Decostruzione – È dissoluzione. Può
essere un gioco mentale, come un gioco linguistico. Se è un canone teoretico è
la dissoluzione del linguaggio. Non per una diversa - decostruttiva –
ricomposizione. Una dissoluzione terminale, confinante col silenzio, magari
irridente – “beato” nel vocabolario di Derrida. Altrimenti ricompone comunque
un soggetto.
Eliminare la
volizione (coscienza, io, essere razionale, persona), è dissolvere le parole
come granelli di sabbia, e gli stessi concetti, compreso quello di
decostruzione. Fermo restando – ineliminabile contraddizione - il soggetto
dissolutore, la volontà costruttiva.
È a questo laccio
che Heidegger, filosofo rustico, granitico, calloso, di poche verità, celate ma
semplici, perfino brutali, prende la farfalleggiante fantafilosofia della salmodia,
della spirale esegetica.
Dio – Perché non sarebbe il “libero
arbitrio”? Lutero con Erasmo non se lo dicevano, pur disputandosene entrambi la
privativa, di Dio e del libero arbitrio. Ma poco prima Machiavelli vi faceva
appello, nel capitolo finale del “Principe”, o dell’Italia – della Fortuna
dell’Italia.
C’è un abisso tra
il libero arbitrio di Giovanni Pico, o ancora di Erasmo, e l’impossibile
fardello della libertà di Kierkegaard, sotto un cielo dissacrato dacché Dio s’è
ritirato dal mondo.
Il Lutero
epicureo dei “Discorsi a tavola” nega a Erasmo il libero arbitrio e poi dice:
“Perfino Dio non può nulla senza uomini saggi”. Ma lui allude a se stesso, i
profeti anzitutto profetizzano di sé.
Esempio – Non manca mai. Gli esempi non
mancano a nessuna tesi. È nella natura dell’esempio – che però non ha nessuna
verità più dell’assioma: di testimoniare. Anche la testimonianza non manca mai,
che non decide nulla. Se non in diritto. Sia pure la testimonianza del martire,
di chi sacrifica la sua vita, magari tra i tormenti – e se fosse un masochista?
Anche la storia: è
sempre esemplare e non lo è. Non è definitiva, nemmeno decisiva, se non come
ornamento o supplenza, una mascheratura.
Libero arbitrio - Discussero
Erasmo e Lutero, uomini pii, e altri a lungo, se la volontà è libera oppure no.
Ai quali Locke giustamente obietterà che “la domanda è illogica, giacché me la
pongo”. Boezio avrebbe detto che il libero arbitrio va col tempo, la
provvidenza con l’eternità – Boezio che la regina Elisabetta degli
elisabettiani leggeva trepida la notte e si tradusse in inglese. Ma la volontà
non è libera, la volontà di fare, bene ordinata. Per il peso della genetica, o
dell’astrologia, della storia, della prima gabbia dell’etica kantiana, sia pure
nella formulazione di Max Weber, dell’etica della responsabilità. E si fa
presto a dire: “Agisci in modo da trattare l’umanità, nella tua persona e in
ogni altra, sempre come fine e mai solo come un mezzo”. O: “Porgi l’altra guancia”.
Se l’altro non ha gli stessi fini della “Critica della ragione pura” bisogna
fare a pugni. O delinquere. Ecco, si è liberi di rompere.
È
l’anarchia. “Se la ragione potesse”, obietta Casanova, “dovrebbe piuttosto
uccidere il libero arbitrio”, invece di stare ad aspettare “di farselo col
tempo amico”
Profetismo – Funziona sempre perché non
costa. Non si paga. “Nella
sommossa ho ucciso tutti i contadini. Ma rovescio la responsabilità su Nostro
Signore che mi ha ordinato di parlare”, questo non è Rabelais o Simplicissimus,
né il diavolo, ma il monaco agostiniano Lutero. Che lo soleva dire, dieci
anni dopo aver inforcato come moglie legittima l’ex monaca cistercense
Katharina de Bora, nell’anno fausto 1525, lo stesso nel quale i suoi principi
trafissero in battaglia, e accecarono, afforcarono, decapitarono, bruciarono
vivi centomila contadini. Col rischio che la Germania restasse senza
patate.
È il pietismo superiore al
cicisbeismo, il dottor Lutero a Casanova? I predicatori sono grandi assassini,
che sobillano alla rivolta e poi incitano l’autorità a punire i ribelli.
Soggetto
- È indistruttibile.
Anche perché darsi le martellate da solo non può essere decisivo, si smette un
momento prima. Heidegger che sembra rimuoverlo radicalmente aveva i suoi motivi:
lui era per se stesso, un soggetto super – e per il Volk e la Heimat, un Dasein molto semplice. E comunque, che martellatore!
Non riciccia per la metafisica. È la
metafisica che vi si accuccia sotto, saprofita. Serva fedele o insidiosa?
Questo ancora il soggetto non se lo è chiarito. E non è questo saprofitismo
endorganico?
Uno\due – Resta introvabile. Era il presidente
Mao? O “Sils Maria”, la poesia di Nietzsche. O Socrate, che era un cinico,
beffardo. O Dante: “Ed eran due in uno e uno in due”. E l’aritmetica: le moltiplicazioni vanno a gruppi di
almeno due per uno, uno per uno fa uno.
L’Uno che si fa
Due, ora rituale, sé e il mondo, la regola e l’eccezione, lo stesso e
l’opposto, la dialettica povera dell’amato boia, il fratello Caino, il diavolo
santo, fu dissociazione penosa di Nietzsche. È principio alchemico: ciò che è
intero deve dividersi, per moltiplicare la vita – o è il contrario, che il due
deve farsi uno, la coincidenza degli opposti di Giordano Bruno? Nietzsche ne fu
perseguitato da ragazzo: è una voce, scrisse all’esordio, che “mi costringe a
parlare come se fossi Due”. È lo spirito profetico, magari è la coscienza – il soggetto
(il sé) è indistruttibile.
Urban-ità (-esimo) – È all’origine
del’accumulazione e dello sviluppo, economico e anche intellettuale. Per la rendita urbana, che è all’origine dell’accumulazione
capitalistica – la più cospicua, insieme alla fenerazione. E per lo scambio
sociale, che è anche competizione, il motore della competitività.
La
prima area ricca dell’Italia moderna, la Toscana, era già nel Duecento la più
urbanizzata. Aveva una popolazione di un milione di abitanti, di cui almeno un
terzo viveva in città – borghi con 5 mila e più abitanti. La peste di
Boccaccio, 1348, e quella del 1426 dimezzarono la popolazione, ma il decollo
era ormai effettuato. Ancora nel 1500Firenze, con 70 mila abitanti, era la
città più popolosa, più di Roma e di Napoli.
L’urbanità unifica. Nel senso proprio, della città. Che si fa
risalire, in questo senso, alla città di Haussmann, uniformemente borghese, e
cioè Secondo Impero francese. Ma la storia è nata prima della Francia, e della
città borghese. Già Quintiliano lamenta che la scelta delle parole, la loro
pronuncia, e i linguaggi fossero quelli derivati a cascata dai maggiorenti e le
persone colte, “tutto il contrario della rusticità”, che ancora si portava a
segno di autenticità – non detta, Quintiliano non si avventurava come Heidegger
in parole vuote di senso e di senno come l’autenticità.
Al tempo di Marx, senza scuole, senza giornali e senza altri mezzi
di comunicazione di massa, c’era una certa spontaneità popolare, comunque non
borghese, o piccolo borghese. Ora “il linguaggio «popolare» non è altro che il
linguaggio borghese imbastardito, generalizzato volgarizzato, imbalsamato in una
specie di «senso comune»”, scrive invece Barthes quarant’anni fa, “un
purgatorio”, che sarebbe “rivoluzionario” evitare.
L’urbanità era di città murate. Firenze fino al 1870, Milano fino
a metà Ottocento. Cioè chiuse in se stesse. La “liberazione” di Milano peraltro
era cominciata un secolo prima, a metà Settecento, quando le mura vennero trasformate
dal governatore Pallavicini in passeggiata pubblica, con panchine, alberi e
carrozzabili – più per esercitare il cicisbeismo, che ancora incanta Stendhal (“Roma,
Napoli, Firenze, 1817”) il 10 novembre 1816, che per prendere l’aria.
Le città che più a lungo sono rimaste murate, Milano e Firenze,
sono state le prime e più commerciali, affaristiche. La città murata è un fatto
(Napoli, Torino, Palermo non erano murate, e le città naturalmente protette, Genova, Venezia) e un concetto. Roma era, anzi è,
città murata ma senza esserlo. Per l’enorme estensione delle mura, un perimetro
di orgoglio più che di difesa. E per l’apertura costante, nei suoi quasi tre
millenni, all’immigrazione, anche quella ostile. Anche nei secoli bui di
povertà, comunque sempre meta e ricetto di pellegrini, religiosi, prostitute,
mendicanti.
zeulig@antiit.eu
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