martedì 24 marzo 2015

Secondi pensieri - 211

zeulig

Ariani – Sono la cattiva coscienza della filologia. Dell’Europa anche, di una certa Europa, ma della sua filologia. La filosofia , compreso l’ “antropologo” Kant per molti aspetti sollazzevole, se ne tenne lontana – lontana dagli “aria”.
Una cattiva coscienza anche duratura. Basata sulle affinità linguistiche tra popoli geograficamente sparsi. Che si vollero unificare nell’indo-europeo, “popolo di signori”. Una radice e un popolo – una “razza” - che non si trovano. Per evitare le comuni radici semitiche e mediorientali – mesopotamiche. Come solo onesti filologi isolati, quali Semeraro, e ora il protostorico Demoule (“Mais où sont passés les Indo-Européenes”?) osano contestare, e la negletta, semplicissima, incontestabile “Black Athena” di Martin Bernal.
L’ariano o indo-europeo (più spesso indo-germanico) s’impone con la “storia della Grecia”. La quale nasce nel 1840, quando la filologia critica interruppe il filone della storia provvidenziale e se ne fece giudice, libera quindi d’inventare l’“arianesimo”. Che l’università Georgia Augusta di Gottinga, appositamente creata, veniva elaborando da un secolo. Con l’ausilio di Oxford, con seguito di letterati e pensatori, gli stessi Coleridge e Carlyle, spinti dalla romantica riscossa contro la democrazia ugualitaria della Rivoluzione - a lungo fondò la latinità l’ambizione repubblicana di uguaglianza, la grecità la protezione dell’individuo. A un certo punto, dice il modello “ariano” della storia greca, dal Nord arrivano gli elleni, parlanti indo-europeo, e soggiogano la cultura egea.
Rinata dopo la disfatta nel ‘18 a centro meritorio della fisica, con la meccanica quantististica di Heisenberg, Pauli, von Neumann, Oppenheimer e Born, Gottinga è stata per due secoli la culla della storia eretta a scienza grazie all’invenzione della filologia. Con gli “ariani” e la Grecia fu tedesca pure Roma, la letteratura romanza, la storia, la chimica, la filosofia. Incluso il Giordano Bruno italiano, riportato in vita quattro volte nel solo Ottocento, da Adolf Wagner, Lagarde, Lasson, Kühlenbeck – dopo essere stato salvato ai posteri dai re di Francia e d’Inghilterra.

Nel 1770 Blumenthal aveva imposto la prima graduatoria delle razze, inventando il caucasico. Winckelmann la Grecia delle statue patinate quale ideale di bellezza. Tra il 1820 e il 1840 Karl Otfried Müller, il filologo di Gottinga, dà significato culturale e politico alla storia “antica moderna”, con la scoperta dei dori. Era la filologia dei primati – di Ariano vero c’è solo il santo a Venezia, all’isola dei Morti.

Complotto - Quando Kotzebue fu ucciso da Carl Sand i governi della Sant’Alleanza ne approfittarono per liberarsi degli ultimi liberali, anche se ne erano stati aiutati nelle guerre contro Napoleone e la Francia. Lo scrittore Kotzebue, benché antiromantico, antinapoleonico e antirivoluzionario, non era una spia. Lo studente Sand invece, benché liberale, era un fanatico. Non bisogna esagerare coi progetti della storia.

Diario - È ordine: disciplina la memoria, riscontra il modo di essere. Ma in solitudine. Non in dialogo cioè, in conversazione, poiché prevalentemente e parlare di se a se stessi. Anche nel mondo iperconnesso, è un piccolo esercizio di esibizionismo, immune alla critica.

Esilio – Quello “autentico”, o radicale, è da se stessi. Anche se non si è emigrati, cioè, non fisicamente. Non da un paese all’altro, e quindi da una lingua a un’altra. E nemmeno come emigrati dell’interno, quindi fruitori della stessa lingua, tra Nord e Sud, tra campagna e città.
La nozione di esilio implica un punto di origine, un radicamento - la patria, la regione, la città, una natura, un clima, un linguaggio. E la mentalità, il portamento, gli usi alimentari, la festa, il riposo, il ritmo di lavoro. .
È in subordine, in potenza, un ritorno: una possibilità di ritorno, sia pure in forma di esorcismo, per diminuire la violenza del distacco quando si è deciso comunque di recidere il cordone ombelicale.
Si può rifiutare il legame, o trascurarlo, o dimenticarlo, ma allora si è esiliati dall’esilio: si interrompe il legame pur tenue che l’esilio comporta. Inclusa l’esperienza di emigrato interno – dove anzi più facile è il distacco e il rifiuto, per esempio dei meridionali che sono leghisti antimeridionali.

Lingua – È il cordone ombelicale dell’esistenza. Si vede nell’esistenza travagliata dell’emigrazione, interna ed esterna. Il dialetto in chi emigra da capo a capo dello stesso paese, e la diversità di toni, cadenze, pronuncia – chiusa o aperta, sonora o afona, etc. – e le parole stese, a volte intraducibili, nell’uso della lingua nazionale.  La lingua d’origine per i transfrontalieri, anche nelle forme private e privatissime dell’uso familiare. La telefonia cellulare ha irrobustito il legame, gli ha dato sfogo: si vede nelle peggiori condizioni, anche nell’indigenza,  la possibilità di usare la parola di origine viene prima di ogni altra esigenza, di un rifugio, di un pasto. “La parole riportano tutto” dell’origine: il luogo, la gente, la vita, le strade, la luce, il cielo, i fiori, i rumori”, nota la scrittrice Jhumpa Lahiri (“In altre parole”, p. 97), avendo deciso di lasciare la sua lingua, l’inglese, per l’italiano, e le innumerevoli pieghe del significato. È un fatto d’identità, naturalmente, e anche di ossigenazione:  “Quando si vive senza la propria lingua ci si sente senza peso e, allo stesso tempo, sovraccarichi. Si respira un diverso tipo di aria, a una diversa altitudine”.
È la lingua che fa la differenza, più che la fisionomia, il normotipo. La mentalità vi si esprime, la memoria, e la propria ragione di vita, anche se con un movimento riflesso, retrogrado, invece che proiettato su un programma e un futuro.

Gli studiosi dell’emigrazione ci arrivano per esempio Andreina De Clementi, che si rifanno alla corrispondenza, allora non esistevano i telefonini, per quanto sintetica, lenta, spaziatissima, e sgrammaticata, ripetitiva, rituale per lo più, più spesso per interposto scrivano, di grafia e formule fatte,di giovani e non giovani figli e coniugi del secondo Ottocento e primo Novecento.

I sogni non hanno voce. La lingua non si dice ma è nota, tutto scorre significativamente. La lingua è un patrimonio acquisito e condiviso, di significati, la certificazione vocale non è necessaria.

zeulgi@antiit.eu

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