sabato 21 marzo 2015

Letture - 208

letterautore

Autofiction - Lunga ondata di autonarrazioni all’insegna dell’irrilevante: l’osannato Missiroli della sua educazione sentimentale, l’altrettanto osannato Carrère della sua conversione religiosa, “Il Regno”, e Francesco Piccolo, con i “Momenti di trascurabile infelicità”, a ruota dei “Momenti di trascurabile felicità”, dopo l’apprendistato politico di “Il desiderio di essere come tutti”, e la riproposta di “Storie di primogeniti e figli unici”, con una nuova presentazione autofittiva  - il racconto dell’autore che non è ancora autore sarà il suo migliore, “l’espressione più sincera e incantata del suo talento”. Al suo modo garbato, accattivante, m sempre irrilevante.
Era una tecnica di scuola, ora è una sfida. “Il Regno” si fa forte di “tre anni di esperienza religiosa” per convitarci a storielle le storie della moglie, la madrina e alcuni degli amici di Carrère, un buddista, uno psicoanalista, una baby-sitter, nonché delle sue letture, con una scorribanda storica sui vecchi e i nuovi testamenti che secondo l’editore ricorda “Brian di Nazareth dei Monty Python”. Ma: a proposito di moglie, è ancora la stessa? E la madre famosa, a quando?
Non più una produzione applicata, da artigiani coscienziosi - ammesso che “Il giovane Holden” o “Franny e Zooey” di scuola fossero autofiction - ma un’irrisione: vi buttiamo in faccia il nostro niente.

Si fanno anche letture in pubblico di diari, informa Elena Stancanelli su “Repubblica”. Non diari pubblici, quali sono i blog come questo, ma privati, privatissimi. Anzi, proprio i diari dell’adolescenza, dei turbamenti. Non più rivissuti, come i racconti di formazione, il genere che Goethe ha impostato felicemente col “Werther”. Si vogliono testimonianze dirette, di giovani al macello. Mgari cresciuti, ma che si espongano con le viscere e le ossa. Il festival dei diari in pubblico si chiama My Teenage Anst. Un’esperienza ormai quadriennale che Elena Stancaneli sintetizza così: “L'adolescenza, come ogni tsunami ormonale, non fornisce nessuna spiegazione di se stessa e tantomeno indicazioni utili a qualcosa. Va solo superata e dimenticata come, sul lato opposto, la menopausa o andropausa che sia. La chiave di questo nuovo rito collettivo non è la conoscenza ma la vergogna. Brutalizzare la nostra dignità è una delle poche esperienze cognitive che conosciamo. Non solo siamo capaci di gesti imbarazzanti, ma li rivendichiamo. Ogni esemplarità è aborrita, e la figuraccia è diventata il nostro blasone. Secondo Zadie Smith una delle rivoluzioni dei nostri anni è la retrocessione della filosofia a una branca della linguistica. Che però porta con sé una contraddizione: «Come si fa a esistere nel mondo – scrive in «Cambiare idea» (minimum fax) – quando il mondo si è ridotto a linguaggio?». Profanandolo, probabilmente, ritrasformandolo in mondo, in corpo, attraverso l'umiliazione, trascinandolo nel fango. Leggendo ad alta voce, da adulti, di quando sei stato espulso perché attaccavi le caccole sotto il banco”. Un auto-macello.

Chiacchiera – È la forma preferita di socializzazione, a distanza. E la socializzazione è oggi dominante, in aspetto lieve e casuale, anche se l’epoca di crisi comporterebbe in principio pensieri gravi. Il 35 per cento del tempo speso in internet in Italia va su Facebook e i collegati What’s app e Instagram. Per un tempo totale di collegamento sulle reti social, soprattutto dai cellulari, di 77 miliardi di minuti l’anno, ritenuto elevato. In effetti lo è: 1.238 minuti per ogni italiano, 2.600 per ognuno dei trenta milioni, 28,9 milioni per l’esattezza, di “utenti italiani maggiorenni online, sia attraverso computer che attraverso dispositivi mobili”, monitorati da Audiweb total digital audience.
Il tempo aumenta notevolmente, benché non quantificato, scendendo sotto i diciotto anni, essendo la messaggistica What’s app la preferita dagli adolescenti.

Imitazione – È il procedimento creativo per Aristotele, dell’artista. Deludente, ma non senza ragione. Aristotele ne porta due. Si riconosce nell’“esattezza” dell’imitazione l’artista dotato da quello invasato. Si accetta nell’imitazione estetica, e anzi si apprezza, anche ciò che ripugna: “Ciò che ci procura disgusto alla vista possiamo invece guardarlo con piacere nelle immagini, quanto più siano rese con esattezza. Ad esempio la conformazione degli animali più ripugnanti e dei cadaveri”.

Fernanda Pivano – C’è un “pivanese”, la lingua di Fernanda Pivano, avallata da Cesare Pavese, che s’interpone a molta letteratura americana. A partire da “Addio alle armi”, il “Guerra e pace” di Hemingway, considerato, posato, filosofico, monumentale, volto sveltamente da Pivano – che per questa traduzione, peraltro, proibita dal fascismo e trovata dattiloscritta in una perquisizione alla Einaudi nel 1943, fu fermata dalla polizia fascista (fu fermata per “Addio alle armi” oppure, in un’altra versione per “Spoon River”, e interrogata da due ufficiali tedeschi, o tre…). Quasi in gergo, per ammiccamenti, come per uno scherzo tra amici. Come poi Kerouac e i beat – qui con qualche fondamento. Ma la pietra fondante è Edgar Lee Masters: la sua “Antologia di Spoon River” è un’altra in “pivanese” – versione poi non più ristampata.

Fine – È la parola chiave: ce n’è voglia. Più che la crisi, la parola dell’epoca è la fine. Anche all’interno dell’esperienza più “rivoluzionaria”, quella islamica. Dice bene Marina Terragni su “Io Donna” (dove ora si fregia di “membro della direzione nazionale Pd”): “Al netto della sua spettacolare autorappresentazione mediatica , occidentali, cristiani ed ebrei sacrificati come agnelli davanti all’obiettivo, il fenomeno Isis è prevalentemente un Muslims killing Muslims”. L’Occidente, o quello che è da qualche tempo, si è crogiolato a lungo con la fine della Storia. Poi con lo scontro di civiltà, intimamente dato perdente poiché senza voglia di combatterlo. Infine con l’ombelico, o i viaggi introno alla camera: autofiction minuta, banale. Da struzzo che non vuole vedere ma vuole essere veduto, poiché esibisce il posteriore grande.
Uno pensa (s’illude) sempre che la fine sia quella degli altri.

Primitivismo – La mostra di Matisse a Roma è montata con un percorso affascinante: a fronte di alcuni suoi dipinti vengono esposti i reperti delle arti cosiddette primitive che li ispirarono. Statuette, tessuti, decorazioni, manufatti di uso comune,  dell’Africa nera e del Nord Africa. Da Matisse specialmente apprezzati per le forme, e per i colori, specie i bianchi e i neri, per lui e per gli artisti europei una scoperta. E gli arabeschi turchi e islamici che tanto lo impressionarono della grande mostra (3.500 pezzi) a Monaco di Baviera nel 1911 – che presentava anche manufatti dell’Estremo Oriente non mussulmano, Cina e Giappone, egualmente ispiratori. L’accostamento produce un effetto bizzarro: la pittura – il colorismo – di Matisse sembra povero, come materiali e come resa, e anzi primitivo, a fronte dei manufatti ispiratori, anche pratici, di grande raffinatezza. La mostra allinea alcuni dei capolavori ammirati di Matisse, ottenuti in prestito da Mosca a New York, e tuttavia l’impressione è quasi di dilettantismo. Gioioso, giocoso, Matisse al cento per cento, ma al confronto quasi infantile, e non come poetica.  
È solo l’effetto della promozione dell’arte primitiva alla esposizione in ambiente raffinato – le Scuderie del Quirinale lo sono, questa mostra in modo particolare? Ma è dubbio che Matisse acquisterebbe in ipotetiche Scuderie del Quirinale africane, in un ambiente espositivo museale africano altrettanto curato. No, la differenza è d’impianto, artigianale e estetica.

Romanzo – “Non c’è più”, argomenta Scalfari (“L’amore, la sfida, il destino”) “perché non c’è niente di corale da raccontare e il romanzo è una forma corale di racconto”. Non c’è più è un dato di fatto. Ma non che non ci sia niente di corale da raccontare. Al contrario, oggi ne saremmo pieni, ma non si vuole che si racconti. Si dice: il mercato non gradisce. Ma il mercato non gradisce perché lo si indirizza altrove – il mercato è marcato, a vista, segnato, seguito, in ogni minima piega.

letterautore@antiit.eu

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