La
scomparsa della mafia in Sicilia
L’unico libro di mafia che manca,
fra i tanti in classifica, è proprio quello che le scalerebbe tutte, sulla
Procura di Palermo. Sul perché da venti e più anni, dopo Falcone e Borsellino,
non processa più mafiosi ma: la Polizia (Contrada) e i Carabinieri (Mori, De
Donno e altri). Cioè l’apparato repressivo, con la sua rete di informatori e
confidenti che così smantella. E lo Stato, da Andreotti a Napolitano, passando
per Mannino, Schifani, Romano, Dell’Utri, e alcuni presidenti di Regione – usa
molto il concorso esterno in associazione mafiosa senza gi associati. Sulle carriere
politiche che vi si sono innestate, con determinazione, senza mai uno scrupolo:
di Violente per l’ex Pci (il Procuratore Capo si chiamava Caselli, ma era
Violante), di Grasso e Ingroia, e ora di Gratteri per il Pd “bianco”. Sulla
grande bonaccia di mafia, a Palermo e in Sicilia.
La scomparsa - meglio: sparizione
- della mafia, bel soggetto sarebbe. Non fosse appunto per i carabinieri, i
poliziotti e i ministri. Ma non senza rimedio: si potrebbe argomentare che la mafia è lo Stato - come fa
Montalbano, eroe solo. La politica cioè, e l’apparato repressivo. Solo che: la
Procura di Palermo è anch’essa Stato, o che cosa? - a questo Camilleri non c’è arrivato.
La
processione e la fede sterile
Il lavoro fisico “costituisce un
contatto specifico con la bellezza del creato”, è opinione costante di Simone
Weil. Perciò il
“popolo” ha accesso diretto a Dio, per una fede connaturata nell’esistenza –
nella natura, nelle cose. “All’epoca in cui esisteva una civiltà popolare – di
cui noi oggi raccogliamo con il nome di folklore le briciole come fossero pezzi
da museo – il popolo aveva senza dubbio accesso a questo tesoro”, scrive la filosofa in “Attesa
di Dio”.
All’epoca in cui le processioni
non erano anatemizzate, per andare su facebook e fare l’antimafia? “Lo attesta anche la
mitologia”, prosegue Simone
Weil la
filosofa, “parente prossima del folklore, se ne analizziamo la poesia”. Cioè,
direbbe l’anatema, le superstizioni.
Bisogna sterilizzare la
religione, la fede.
Vedi
Milano e poi muori
Federico II di Svevia, il “vento
di Soave” , cioè di Svevia, del “Convivio” di Dante, non fu più lui dopo la
guerra ai lombardi.
Federico II ebbe vita facile in
Lombardia, contro i lombardi alleati del papa. A Cortenuova, Bergamo, il 27-28 novembre 1237,
li sconfisse agevolmente. La Lombardia lo snobbava e l’ha cancellato. Carlo
Cattaneo, nelle “Note”
sula Lombardia, menziona svagato una battaglia di Casarate, località
inesistente, nel 1239, contro “Federico II e i suoi arabi”. Ma agli arabi, a loro gran
sorpresa,
i lombardi avevano ceduto senza combattere il
Carroccio. E
all’imperatore i milanesi avevano offerto un patto di fedeltà perpetua.
Si favoleggiò allora di una
armata di settemila cavalieri arabi d Lucera al seguito di Federico II, e di
duemila tedeschi, cavalieri teutonici o famigli dei principi del sacro romano impero. I
duemila tedeschi
c’erano – un po’
di meno ma c’erano:
l’imperatore era di passaggio al ritorno dalla Germania E c’erano i moltissimi veneti (padovani,trevigiani, trentini, vicentini e veronesi) forniti da Ezzelino III da Padova, i ghibellini di
Cremona e Pavia, e di Modena, Parma e Reggio, e le truppe toscane di Gaboardo di Arnstein. Ma i settemila
arabi non saranno stati 700, o 70? C’erano settemila
arabi, bambini e donne compresi, a Lucera nel 1237? E
settemila cavalieri, come
immaginarli? Ma molto nemico molto onore.
È vero invece che Federico II,
dopo queste scorribande, mostrò tatti nevrotici e tirannici prima a lui sconosciuti.
Amare
la bellezza
Simone Weil, “Forme dell’amore
implicito di Dio”: “La tendenza naturale dell’anima di amare la bellezza è la
trappola più frequente di cui si serve Dio per aprirla al soffio che viene
dall’alto. È la trappola in cui cadde Core. Al profumo dei narcisi sorridevano
tutta la terra, la volta del cielo e il turgido mare. Appena la povera ragazza
tese la mano, fu presa al laccio. Era caduta nelle mani del Dio vivente. Quando
ne uscì, aveva mangiato il chicco della melagrana che la legava per sempre. Non
era più vergine; era la sposa di Dio”.
“Amare la bellezza”. Bova ancora
festeggia Core, la ragazza, di nome Persefone. La domenica delle Palme, con le
“persefoni”: una processione di grandi figure femminili di rami d’ulivo
intrecciati, su telai di canne, punteggiate di fiori, e dei gialli e rossi
degli agrumi – Bova, ricca di ulivi come tutta la Calabria, nutre agrumi
portentosi. Core-Persefone è peraltro presente tutto l’anno: un comitato cittadino
a Locri prepara la petizione, che una delegazione porterà biennalmente a
Berlino, dove non viene ricevuta, per chiedere la restituzione della grande
statua che è l’attrazione dell’Altes Museum, il museo antiquario della capitale
tedesca, e ripristinare l’antico luogo di culto. Una statua gigante, di grande
interesse anche per la simbologia, la mitologia, la linguistica. Fu tagliata a
pezzi e trafugata dalla località La Moschetta (mesquita) nel 1911 da trafficanti tedeschi. Che poi la vendettero
allo Stato Prussiano a caro prezzo. Legalmente, si dice, allora si potevano
“esportare” i beni culturali, seppure non a pezzi e di nascosto. Ma in
contanti: il museo non ha alcuna pezza giustificativa dell’acquisto.
Corrado Alvaro racconta il
trafugamento in “Mastrangelina”.
La
mafia arriva col Piemonte
L’esercizio non usa più, ma
furono molte e fantasiose ai tempi di Sciascia le scorribande di mafia.
Dell’origine della parola. Metà erano nell’arabo. Che nessuno conosceva, ma la
Sicilia già allora teneva molto al dominio arabo. Gli arabisti, interpellati, non seppero proporre niente di
meglio
che Mu Afah, forza e protezione, Maha, cava di pietra, Ma Afir, la stirpe saracena che prese
Palermo, e Mahias, presuntuoso. Sciascia virò allora sulla Spagna, dicendo che Manzoni, leggendo “Don Chisciotte” in spagnolo e annotando su un quaderno i termini ancora vivi nel
dialetto milanese,
trascrisse anche “mafia”. Ma, forse, Sciascia insinuava che la mafia
era milanese, poiché nel
“Chisciotte” non si trova, e il quaderno nemmeno. Da ultimo Sciascia la trovò a
Firenze nel Cinquecento, con la doppia alla fiorentina, sinonimo di “povertà,
miseria”, nelle “Lettere di cortigiane del secolo XVI”. Ma nelle “Lettere” non c’è. C’è invece, con
la doppia, come voce gergale, e nel significato di miseria, nel Tommaseo – “mi dolgono i tommasei”, diceva
Manzoni degli importuni, anche non
riferito al facondo fedelissimo.
Nell’Ottocento mafia è in Piemonte: mafiun sta per “uomo piccino, gretto,
meschino”. Il “Nuovo dizionario siciliano-italiano” (1876-1881) del barone Vincenzo
Mortillaro la dice di origine piemontese, importata con l’unità, e l’apparenta a camorra. Qualche anno prima
del barone, nel 1868,
anche il Traina, nel suo dizionario siciliano-italiano, considerava “mafioso”
un neologismo postunitario, “per indicare azione, parola o altro di
chi vuole fare il
bravo” – il bravo alla Manzoni.
Di origine piemontese potrebbe
essere pure il termine cosca, dalle “bande di barabba”, o “coche”, che
proliferavano nel secondo Ottocento a Torino. Lo ricorda Gaetano Mosca, nel sempre
ottimo “Che cos’è la mafia”, 1900, in senso diminutivo - nulla al confronto con
la mafia siciliana: “La cosca mafiosa ha una saldezza di compagine, una forza
d’azione e soprattutto una vitalità infinitamente superiori a quella della
cosca barabbesca”.
leuzzi@antiit.eu
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