Paolo Spriano dirà di avere deciso di
andare in montagna per aver assistito
nella piazza di Brusson alla partenza di Primo Levi in catene. Ma l’esperienza
partigiana di Levi in valle d’Aosta era stata brevissima e casuale.
Irrilevante, se non per un brutto fatto: l’esecuzione di due giovanissimi compagni,
di diciotto e diciassette anni, “al modo sovietico”, colpiti cioè
all’improvviso alla schiena, senza un giudizio di condanna, per aver fatto delle
rapine, o magari avere solo millantato di averle fatte. Primo Levi non era in
nessun modo parte della vicenda, ma se ne sentirà anche lui responsabile.
Mentre testimonierà dopo la guerra, contro i fascisti infiltrati che avevano
sgominato la sua banda raccogliticcia, senza astio, e quasi con riconoscenza
per il trattamento avuto in carcere. Da dove era stato mandato, per essere
ebreo, al campo di Fossoli, con destinazione finale Auschwitz.
Una piccola storia, di alcuni episodi
della Resistenza tra la valle d’Aosta e il Canavese. Montata un po’ troppo
artificiosamente attorno a Primo Levi -
in questa veste edita negli Usa, col titolo “Primo Levi’s Resistance”, sottotitolo
“Rebels and Collaborators in Occupied Italy”, capitalizzando sulla caratura
dello scrittore, di cui solo le lettere italiane faticano a misurare il peso:
“Nessun altro sopravissuto di Auschwitz è stato letterariamente potente e storicamente
influente come Primo Levi”, esordisce il risvolto. L’analisi è fine del
“tradimento”, che a un certo punto della riedizione di “Se questo è un uomo”
sopraffà Primo Levi Di un tradimento senza traditori. Della cosa – partigiani
uccisi a tradimento da partigiani - nonché della Storia, e della natura stessa.
A Fossoli, alla traduzione per Auschwitz, l’alba in “Se questo è un uomo” coglie
i partenti “come un tradimento”. Ma nel quadro di un’intenibile revisione del
mito resistenziale.
Un seguito alla “Crisi dell’antifascismo”
dieci anni fa, ma meno convincente. Partendo curiosamente non da Claudio
Pavone, dal “saggio storico sulla moralità della Resistenza” che fu venticinque
anni fa “Una guerra civile”, ma dal “Sangue dei vinti” di Giampaolo Pansa, della
dissoluzione polemica delle convenienze, delle ritualità. Più produttivo sarebbe stato Pavese, 1949, “La casa in
collina”: “Ogni guerra è una guerra civile; ogni caduto somiglia a chi resta, e
gliene chiede ragione”. Ma è comunque un seguito non conclusivo. Una
storia di vocazioni opportunistiche – sfuggire alla leva, sfuggire alla
famiglia. Insofferenze e tradimenti di contadini e valligiani. Soprusi. Anche
di partigiani contro altri partigiani. Superficialità e inettitudine. Una forte
– più forte della stessa Resistenza – presenza repubblichina e collaborazionista.
Una giustizia postbellica sempre viziata (politicizzata): dapprima tutta
condanne, poi tutta riduzioni di pena, indulti, e l’amnistia. La corsa agli
onori e alle prebende. Vista nella scena chiusa della Valle d’Aosta con le pendici
casalesi e torinesi. Una ricostruzione dei fatti forse più vera, ma non vera
nel senso politico e quindi storico.
Una microstoria, e quasi una curiosità.
Prolissa, ripetitiva. Benché all’ombra di Jonathan Franzen. E con la scaletta
teatrale dei “personaggi principali”. La revisione è faticosa?
Lo storico pone anche problemi che non
risolve. Chi e cosa è una spia? Chi e cosa un partigiano – che vuole chiamare partigia,
come usa in Piemonte, spiega sulla traccia della poesia dallo stesso titolo scritta
e pubblicata da Levi nel 1981, per uomo di mano. Perdendosi in risposta nel vezzo
polemico, tra le semplificazioni speculari dei valligiani tutti resistenti in petto in blocco, e quelle dei
partigiani eroici e leali al 100 per cento.
La tentazione, dirà alla fine, è stata
di trasporre “Se non ora, quando?”, l’unico romanzo di Primo Levi, tardo, del
1981, l’anno dei versi che intitolò “Partigia”, le avventure dei partigiani
ebrei in fuga dai lager con l’Armata Rossa, nella valle d’Aosta, “pagina dopo
pagina, non facendo altro che aprire e chiudere virgolette: i dialoghi del
romanzo come sottotitoli con i quali accompagnare le scene del film che abbiamo
guardato fino adesso, l’ebreo minacciato, la sua renitenza alla resistenza, i
primi partigiani mezzo picari mezzo banditi, il pericolo dell’anarchia e il
metodo sovietico, la necessità di far torto o la rassegnazione a patirlo, la
fame di giustizia e la sete di vendetta, i criminali di guerra e i capri
espiatori”. Ma riconoscendo che è “assurdo”.
Primo Levi non ci teneva. Ne scrisse un
racconto fantaeroico sul “Ponte” di Piero Calamandrei, il cultore del mito
della Resistenza, nel 1949, “Fine del Marinese”, ma poi non lo riprese nelle
sue raccolte. Nei memoriali e le testimonianze della deportazione, ora in “Cosa
fu Auschwitz”, è riduttivo, quasi sprezzante, della sua propria esperienza di partigiano
– un errore di stampa, o di dattiloscritto, in una delle testimonianze di “Cosa
fu Auschwitz” la riduce a tre giorni… Luzzatto documenta che la militanza fu
casuale e superficiale. E questo è tutto. I tre mesi di vita alla macchia di Primo
Levi prima dell’arresto in realtà li trascorse da sfollato con la madre e la
sorella in pensione nell’alta val d’Aosta. Partecipando anche a un matrimonio,
in qualità di testimone.
Due particolari si possono aggiungere di cui Luzzatto non tiene contro. Che Primo Levi fini a Fossoli per essersi dichiarato ebreo, pensando che non fosse un delitto, rispetto a essere partigiano - un particolare tragicomico ripetuto da Levi nelle interviste. Delle esecuzioni sommarie di ladri o presunti tali, di due fratelli, un racconto feroce era in Meneghello, “I piccoli maestri”, 1976.
Sergio Luzzatto, Partigia, Oscar, pp. 371 € 10
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