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venerdì 13 marzo 2015

Secondi pensieri - 209

zeulig

Confessione – Erroneamente è assimilata all’analisi, se non  per la forma esteriore, in colloquio, col confessore muto. Al confessionale è conferma dell’afflizione e della pena, dall’ analista è virtualmente liberatoria. E in qualche modo risarcitiva, dell’errore e della sofferenza.
È in questa differenza probabilmente l’origine dell’impasse del ruolo sacerdotale nel suo insieme, e dell’istituzione confessionale nello specifico.

Dialogo – È di un’epoca di socievolezza. Era in antico, quando era ferace, ora è sterile:ora è di solitudini. Dialoghi in realtà di sé a se stesso, per non avere interlocutori altri. Ma anche qui è forma muta: scrivono dialoghi, filosofici e di altro genere, persone che non riescono a comunicare con se stesse..

Dio – “Quando gli dei non c’erano più e Cristo non ancora, tra Cicerone e Marco Aurelio, c’è stato un momento unico in cui è esistito l’uomo, solo”. È riflessione di Flaubert in una lettera. Di cui Marguerite Yourcenar ha fatto tesoro, dice nei taccuini di lavorazione dell’opera, per le Memorie di Adriano”. C’è uno stato di minore urgenza della divinità, in varie epoche, probabilmente nei momento di crescita, sicurezza, ascesa, sociale (familiare, tribale, nazionale) e\o personale.
La citazione è in realtà di M.Yourcenar. Nessuno si preoccupa di sapere dove e come Flaubert ne ha parlato. Ne ha scritto a una Mme Roger des Genettes, Edmée o Edma Letellier, moglie di Roger des Genettes, esattore, una signora di cui aveva grande stima. In data non accertata, che dovrebbe comunque essere un giorno del 1861, quando era nelle doglie di “Salammbô”, il romanzo da cui si aspettava la gloria. Nel lettera Flaubert dice almeno due cose importanti. Una è sul romanzo: l’idea del romanzo deve venire “di getto”.  L’altra è su Lucrezio, a cui la citazione di Yourcenar si riferisce. Che Flaubert compara a Byron: “Avete ragione, bisogna parlare con rispetto di Lucrezio; non gli vedo di paragonabile altri che Byron, e Byron non ha la sua gravità, né la sincerità della sua tristezza”.
La solitudine di cui Yourcenar si faceva forza è per Flaubert la condizione della malinconia. Dopo Byron, così prosegue: “La malinconia antica mi sembra più profonda di quella dei moderni, che sottintendono tutti più o meno l’immortalità al di là del buco nero. Ma, per gli antichi, questo buco nero era l’infinito stesso; i loro sogni si disegnano e passano su un fondo d’ebano immutabile. Niente grida, niente convulsioni, nient’altro che la fissità d’uno sguardo pensieroso. Gli dei non essendoci più, e il Cristo non ancora, c’è stato, da Cicerone a Marco Aurelio, un momento unico in cui c’è stato l’uomo solo”. Flaubert dice quello che Yourcenar cita ma con un’inflessione negativa: “Non trovo in nessun posto quella grandezza, ma ciò che rende Lucrezio intollerabile è la sua fisica, che egli dà come positiva. È perché non ha dubitato abbastanza che è debole; ha voluto spiegare, concludere!”

Fenomenologia - “Cominciamo a sospettare che l’approccio puramente analitico ai fenomeni ci sta portando solo più e più in là nel’abisso della disintegrazione e della casualità”. Dorothy Sayers, filosofa per passione, fa tuttavia (“The mind of the maker”) una considerazione fenomenologica sulla fenomenologia stessa che manca. Fino a dove arriva la destrutturazione,  prima di trasformarsi in un’ideologia della crisi?

Follia – È di moda nella psichiatria  come liberazione. E in letteratura come creatività – col surrealismo, e con Sade redivivo, Peter Brook, le droghe, molto rock: se ne fa uso come di sorgente di verità e virtù. Mentre è la costrizione della mente, forzata all’isolamento e all’iterazione. Non si possono dire uno spazio ristretto (ricovero, accadimento) e una costrizione mentale, fisica, fisiologica un’apertura. Se non in un universo di per sé più concentrazionario e monotono, ripetitivo.

Inedito – Se non si legge non è detto (scritto). La lettura (condivisione) è coessenziale al testo.  L’espressione è comunicazione. L’inespresso, ancorché scritto, è non esistente.

Ipocondria – È egoistica e brutale. Tale la dice Lucrezio nel “De rerum natura”. Trascorrere l’esistenza nell’ansia del trapasso è follia. Infliggere quest’ansia agli altri è egoistico e brutale. Sembrerebbe di no, essendo uno stato morboso. Una malattia, di cui quindi non è si è colpevoli. Ma non lo è per l’ipocondriaco, che in genere non ne soffre. È una specie di gabbia con gli aculei, con gli speroni: per far male più che per difendersi - poiché l’ipocondriaco non vuole difendersi.

Materia – S’intende qualcosa di reale, un composto fisico-chimico , anche nella sua struttura elementare. Come opposto all’immaterialità, informe e indefinibile perché non “reale” – spirituale, razionale, vitale sono approssimazioni. Che tuttavia è ben più reale (consistente), se non altro perché definisce la materia.

Non ha fatto progressi da Lucrezio, evoluzione compresa e selezione naturale. Anzi da Democrito. Duemilacinquecento anni di ricerca e la fisica della materia è sempre quella.

Riso – Cristo non ride. Probabilmente rideva, si evince dagli aneddoti della sua vita, ma gli evangelisti non lo fanno ridere, né la patristica, né la teologia, da sant’Agostino a san Tommaso. Non si ride del resto nella Bibbia, cui i vangeli si conformano. E questo è un limite, poiché il riso esiste.

Scrivere - Non è nulla in sé, non è un atto produttivo: è come parlare, le parole scritte non sono meno volatili di quelle dette. Si “scrive”, si è “scritto”, quando si viene letti, quando si è stabilito un contatto con altra memoria. Lo scrittore è altrimenti un conversatore – brillante, incontenibile, noioso, fluviale, che sia. Per quanto amabile possa essere. E poi c’è il famoso Didimo di Alessandria. Uno che ha scritto 3.500 opere senza lasciare nulla. Forse pseudonimo – o eponimo, per dire dell’inesistenza della scrittura in sé:  Didimo avrebbe “scritto” un’opera al giorno per dieci anni, oppure una ogni tre giorni per trent’anni, una ogni sei per sessant’anni, e nulla ne è rimasto. A parte il soprannome, “Calcentero”, stomaco di ferro – di bronzo a essere precisi.

Storia – Prende sempre più piede nella narrazione, anche al di fuori del “romanzo storico” – la metanarrativa. Nel senso di dessous della narrativa. E nel senso di Lyotard, specie ora che altre letture (media, rete) sono disinformative: della storia come verità, o “tutto” di una certa cosa, su basi razionali. A uso del potere, ma anche della giustizia, della conoscenza, della saggezza.

La narrazione per la narrazione che U. Eco ha popolarizzato (“Il nome”, “Il pendolo”), e di cui il postmoderno generazionale (Baricco e le scuole di scrittura – le “nuove leve”) si è appropriato, di una storia che non è storia, una geografia che è nessun luogo, nomi che non sono persone, neanche per approssimazione, è un gioco gratuito che non lascia memoria, e può anche dispiacere nel suo stesso srotolarsi come meccanismo, dopo la prima sorpresa.

Le storie nella storia aggiungono e non spiegano. Non fanno da contrappeso, a un’inferenza, a un parere, a un detto o regesto  Né operano algebricamente – un positivo, per esempio, dalla somma di due negativi. Aggiungono indeterminatezza a indeterminatezza.
Sono dunque inutili? Non più del procedimento narrativo classico, della storia con un impianto, un principio, un filo e una fine.

Tradizione – Vive in quanto pregnante – nuovamente, sempre. Si fa valere come un ritorno al passato, una forma del buon ricordo. E in una sorta d’immutabilità. Mentre è solo viva in quanto muove e commuove oggi, rinnovata, come estratto o rilettura. In forme e con sensi che la rivitalizzino e la impregnino.
Non c’è la tradizione, naturalmente, nel mentre che si fa. È una resurrezione, anche se non di un cadavere: di una morte apparente.

zeulig@antiit.eu

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