“Un povero diavolo”. Carl Schmitt non si
occupò molto di Machiavelli (che lui scrive con due cc) - proprio lui, che tanto ci teneva all’
“autonomia del politico”, ma il pregiudizio può essere forte. Schmitt è vittima
del pregiudizio antipapista dei protestanti, che per le potenze cattoliche
inventarono il neologismo “machiavellico”. Lui, papista e antiprotestante, ne
fa colpa allo stesso Machiavelli, in questa mezza dozzina di paginette, che
sono l’unica volta che se ne occupò – se ne occupò una seconda volta, in “Cattolicesimo
romano e forma politica”, ma per criticarlo con asprezza, anzi per deriderlo. Le
scrisse per i quattrocento anni della morte, ma giusto a recensione di
un’antologia machiavelliana del suo sodale, in diritto e in cattolicesimo,
Herman Hefele, e suo estimatore. Meravigliandosene: “Non un grande statista né
un grande teorico”. Uno che “passò gli ultimi 14 anni della sua vita in
campagna in una piccola casa sulla strada da Firenze a Roma. Con i proventi di un piccolo agricoltore pensionato, e nell’insieme
come un povero diavolo che tentava invano di rifarsi una carriera politica.
Questa è la situazione in cui entrambi i testi politici che ne hanno fatto la
reputazione sono nati”. Tutto qui.
Schmitt non vede in Machiavelli il
patriota, l’umanista, lo scienziato politico. Nemmeno il letterato quale ambiva
essere. Non gli concede “una teoria dello Stato”. Ne apprezza l’“onestà” e
spiega che l’autore del “Principe” non era machiavellico. Ma dice anche che non
è uno col quale sosterrebbe una discussione filosofica. Salvo poi,
“machiavellicamente”, farsi vittima dopo la guerra minimizzandosi, allo stesso
modo come aveva minimizzato il segretario fiorentino, al punto da chiamare San
Casciano il suo buen retiro a Plettenburg,
il paese dove era nato, dopo la denazificazione.
Anche “Il Principe” non è nulla. Non è
nemmeno immorale: “Questa «immoralità» non viene ostentata e non mostra pretese
di intervenire in campo morale bensì rimane sobria e modesta, e non ha nulla
del carattere entusiastico e profetico dell’immoralismo di Nietzsche”. Ma,
certo, Schmitt è di più. Giuseppe Cospito, che cura l’opuscolo, s’ingegna di
enucleare un “inatteso terreno d’incontro” tra Schmitt e Gramsci, per quanto
ignari l’uno dell’altro – forse perché Gramsci ha analizzato Machiavelli e
Schmitt no?.
Carl Schmitt, Macchiavelli, il melangolo, pp. 51 € 5
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