal compact) che il debito possa avviare un naturale percorso di riduzione”. Questo sarebbe di interesse anche della Germania, che vedrebbe “mutualizzato gran parte del proprio debito, perché più un paese è virtuoso e più debito mutualizza”, in percentuale.
Ma la manovra è d’ingegneria complessa, troppo per le pletoriche e deboli istituzioni europee . Meglio, dal punto di vista decisionale, le manovre complesse, anche se ognuna di esse non decisive.
Prestito forzoso. Se ne sono fatti in passato per le più varie emergenze. La guerra. La ricostruzione. La ricostruzione locale. Il prestito forzoso è odioso. E tuttavia è meglio che un aumento costante delle tasse: è meno ingiusto e più democratico di un’imposizione fiscale elevata, che a ogni manovra, cioè a ogni bilancio, si aumenta.
Cassa per l’Ammortamento. La più azzardata, e la meglio riuscita fu il consolidamento del francese nel 1926 – su cui la curiosità si potrà esercitare a:
Meno drammatica ma molto produttiva fu la manovra italiana per rientrare dal debito contratto con la Grande Guerra. Mussolini aveva adottato una Cassa per l’Ammortamento del Debito Pubblico interno dello Stato – dopo avere beneficiato dell’abbuono del debito estero contratto in guerra dall’Italia con Stati uniti e Gran Bretagna – un anno prima di Poincaré. Con effetti anch’essi risolutivi. Nel 1918 l’Italia più che la Germania sembrava predestinata al fallimento. Nel 1914 il debito pubblico era il 75 per cento del pil, nel 1918 il 150 per cento. Un primo tentativo di ammortamento del debito, nel 1920, con una patrimoniale fortemente progressiva, fallì: il gettito fu esiguo. Le cose si trascinarono fino al fascismo, e al correlato miglioramento della fiducia degli ambienti internazionali, specie di quelli finanziari. Mussolini, col suo ministro De Stefani, ricavò molto più della patrimoniale con la riduzione della spesa, e il contenimento delle tasse. Nel 1926 De Stefani poté vantare un debito pubblico al 50 per cento del pil. Ma sapeva che ciò era l’effetto soprattutto del condono del debito estero da parte degli Stati Uniti e della Gran Bretagna. Da qui il progetto di una Cassa d’Ammortamento, che il nuovo ministro del Tesoro Volpi realizzerà un anno dopo. Abbastanza per riportare la lira nel gold standard, con la famosa Quota Novanta (92 lire, esattamente, per una sterlina).
 “Una Cassa d’ammortamento è, insegna Jean-Baptiste Say, al cap. 30, “Sui prestiti pubblici”, del suo  “Catechismo d’economia politica”, “un mezzo per sostenere il credito del governo”. Domanda: “Che cos’è una cassa d’ammortamento?” Risposta: “Quando si mette un’imposta per pagare gli interessi di un prestito, la si mette un po’ più alta di quanto è necessario per pagare questi interessi, e l’eccedente è confidato a una cassa speciale che si chiama cassa d’ammortamento, la quale lo utilizza per riacquistare ogni anno, ai corsi di mercato, una parte delle rendite pagate dallo Stato.
I ratei delle rendite riscattati dalla cassa d’ammortamento sono quindi versati in questa cassa, che li impiega, così come la quota di imposte che le viene attribuita a questo scopo, per il riacquisto di una nuova quantità delle rendite”.
“Say non amava il debito pubblico: “Un governo che vende delle rendite per appropriarsene il prezzo vende in realtà il reddito dei cittadini”. Non molti anni prima del suo “Catechismo”, nel 1776, una Cassa d’ammortamento era stata creata, col favore di Turgot, a fronte di un debito pubblico che all’improvviso apparve colossale, con lo scopo di rassicurare i sottoscrittori. Malgrado la Cassa, la Francia finì nella Rivoluzione. E la Rivoluzione, che si può anche dire provocata dall’instabilità finanziaria, finì negli assignats, cioè nella cancellazione della moneta”.
Spa del debito. Nel 2005 l’ex ministro delle Finanze Guarino ha proposto il consolidamento sotto una forma diversa di cassa d’ammortamento: una società per azioni, alla quale conferire i tanti attivi non esigibili dello Stato. Una società privata, fuori cioè dello Stato. In grado di produrre utili, e di raccogliere quindi un conveniente numero di sottoscrittori privati. Questo grazie al conferimento di un patrimonio che Guarino stimava in 450 miliardi, pari al 35 per cento del debito (di allora). Forse addirittura in 600 miliardi, pari al 45 per cento del debito, che così sarebbe sceso sotto la soglia virtuosa del 60 per cento del pil.
Era una stima prudente: il patrimonio pubblico, dello Stato e degli enti locali, si valuta in 1.800 miliardi. Togliendo dal computo i beni artistici, e quelli locali, difficilmente mobilitabili, l’Agenzia del Demanio calcolava all’epoca che beni per 450 miliardi si potevano agevolmente mettere sul mercato: partecipazioni, quotate e non, immobili, crediti.
Il debito sarebbe stato abbattuto a mano a mano che le quote di Debito Spa venivano vendute agli investitori. Per un controvalore appunto di 450-600 miliardi.
Il professor Guarino era un ex democristiano, senza più autorità, per di più ministro dell’infausto governo Amato nel 1992, e la sua proposta non ebbe fortuna. Lui stesso ridusse l’attivo ipotetico della Debito Spa a 60 miliardi, e poi non ne fece nulla. Inoltre, Guarino prevedeva che fossero le banche e le grandi imprese italiane ad avviare il successo di Debito Spa nel mercato, prendendone una quota di almeno il 10 per cento, e oggi le banche non sono in condizione di farlo, né le grandi imprese totalmente private, Fiat, Telecom, Pirelli, Autostrade, eccetera. 
La pratica, da Guarino passata al governo Prodi, fu affossata perché “economicamente priva di senso”. Ma il professor Messori, consulente di Prodi a palazzo Chigi, riteneva che in forma specializzata e non aggregata, con una serie di holding e non una sola, il progetto potesse riuscire. Lo stesso Prodi peraltro riteneva essenziale la riduzione dello stock del debito. Successivamente alla proposta Guarino da lui bocciata, Il Mulino bolognese, un think tank  nel quale il Professore aveva molto peso, redasse “Debito pubblico”, una pubblicazione a cura del professor Musu, che è assolutoria e anzi incitatoria. No, categorica: “Il risanamento finanziario connesso a un processo di riduzione del debito pubblico può essere paragonato alla produzione di un bene pubblico, di un bene cioè del quale tutti i cittadini possono godere simultaneamente e in modo non reciprocamente esclusivo”.
Swap col patrimonio. È una proposta avanzata dal “Corriere della sera” il 18 gennaio, per bocca di Marco Mazzuccheli, managing director della Julius Bär, la banca privata svizzera. Togliere dal mercato la parte di debito di cui il patrimonio che si va ad alienare è il collaterale – anche se figurato e non giuridico. In passato si è venduto il patrimonio pubblico senza cancellare il debito corrispondente. Nella competizione internazionale, argomenta Mazzucchelli, “partiamo penalizzati di 30 punti a causa del debito pubblico, il cui servizio costa quasi il 5 per cento del Pil. Ma proprio qui sta la chiave”. E il momento è anche favorevole: La chiave è “tagliare il ramo secco… ridurre il debito di almeno il 40 per cento!”. Con “uno swap tra debito e patrimonio dello Stato”. Sostituendo “una quota dei titoli dello Stato con certificati di una società nella quale sono messe le proprietà pubbliche: patrimonio immobiliare, demanio, municipalizzate, controllate. Una società da gestire con una logica privata. Una Treuhand (l’agenzia che privatizzò il patrimonio della Germania Est negli Anni Novanta) che si estingue in dieci anni, dopo avere venduto tutto”. La proposta Guarino-Cassa d’ammortamento con una procedura teoricamente più applicabile. Anche perché appetibile al “mercato”.
La ricetta Belgio, o del circolo virtuoso. Analoga per molti aspetti all’esperienza italiana, quella del Belgio si differenzia all’ultimo stadio: ha riuscito il consolidamento. A partire dal 1993, quando il debito salì al 137,8 per cento del pil, come l’Italia allora e ora, con un servizio del debito all’8 per cento dello stesso pil, come ora l’Italia, il paese si è imposto un avanzo primario di bilancio. Come l’Italia. Un plafonamento della spesa pubblica. Come l’Italia. Un patto di stabilità con gli enti locali. Come l’Italia. Un aumento del prelievo fiscale fino al 45 per cento. Come l’Italia. Ma tutto questo ha fatto per un decennio fino al 2002. Mentre l’Italia va avanti con la stessa ricetta da oltre vent’anni, e senza esito. Dov’è la differenza? Nel 2001 il governo belga vara un piano quinquennale di rientro del debito, al 90 per cento del pil. E ci riesce. Un piano quinquennale non fantasmagorico: vendita dei beni pubblici, compreso l’oro, in parte, della Banca centrale belga, rimborso anticipato di parte del debito, allungamento delle scadenze del debito in essere. L’esito è stato l’azzeramento dello spread, minori costi del debito, minore debito – il circolo virtuoso. 

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