La storia di Catalina de Erauso,
l’alfiere donna del primo Seicento in Spagna, che lei stessa aveva scritto,
raccontata da De Quincey. Attratto dalla inverosimiglianza del fatto vero, a petto della credulità che spesso si presta ai romanzi. Per un estratto molto dequinceyano. Le memorie di Catalina, “Kate”, pubblicate da Sellerio
venticinque anni fa, “Storia della monaca alfiere scritta da lei medesima”, sono apocrife. Ma per ciò stesso ottimo pretesto alle digressioni. Catalina uccide
al buio il suo proprio fratello, che l’ha salvata senza sapere che è sua
sorella? Soccorre l’esegesi del “Vecchio marinaio”, all’insaputa di Coleridge
naturalmente. E quanto bene non fa, per quattro pagine, un bicchierino di brandy, anche se i medici lo sconsigliano - compreso il dottor Darwin, il nonno - per “questa superstizione della sobrietà”? Alla fine la morale della storia, del vero inverosimile, e viceversa, viene graziosamente spiegata.
Una summa dell’arte di raccontare,
stravagante e ovvia, del “tenue oppiofago erudito” di Borges – con una
traduzione, firmata Giuditta Vulpius, straordinariamente all’altezza: sembra De
Quincey in italiano, altrettanto svelto, divagante e naturale. L’originale,
peraltro, vi si prestava: “Sono cariche di
elettricità per le vicende contenute”, annotò de Quincey delle brevi memorie:
“Ma anche, per il modo stesso di raccontare le vicende, sono di una scarna
asciuttezza”. Qui aggiungendo: “Catalina non appartiene a una categoria di
persone per le quali io nutra un particolare interesse, ma sono sempre stato
attratto dall’energia e dall’indomabile coraggio”, delle “anime sognanti e
sensibili che si ribellano all’ingiustizia e all’inadeguatezza di questo
mondo”.
Una vicenda solo
apparentemente scabrosa. Al papa Catalina si confermerà, in tarda età, “pura
come un bambino”. E non era una monaca. Era stata cresciuta in
convento perché il nobile padre non voleva una figlia, ma ne evase a quindici
anni, per divenire l’uomo che il padre vagheggiava, d’arme e d’imprese. La sua
è la storia di una bambina rifiutata, che si fa la sua vita, tra gli uomini
come allora usava. Senza scandalo – l’Inquisizione era sempre occhiuta, e i
gesuiti.
Evasa dal convento nel
1607, a quindici anni, cucendosi un abito maschile con la tonaca di novizia, s’imbarca
per le Americhe, col nome di Francisco de Loyola. La sua nave naufraga, dopo la
lunga circumnavigazione del capo Horn, in prossimità della meta, il porto
peruviano di Paiva, lei sola si salva. Uccide un gentiluomo che la insulta, e
per evitare la forca rischia di venire sposata a una gentildonna, parente del
morto, che se ne è invaghita - l’equivocò si ripeterà, con una bellissima giovanissima creola. Scappa. Arruolata incognita dal fratello, è
subito promossa alfiere sul campo. Scappa di nuovo, dopo l’assassinio non
voluto del fratello. Rischia di morire sui ghiacci delle Ande, usw.
In Cile si arruola col nome di Alonso Diaz Ramirez e ritorna in guerra.
Ferita, temendo la morte, confessa di essere donna. Ristabilita, diserta. Il
vescovo di Guamanga a cui si rivolge per aiuto le consiglia di entrare
temporaneamente in convento, ma la vicenda ormai è nota, diffusa anche in
Europa. Soggetto di racconti scritti e
anche di commedie. Da qui in poi è storia. L’arcivescovo vicereale di Lima è richiesto di occuparsene nel 1620. Quattro
anni più tardi Catalina viene imbarcata per la Spagna. Un anno e mezzo dopo, il
29 giugno 1626, è ricevuta a Roma dal papa Urbano VIII, che la autorizza a
vivere liberamente da uomo, e a indossare
abiti maschili. Ma resta soggetto di curiosità. Più pittori ne fanno il
ritratto, tra essi nel 1630 Francisco Pacheco, il suocero di Velazquez. Nel
1645, a 53 anni, parte di nuove per le America, per il Messico. Dove vivrà
facendo la mulattiera a Veracruz. Morirà cinque anni dopo.
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