Il metodo sommesso e giusto di
combattere la mafia. Che si è nel frattempo autosconfitta con le stragi, opera
di assassini dal cervello corto, i Riina, i Provenzano, confermando la quieta
saggezza di questo Falcone, come Marcelle Padovani ha saputo capirlo.
Una riedizione per più aspetti
commovente. Anche se drammatica, un atto di accusa più contro la giustizia che contro la mafia: il libro è alla rilettura una testimonianza a futura memoria. Non
che Falcone sapesse, ma era evangelicamente preparato. Sembra irreale oggi, che
lo si celebra come un santino, ma venticinque anni fa, nel lungo isolamento che
mise Falcone nel mirino di Riina, Marcelle Padovani fu l’unica sua áncora a
sinistra.
Di lui oggi si può dire senza esagerare che
ha portato alla sconfitta della mafia, che si voleva invincibile. Da vivo e da
morto. Con la modestia dei forti. “Faceva parte di quella categoria”, ricorda Padovani, “di servitori dello Stato che considera «normale» che il suo impegno
possa diventare sacrificio”. Ma c’è modo. Il giudice veniva deriso in lettere
minatorie dall’interno del palazzo di Giustizia (“il Corvo”), bocciato per ogni
carriera dai membri compromissori del Csm, Dc-Pci, a cominciare
dall’incomparable vicepresidente Galloni, denunciato ripetutamente come colluso
con la mafia in tv da Santoro e Leoluca Orlando. Marcelle Padovani sarà anche a
lungo la sola ad averlo capito, prima dell’imbalsamazione e la santificazione. È stato ucciso perché era solo, scrisse sul suo giornale,
il “Nouvel Observateur” dopo la strage - giusto il precetto da Falcone a lei
dettato.
Solo no, osteggiato con asprezza. Dai magistrati, le loro
associazioni sindacali, il Csm, e da una parte della politica, il Pci-Pds,
oltre che da Leoluca Orlando. Che si giustificavano con la terribile legge
pintacudiana del sospetto. Orlando fu terribile perfino in morte di
Falcone. Gli imputò ogni perversità. Benevolmente accolto da “l’Unità”, dalla
“Stampa” di Marcello Sorgi, e perfino dalla stampa tedesca – Orlando pretende
di essersi addottorato a Heidelberg. Uno che ha sempre preso i voti della mafia, in tutte le sue elezioni, talvolta
col 100 per cento della sezione – a sua insaputa naturalmente.
Falcone fu vittima della Superprocura
antimafia, che è il suo progetto più innovativo: l’unificazione delle indagini
sparse di mafia. Gli negarono per questo la Procura di Palermo, e poi la
Superprocura stessa. I giudici ci videro la possibilità di un raddoppio delle
carriere e gli fecero una guerra micidiale, per ridurre la Superprocura a un simulacro,quale è ora, un carrierificio. Spartendosene l’eredità, dopo
Capaci, in cento Procure antimafia circondariali, con cento Procuratori Capo,
e cento Vicari, a Palermo come a Belluno. Una tombola, il raddoppio delle
carriere: l’avidità dei giudici non conosce limiti.
Falcone sapeva
che un problema di autonomia si prospettava. Della Superprocura dice qui a Marcelle
Padovani: “Esiste indubbiamente il problema del suo assoggettamento al potere
politico”. Anche perché “un coordinamento fortemente centralizzato non può
essere totalmente separato dagli altri poteri dello Stato”. Ma non era questo
il problema dei suoi compagni e colleghi, era il posto.
Il seguito getta una luce
sinistra sulla perspicacia e la ragionevolezza di Falcone, tra gli stessi
ambienti che poi se ne sono fatti il santo protettore, giudici e media. Ancora
nel 2004, la sentenza della Cassazione sul fallito attentato all’Addaura, benché greve di allarmanti ipotesi, ottenne sui grandi giornali del 20
ottobre solo una breve. Una sentenza che diceva tutto ma per non dire quello
che tutti sapevanoe sanno: un “infame linciaggio” denunciando, messo in atto
contro Falcone per “delegittimarlo”, proveniente anche da “ambienti
istituzionali”, nonché da “imprudenti” e “autorevoli personaggi pubblici”, che
hanno consentito ai “molteplici nemici del giudice d’inventare la tesi
dell’attentato simulato”. M senza fare i nomi. E senza dire che il processo si era
fatto perché il giudice Falcone era stato sospettato di essersi inventato l’attentato
per farsi pubblicità. Dal Pci, dai giudici Domenico Sica, capo dell’antimafia,
e Franceso Misiani, allora del Pci, e dal colonnello dei carabinieri, poi
generale, Mario Mori, che invece è di destra.
Una vicenda che era stata un segnale: dal
polverone sull’Addaura Falcone emerse isolato, e questo significò che si poteva
colpirlo. L’isolamento è confermato dai fatti reali, come si sono succeduti. E dalle informazioni
buonissime di cui Riina dispose su Falcone, che gli consentirono l’attentato di
Capaci logisticamente così complesso e riuscito – la reazione confusa
all’assassinio Falcone confermò ulteriormente Riina: colpire Borsellino.
“Che
l’attentato alla verità sia un ingranaggio, che ogni menzogna ne trascini con
sé, quasi necessariamente, molte altre, chiamate a darsi, almeno in apparenza, scambievole
appoggio, l’esperienza della vita lo insegna e quella della storia lo
conferma”, Marc Bloch l’ha già scritto al cap. terzo dell’“Apologia della
storia”: “Ecco perché tanti celebri falsi si presentano a grappoli… La frode,
per sua natura, genera la frode”. Non è facile, “inventare presuppone uno
sforzo dal quale rifugge la pigrizia mentale comune alla maggioranza degli
uomini”. E allora ecco l’invenzione opportunista: l’interpolazione, la
connessione, il ricamo.
A Palermo
il gesuita scienziato politico Ennio Pintacuda celebrò i funerali dicendo che
la morte di Falcone era opera dell’Antistato. La stessa cosa aveva detto per
Salvo Lima. Pina Grassi, deputato Verde, disse invece che era stata strage di
Stato, perché, riferì il “Giornale”, “l’agguato è stato teso in una zona vicina
a una base Nato strettamente sorvegliata dai militari”. Alla commemorazione
dopo il funerale Claudio Martelli disse ai magistrati a Palermo: “Le amarezze
più sofferte gliele hanno inflitte quei suoi colleghi che lo hanno talvolta
legittimamente criticato e talvolta calunniato”. E aggiunse che Falcone voleva
querelarsi. I magistrati abbandonarono in massa la cerimonia, offesi.
Sempre a Palermo, prima
ancora dei funerali, due giorni dopo la strage, il grillo parlante Galloni aveva
difeso il Csm, che opponeva il procuratore di Palmi, il missino Agostino
Cordova, a Falcone come capo della Superprocura antimafia. Aggiungendo che il
Consiglio doveva difendere l’indipendenza dei giudici. “Implicitamente”, notò
Liana Milella sul “Sole-24 Ore”, “conferma le accuse di scarsa indipendenza
fatte a Falcone. Non solo: nega che per la sua esperienza della mafia il
magistrato rappresentasse un unicum”.
Giovanni Falcone-Marcelle Padovani, Cose di Cosa nostra, Il Sole 24 Ore, pp. 180 € 8,90
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