Riemergono
nella lenta (cinica) ricostruzione dello sceneggiato Sky le “irritualità” di
Mani Pulite. Cioè le vere e proprie illegalità, che il gip Italo Ghitti - “sono
un liberale”, ma in altro contesto si direbbe un compagno di merende - avallava
una per una senza mai un’eccezione. Due volte il giudice Ghitti non sanzionò il
carcere, per Zaffra e Dini, due socialisti lombardi, e ora si scopre che per
entrambi la cosa era stata contrattata da Craxi con Di Pietro (Claudio Martelli
al “Corriere della sera” sabato 4). L’illegalità principale fu di mettere in
carcere un migliaio di personaggi per alimentare lo scandalo: ognuno di essi
poteva lasciare il carcere a condizione di fare un nome, cioè di allargare l’inchiesta.
Una specie di catena di sant’Antonio dell’infamia. A volersi tenere larghi: il
metodo è quello mafioso dell’“avvertimento”.
Una
catena molto ambrosiana: la città conta anche, non solo i giudici – che peraltro
erano in gran parte napoletani. Rintracciando Stefano Cagliari, l’architetto
figlio di Gabriele Cagliari, “Panorama” ha ricostruito una vicenda che assomma
all’annientamento, tipico della persecuzione mafiosa, l’invidia sociale sotto
forma di sdegno. Il settimanale ricorda che davanti al palazzo Belgioioso,
quando si diffuse la notizia che Raul Gardini vi si era sparato, una folla si
era assemblata, malgrado l’afa di fine luglio, per ghignare contro il morto e
plaudire ai suoi persecutori. E questo è Manzoni, “La colonna infame”. Ma anche
in chiesa, ai funerali di Gabriele Cagliari, padre dell’architetto, i milanesi
si erano assemblati numerosi, malgrado l’afa asfissiante, per fischiare e rumoreggiare.
Gabriele
Cagliari, presidente dell’Eni, si è ucciso in carcere, dove il giudice De
Pasquale lo teneva rinchiuso da mesi senza ascoltarlo. Cagliari non aveva
imputazioni specifiche, ma era tenuto in carcere perché facesse il nome di
Craxi.
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