lunedì 27 aprile 2015

La fede cattolica sì, la chiesa no

“Non provo in alcun grado amore per la Chiesa propriamente detta”. Questa “autobiografia spirituale” confidata al padre Perrin, suo sostegno negli anni tristi dello sfollamento a Marsiglia, 1940-1942, è una serie di  fratture, ma tutte coerenti: lettere e riflessioni di straordinaria intensità, anche per uno spirito profano.
Simone Weil ha un senso preciso del religioso e della religione, e della sua aspirazione a “farsi cattolica”: Dio, Cristo e la fede sì, li ama “quanto può amarli “un essere così miserevolmente insufficiente”, i santi pure, “la liturgia, i canti, l’architettura, i riti, le cerimonie cattoliche”, anche “i sei o sette cattolici di autentica spiritualità che il caso mi ha fatto incontrare nel corso della vita”, la chiesa no. Della chiesa ha paura. “Non per la sua colpa”, non tanto, ma perché “essa è un fatto sociale”. Una comunità, che ingloba. Questo le fa paura. Non tanto per individualismo, quanto perché si sa “influenzabile”, con “una forte tendenza a essere gregaria”.
“Il cristianesimo” peraltro “è cattolico di diritto ma non di fatto. Tante cose ne sono fuori”. Soprattutto per l’uso del’anatema, della scomunica. Simone Weil lo integra, nel saggio formidabilmente denso che intitola “Forme dell’amore implicito di Dio”. Che propone una teologia oggi al centro del papato, di Ratzinger e di Bergoglio – anche se il credito non viene riconosciuto: “Distaccarsi dalla propria falsa divinità, negare se stessi, rinunciare ad immaginare di essere il centro del creato, riconoscere che tutti i punti del mondo sono altrettanti centri allo stesso titolo e che il vero centro sta fuori dal mondo, significa acconsentire al fatto che la necessità domina sulla materia e che la libera scelta sta al centro stesso di ogni anima. Questo consenso è amore. Questo amore, in quanto si rivolge alle persone pensanti è carità del prossimo, in quanto si rivolge alla materia è amore per l’ordine del creato, oppure – che è poi lo stesso – amore per la bellezza del creato”.
Con molti pilastri solidi piantati nell’antropologia e sociologia del religioso. Per un’etica e una filosofia pratica piene di verità. Su Amore, Bellezza, Piacere, Matrimonio, Assoluto, Poesia, Provvidenza, e sugli stessi misteri, Creazione, Incarnazione, Finalità, Necessità. La natura, la bellezza, la bellezza del creato. Una trattazione diversa “delle forme del potere”, dall’“Iliade”, il poema della forza, compresa al Cristo. Sulla misericordia divina. Sulla preghiera anche, dopo un primo rifiuto. Sulla compassione.
Interessante è il ritratto che della filosofa traccia il padre Perrin presentando la raccolta nel 1949.. Per l’esito deprimente dell’esperienza di operaia in fabbrica, che non la lascerà più: “La prova fu superiore alle sue forze: l’anima fu come schiacciata dalla coscienza della sventura ed ella ne rimase segnata per tuta a vita”. E per la poliedricità degli interessi e le enormi energie intellettuali, malgrado la prostrazione fisica, durante i due anni di sfollamento a Marsiglia. Malgrado lo sradicamento, elaborò e pubblicò numerosi e importanti saggi: “L’Iliade o il poema della forza”, “L’agonia di una civiltà”, “L’ispirazione occitanica”, Le “Intuizioni pre-cristiane”, su Platone e i pitagorici, e quelli confluiti in questa raccolta, “L’amore di Dio e il male”, e il fertilissimo “Forme dell’amore implicito di Dio”. Mentre come “letture predilette” aveva le “Memorie” del cardinale de Retz, e “I tragici” di Agrippa d’Aubigné.
L’”amore implicito di Dio” è la religione costituita: le chiese, l’intermediazione. La religione è senz’altro parte del sentimento religioso e va rispettata. Ma non tutte in egual modo: “La religione di Israele, per esempio, dev’essere stata un’intermediaria molto imperfetta, se si è potuto crocifiggere Cristo. La religione romana forse non meritava a nessun titolo il nome di religione”.
Singolare la confidenza di Simone al padre Perrin della tentazionne del suicidio a quattordici anni “a causa delle mie mediocri facoltà naturali”. Una delle incertezze dell’adolescenza, ma nel suo caso singolare, precisa: il confronto con “le doti straordinarie di mio fratello (il matematico André, n.d.r.), che ha avuto un’infanzia e una giovinezza paragonabili a quelle di Pascal”. Singolare anche la “conversione”: a Solesmes, celebre per i riti della Settimana Santa, nella Pasqua del 1938, l’arcangelo la visita in persona di “un giovane inglese cattolico”, che le fa conoscere i poeti inglesi detti metafisici e le fa scoprire l’amore, “Love” di George Hebert (“L’amore mi accolse… L’amore mi prese per mano… «Bisogna che tu sieda», disse l’Amore, «che tu gusti il mio cibo». Così mi sedetti e mangiai”).
Simone Weil, Attesa di Dio, Rusconi, remainders, pp. 181 € 6,46


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