Si parta da Roma per Milano, 600 km.: “Buon
viaggio”. Al più: “Quanto ci metti?”
Si parta da Roma per Reggio Calabria, 700 km.: “Ma
è lontano”. “Una sfacchinata”. “È pericoloso”. È terra incognita.
È vero che da Roma a Milano si può andare in
treno in tre ore – da Roma a Reggio invece in sette ore.
Ma da Roma a Reggio Calabria non c’è da fare la
Firenze-Bologna. Anche la Roma-Firenze non è male
A metà Settecento, sui 2.700 centri rurali del
Regno di Napoli, oltre 1.200 erano infeudati a Genovesi, banchieri e affaristi.
Inzaghi preferì fare la riserva
nel Parma piuttosto che andare in prestito al Napoli titolare, rischiando la
carriera – era agli inizi. Ora il Napoli lo condanna ad allenatore di seconda o
terza fascia. C’è una giustizia nello sport.
La
tragedia greca della mafia
Si legge con sgomento sul “Corriere della sera”
l’esumazione che del “suicidio” di Maria Teresa Cacciola fanno i giudici di
Palmi:
“Una tragedia greca” definisce quella morte il
pubblico ministro Giovanni Musarò agli “increduli parlamentari della Commissione
antimafia”.
La tragedia è che Maria Teresa Cacciola,
pentita di ‘ndrangheta, è tornata al paese, a Rosarno, per vedere i suoi figli,
e qui ha trovato la morte – per “suicidio”. Dov’è la tragedia?
Nello Stato che non ha preso i figli e glieli
ha portati nella residenza protetta da collaboratrice di giustizia. Non ci ha
pensato? Era difficile farlo? La patria potestà non era della mamma piuttosto
che dei nonni? Elementare.
Nello Stato che ne ascoltava le conversazioni
allarmate, con intercettazioni telefoniche e ambientali, sulle intenzioni della famiglia una volta che
lei fosse tornata a casa e non è intervenuto. Non è intervenuto per impegno
culturale, per lasciare che la tragedia si compisse? Ma la tragedia che si
compie è altra da quella che si scrive.
Non si possono nemmeno pensare i giudici di
Palmi occupati a farsi belli col clima tragico. Gli riuscirebbe meglio processando
lo Stato che espone i suoi collaboratori.
La verità è che allo Stato, giudici compresi,
non gliene fotte nulla delle vittime della mafia. Nemmeno della ‘ndrangheta –
giusto a Milano, per indorare l’Expo.
Alvaro a
Milano
“Mi accadde stranamente in una grande città del
Nord, di domandare dove si trovasse una certa strada, e di sentirmi dire: “Non
ho il tempo per rispondere””, ha lasciato scritto Corrado Alvaro nel 1952.
Questo è stato detto anche anche di recente, se ne può dare testimonianza personale
– la “grande città”, la “città industriosa” si sa qual è. E girandosi attorno,
allora come di recente, “tutti avevano l’aria di reggere la grande città
industriosa sulle spalle, e l’Italia, e la civiltà”. Ma l’avrebbero detto a un
tedesco? Alvaro avrebbe opinato per il no.
Alvaro ha scritto molto, di molte città e
paesi. Ma non di Milano, dove era editato, seppure senza glamour, e a lungo aveva scritto per il giornale locale. Non
ricorda naturalmente nulla di così sgarbato in nessun posto dei tanti nel mondo
dove è stato. Anzi, al primo ricordo un altro gli si accavalla: “Verso sera
ebbi bisogno di rivolgere una domanda simile a un altro passante che mi pareva
meno preoccupato di pensare…. E mi sentii rispondere: “Terrone, vattene al tuo paese””.
Di questo non possiamo dare testimonianza, avendo altra apparenza, grazie anche
a un accento acquisito che spesso a Milano propizia un ammirato “l’avevo
scambiata per un tedesco”. Ma non c’è motivo di metterlo in dubbio, dopo tutto
ciò che la Lega ha rivelato, a noi che sapevano tutto di Milano, anche i film
al cinema Pasquirolo.
Il
disprezzo è delle vittime
“Gli uomini credono di disprezzare il delitto:
in realtà disprezzano la debolezza della sventura”, annota Simone Weil
analizzando le “Forme dell’amore implicito di Dio”. Non i Riina ma gli Spatuzza
e i Brusca, i killer volenterosi e stupidi – ma anche i Riina. I ladri poveri.
I furbi incapaci.
E il viceversa è vero: non c’è mafia senza
onore (ricchezza, potere politico, astuzia, brutalità). Senza un marchio di
superiorità.
“Si deve eccettuare solo il caso di un delitto
che per una qualsiasi ragione abbia prestigio”, continua infatti la filosofa,
“(com’è il caso, spesso, dell’assassinio, poiché implica una momentanea potenza)
o che sia avvertito, da chi ci giudica, come una colpa irrilevante”. È il caso
delle stragi di Riina, contro gli altri mafiosi, contro i giudici, e contro gli
italiani inermi. E per converso, nel senso della disattenzione o dell’irrilevanza,
di tutto l’armamentario mafioso degli “avvertimenti”: minacce, bombe, soprusi,
spari intimidatori, incendi mirati (anti-assicurazioni), incidenti simulati.
Un terzo ingrediente si ricava dalla stessa pagina
delle “Forme del’amore implicito”: “Tutto è combinato fin nei più piccoli
particolari, fine nelle inflessioni di voce, per renderlo una cosa spregevole,
un rifiuto agli occhi di tutti e anche ai suoi. La brutalità, la
superficialità, i termini sprezzanti, i sarcasmi, il modo di rivolgergli la
parola, di ascoltarlo o di non ascoltarlo, tutto è ugualmente efficace”. Ma con
uno slittamento semantico: oggetto della disattenzione e del disprezzo non è il
(piccolo) delinquente ma la vittima di mafia.
Tutto è
‘ndrangheta
Non c’è più mafia (non c’è nemmeno camorra)
anche perché c’è la ‘ndrangheta. Ovunque – non proprio ovunque, mancano la Cina
e l’India, ma ne siamo sicuri? Carabinieri e Finanza – la Polizia si è defilata
– e i Procuratori palermitani e napoletani (non ce ne sono di altra origine?)
solo vedono ‘ndranghetisti. Ma sono i più o i meno pericolosi, nel senso del
quieto vivere? Dopo lo Stato, certo. Certo è che la ‘ndrangheta ha fatto piazza
pulita di ogni altra mafia, oltre ad avere occupato l’Italia dalle Alpi al
Lilibeo, l’Europa da Cadice a Vladivostok, e l’America, del Nord e del Sud.
Un problema però resta, un’utile esercitazione
vi si potrebbe svolgere. La ‘ndrangheta ha occupato, oltre che l’Italia tutta,
degli ottomila Comuni, anche la Francia, la Germania, la Spagna, l’Inghilterra,
il Belgio e l’Olanda, la Scandinavia, l’Est Europa, la Russia, gli Stati Uniti
d’America e l’America Latina tutta, col Nord Africa, e questo non è possibile.
Cioè: la ‘ndrangheta è familistica, no?, si fida solo dei legami di sangue. I
calabresi sono due milioni. Dai quali, togliendo gli anziani, i bambini, le
casalinghe, occupatissime a cucinare in continuazione, e gli scemi, diciamo che
solo un terzo, al più, è abile alla leva. Di questo terzo, la metà almeno non
sono attivi: hanno pensioni d’invalidità, e passeggiano per il paese.
Dall’altra metà bisogna togliere i preti, le beghine, i giudici, gli avvocati,
i molti giornalisti online, i pittori, i poeti, e gli operatori antimafia.
Restano 300 mila persone abili e arruolate? Sono di meno, ma siano pure 300
mila: poiché ogni clan familiare è in guerra con almeno un altro, la forza di
pronto intervento all’esterno si dimezza. Siamo quindi a 150 mila. Che sono un
bell’organico, ma siamo sicuri che siano tutti in grado di viaggiare? Medellìn,
Minsk non sono all’angolo di strada.
leuzzi@antiit.eu
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