Antropologia -
Ha
bisogno di categorie, di fissare il mondo, sezionando (definendo) e quindi escludendo.
U’esplorazione che chiude più che aprire. Come l’archeologia, che ricopre dopo
avere scoperto, per sostituirsi al ritrovamento – memoria, visione,
descrizione, ricostruzione, interpretazione.
Bellezza – “Una finalità
che non contiene alcun fine” di Kant è la sua bellezza. Ma anche il suo
criterio utilitaristico – la bellezza non è qui per nulla. Superiore, non
appropriabile, inattaccabile, e tuttavia insieme meta e percorso, “spintarelle”
comprese, anche se proibite e in teoria non necessarie. È bello in questo senso
anche il brutto: il buio del firmamento, l’opacità della materia, lo scheletro arcigno,
scomposto, che sottende l’immagine – la quale sempre in qualche modo si
ricompone, anche se triste o sfigurata.
Si cerca da un secolo nella decomposizione e il rifiuto. E
tuttavia sempre in forma di ricerca – attiva, aperta. La vera decadenza – il rifiuto
della bellezza – sarebbe l’inerzia, dei sensi e della mente, l’ottundimento, l’atonia.
La bellezza del mondo non è in esso, un attributo della materia: è un rapporto
tra la materia e la sensibilità umana, una
forma della conoscenza. Necessariamente esilarata, sia pure nella décheance (depressione, rifiuto).
Decostruzione – Va, senza
limiti, come in automatico, comoda scorciatoia. Rapida cioè ma rigida.
Ancillarmente all’ermeneutica, l’invenzione della tradizione. Ma per quali
contenuti di verità? Soprattutto quando pretende di uscire dal gioco
linguistico, di farne una metafisica. Una vivisezione da pelo nell’uovo.
È anche un procedimento sonnambulistico. Da riflesso condizionato.
Una meccanica. La riproduzione di una cultura cioè, di un certa forma di
lettura del reale, specie se linguistico – e anche di una forma mentis. Innovativa e quindi interessante, anche gratificante.
Ma riduttivo e quasi un gergo. Tribale, se non settaria.
Derrida ci arriva come adattamento alla sua formazione culturale –
linguistica, ermeneutica - della Destruktion
che Heidegger proponeva della metafisica.
Filosofia – Ruminazione,
rimasticazione, e che altro? Un campo vuoto in cui non succede niente la voleva
Althusser: “La filosofia è questo luogo teorico strano in cui non succede
propriamente niente, nient’altro che questa stessa ripetizione del niente”.
Onanismo? La positività del vuoto viene dall’orrore di sé, che in qualche
filosofio (Althusser, che la elabora in “Lenin et la philosophie”? osso duro)
ha più di una ragione d’essere. Ma a parte ciò?
Giustizia – “Il carattere
legale di un castigo non ha un vero significato se non gli conferisce qualcosa
di religioso, se non lo rende simile a un sacramento; di conseguenza tutte le
funzioni penali, da quella del giudice a quella del carnefice e del carceriere,
dovrebbero, in qualche modo , assimilarsi alla funzione sacerdotale”. Così Simone
Weil nelle seminali “Forme del’amore implicito di Dio”. Un giudizio che è
riscontabile all’inverso – nel diniego della giustizia in realtà – nell’applicazione
pratica delle leggi: la giustizia, intesa come sistema giudiziario non ha considerazione
per “il carattere legale del castigo”, come mostrano i suoi ministranti,
sacerdoti sempre di una chiesa (partito, pregiudizio). Tanto più se religiosamente
entusiasti più che opportunisti.
Machiavelli - Machiavelli non era
machiavellico. Altrimenti avrebbe scritto sermoni edificanti, vite di santi –
l’Aretino lo faceva, per infinocchiare il papa. Un Antimachiavelli è invece ottima
opera machiavellica.
Althusser,
che lunghe riflessioni gli ha dedicato, ci trova(va) il pensatore attivo: l’uomo
di pensiero che riempie il vuoto che è del pensiero con un programma e un
progetto – uno che riempie il vuoto. Il
prototipo del pensatore rivoluzionario. Cui accredita però anche un forte
consistenza filosofica: “Lascio da parte le implicazioni puramente filosofiche
della sorprendente teoria del gioco della Fortuna e della virtù (= incontro, materia\forma, corrispondenza\non corrispondenza”).
Storia – “La storia è
una scienza morale al di sopra di tutto, più o meno come la veduta di una casa
di appuntamenti, e quella di un patibolo pieno d sangue”, Flaubert
quattordicenne nei “Funerali del dottor Mathurin”. Una balconata e una scena.
Stupidità – Socrate la sanziona nel “Gorgia”
- con l’ignoranza. Senza alcuna ironia, nemmeno socratica.
Vanità -
È tema trascurato,
benché a lungo centrale con la vecchia “Vulgata”, attorno e dentro l’“Ecclesiaste”.
E sempre al minimo, la vanità di sentirsi importanti, di esibirsi. Mentre è un
aspetto non trascurabile della “cosa” – del mondo, della vita.
Volontà – “La volontà è una facoltà
della mente” ignota agli antichi, “scoperta da Paolo e studiata a fondo da
Agostino”: Hannah Aredt insiste ripetutamente su questa genealogia, nella sua
ricerca della morale introvabile (in “Alcune questioni di filosofia morale” e
altrove). È per questo, per questa derivazione, che la funzione è poco filosofica
– oggetto di riflessione? Non è progredita molto, approdando anzi alla
“volizione” del confuso Pound. E che dire di Kant, della “Fondazione della
metafisica dei costumi”? “La ragione
determina la volontà immancabilmente… La volontà è la facoltà di scegliere solo
ciò che la ragione … riconosce… come buono”. Dopo il celebrato attacco: “È
impossibile pensare nel mondo e, in genere, fuori di esso, una cosa che possa
dirsi buona senza limitazioni, salvo, unicamente, la volontà buona”.
La ragione determina la volontà, dunque. Anche
la volontà di potenza? Meglio ne esprime
la natura – i limiti – Simone Weil, nel seminale “Forme dell’amore implicito di
Dio”: “Il concetto di morale laica è un’assurdità perché la volontà è impotente
a produrre la salvezza. Ciò che si chiama morale, infatti, fa appello alla
società, e proprio a ciò che essa ha, per così dire, di più muscolare. La
relgione invece corrisponde al desiderio, ed è il desiderio che salva”.
Volontà di potenza - Tutto Nietzsche
Hannah Arendt rilegge in questa ottica (“Alcune questioni di filosofia morale”,
pp. 96 segg.), e san Francesco, e Gesù: “La filosofia d Nietzsche si basa tutta
su un’identificazione della volontà come volontà di potenza”. Tutta protesa,
tra i paradossi e le intempranze, all’affermazione della volontà. E in questo,
“nell’equazione tra volontà e volontà di potenza, la potenza non è affatto ciò
che la volontà desidera o vuole, non è la sua meta o il suo contenuto! Volontà
e potenza, volontà e sentimento di potenza sono la stessa cosa”. Ma di segno particolare:
“Questa potenza, la pura potenza dell’atto di volere in quanto tale, Nietzsche
la interpreta come un fenomeno di sovrabbondanza, come il segnale di una forza
che è maggiore di quella che ci vorrebbe per far fronte alle richieste della
vita quotidiana”. È creatività, e bontà: “Sarebbe proprio questa sovrabbondanza
di forza, questa stravagante generosità o «volontà munifica» che spingerebbe gli uomini a desiderare o amare
il bene. Il che coincide, del resto, con quanto sappiamo di quegli uomini che
hanno speso la loro vita nel «fare il bene», come Gesù di Nazareth o san
Francesco d’Assisi, che non brillavano certo per umiltà ma per una forza in
eccesso”.
zeulig@antiit.eu
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