Confessione –
Erroneamente è assimilata all’analisi, se non
per la forma esteriore, in colloquio, col confessore muto. Al
confessionale è conferma dell’afflizione e della pena, dall’ analista è
virtualmente liberatoria. E in qualche modo risarcitiva, dell’errore e della
sofferenza.
È in questa
differenza probabilmente l’origine dell’impasse
del ruolo sacerdotale nel suo insieme, e dell’istituzione confessionale
nello specifico.
Dialogo – È di
un’epoca di socievolezza. Era in antico, quando era ferace, ora è sterile:ora è
di solitudini. Dialoghi in realtà di sé a se stesso, per non avere
interlocutori altri. Ma anche qui è forma muta: scrivono dialoghi, filosofici e
di altro genere, persone che non riescono a comunicare con se stesse..
Dio – “Quando
gli dei non c’erano più e Cristo non ancora, tra Cicerone e Marco Aurelio, c’è
stato un momento unico in cui è esistito l’uomo, solo”. È riflessione di
Flaubert in una lettera. Di cui Marguerite Yourcenar ha fatto tesoro, dice nei taccuini
di lavorazione dell’opera, per le Memorie di Adriano”. C’è uno stato di minore
urgenza della divinità, in varie epoche, probabilmente nei momento di crescita,
sicurezza, ascesa, sociale (familiare, tribale, nazionale) e\o personale.
La citazione
è in realtà di M.Yourcenar. Nessuno si preoccupa di sapere dove e come Flaubert
ne ha parlato. Ne ha scritto a una Mme Roger des Genettes, Edmée o Edma
Letellier, moglie di Roger des Genettes, esattore, una signora di cui aveva
grande stima. In data non accertata, che dovrebbe comunque essere un giorno del
1861, quando era nelle doglie di “Salammbô”, il romanzo da cui si aspettava la
gloria. Nel lettera Flaubert dice almeno due cose importanti. Una è sul romanzo:
l’idea del romanzo deve venire “di getto”. L’altra è su Lucrezio, a cui la citazione di
Yourcenar si riferisce. Che Flaubert compara a Byron: “Avete ragione, bisogna
parlare con rispetto di Lucrezio; non gli vedo di paragonabile altri che Byron,
e Byron non ha la sua gravità, né la sincerità della sua tristezza”.
La
solitudine di cui Yourcenar si faceva forza è per Flaubert la condizione della
malinconia. Dopo Byron, così prosegue: “La malinconia antica mi sembra più
profonda di quella dei moderni, che sottintendono tutti più o meno l’immortalità
al di là del buco nero. Ma, per gli
antichi, questo buco nero era l’infinito stesso; i loro sogni si disegnano e
passano su un fondo d’ebano immutabile. Niente grida, niente convulsioni, nient’altro
che la fissità d’uno sguardo pensieroso. Gli dei non essendoci più, e il Cristo
non ancora, c’è stato, da Cicerone a Marco Aurelio, un momento unico in cui c’è
stato l’uomo solo”. Flaubert dice quello che Yourcenar cita ma con un’inflessione
negativa: “Non trovo in nessun posto quella grandezza, ma ciò che rende Lucrezio
intollerabile è la sua fisica, che egli dà come positiva. È perché non ha
dubitato abbastanza che è debole; ha voluto spiegare, concludere!”
Fenomenologia - “Cominciamo
a sospettare che l’approccio puramente analitico ai fenomeni ci sta portando
solo più e più in là nel’abisso della disintegrazione e della casualità”.
Dorothy Sayers, filosofa per passione, fa tuttavia (“The mind of the maker”)
una considerazione fenomenologica sulla fenomenologia stessa che manca. Fino a
dove arriva la destrutturazione, prima
di trasformarsi in un’ideologia della crisi?
Follia – È di moda
nella psichiatria come liberazione. E in
letteratura come creatività – col surrealismo, e con Sade redivivo, Peter Brook,
le droghe, molto rock: se ne fa uso come di sorgente di verità e virtù. Mentre
è la costrizione della mente, forzata all’isolamento e all’iterazione. Non si possono
dire uno spazio ristretto (ricovero, accadimento) e una costrizione mentale, fisica,
fisiologica un’apertura. Se non in un universo di per sé più concentrazionario
e monotono, ripetitivo.
Inedito – Se non si
legge non è detto (scritto). La lettura (condivisione) è coessenziale al
testo. L’espressione è comunicazione. L’inespresso,
ancorché scritto, è non esistente.
Ipocondria – È egoistica e brutale. Tale la dice Lucrezio
nel “De rerum natura”. Trascorrere l’esistenza nell’ansia del trapasso è
follia. Infliggere quest’ansia agli altri è egoistico e brutale. Sembrerebbe di
no, essendo uno stato morboso. Una malattia, di cui quindi non è si è
colpevoli. Ma non lo è per l’ipocondriaco, che in genere non ne soffre. È una
specie di gabbia con gli aculei, con gli speroni: per far male più che per
difendersi - poiché l’ipocondriaco non vuole difendersi.
Materia –
S’intende qualcosa di reale, un composto fisico-chimico , anche nella sua
struttura elementare. Come opposto all’immaterialità, informe e indefinibile
perché non “reale” – spirituale, razionale, vitale sono approssimazioni. Che tuttavia
è ben più reale (consistente), se non altro perché definisce la materia.
Non ha fatto
progressi da Lucrezio, evoluzione compresa e selezione naturale. Anzi da
Democrito. Duemilacinquecento anni di ricerca e la fisica della materia è
sempre quella.
Riso – Cristo
non ride. Probabilmente rideva, si evince dagli aneddoti della sua vita, ma gli
evangelisti non lo fanno ridere, né la patristica, né la teologia, da sant’Agostino
a san Tommaso. Non si ride del resto nella Bibbia, cui i vangeli si conformano.
E questo è un limite, poiché il riso esiste.
Scrivere - Non è
nulla in sé, non è un atto produttivo: è come parlare, le parole scritte non
sono meno volatili di quelle dette. Si “scrive”, si è “scritto”, quando si
viene letti, quando si è stabilito un contatto con altra memoria. Lo scrittore
è altrimenti un conversatore – brillante, incontenibile, noioso, fluviale, che
sia. Per quanto amabile possa essere. E poi c’è il famoso Didimo di Alessandria.
Uno che ha scritto 3.500 opere senza lasciare nulla. Forse pseudonimo – o eponimo,
per dire dell’inesistenza della scrittura in sé: Didimo avrebbe “scritto” un’opera al giorno
per dieci anni, oppure una ogni tre giorni per trent’anni, una ogni sei per sessant’anni,
e nulla ne è rimasto. A parte il soprannome, “Calcentero”, stomaco di ferro –
di bronzo a essere precisi.
Storia – Prende sempre più piede nella narrazione,
anche al di fuori del “romanzo storico” – la metanarrativa. Nel senso di dessous della narrativa. E nel senso di
Lyotard, specie ora che altre letture (media, rete) sono disinformative: della
storia come verità, o “tutto” di una certa cosa, su basi razionali. A uso del
potere, ma anche della giustizia, della conoscenza, della saggezza.
La
narrazione per la narrazione che U. Eco ha popolarizzato (“Il nome”, “Il
pendolo”), e di cui il postmoderno generazionale (Baricco e le scuole di
scrittura – le “nuove leve”) si è appropriato, di una storia che non è storia,
una geografia che è nessun luogo, nomi che non sono persone, neanche per
approssimazione, è un gioco gratuito che non lascia memoria, e può anche
dispiacere nel suo stesso srotolarsi come meccanismo, dopo la prima sorpresa.
Le
storie nella storia aggiungono e non spiegano. Non fanno da contrappeso, a
un’inferenza, a un parere, a un detto o regesto
Né operano algebricamente – un positivo, per esempio, dalla somma di due
negativi. Aggiungono indeterminatezza a indeterminatezza.
Sono
dunque inutili? Non più del procedimento narrativo classico, della storia con
un impianto, un principio, un filo e una fine.
Tradizione – Vive in
quanto pregnante – nuovamente, sempre. Si fa valere come un ritorno al passato,
una forma del buon ricordo. E in una sorta d’immutabilità. Mentre è solo viva
in quanto muove e commuove oggi, rinnovata, come estratto o rilettura. In forme
e con sensi che la rivitalizzino e la impregnino.
Non c’è la
tradizione, naturalmente, nel mentre che si fa. È una resurrezione, anche se
non di un cadavere: di una morte apparente.
zeulig@antiit.eu
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