“Sarà sempre
impossibile provare, in senso
stretto, che qualcuno ha mentito, anche se si può provare che non ha detto la
verità”. Di che parliamo, dunque? Della filosofia soprammobile, un ricamo.
Elaborata al solito, ma Pinocchio ne sapeva di più.
Una “storia”
argomentata attorno a una curiosa storia: quella del silenzio della Francia, di
De Gaulle, di Mendès-France e di Mitterrand ugualmente, sulla responsabilità
nazionale nella persecuzione e lo sterminio degli ebrei francesi. Attorno a un
articolo del francesista americano Tony Judt che lo disse. Meravigliandosi, nel
suo specifico, del silenzio degli intellettuali, Derrida compreso, più che della
politica. E di intellettuali adusi a impegnarsi con veemenza su ogni possibile
buona causa. È una menzogna, dice Derrida, perché io con altri 200 ho firmato
nel 1992 un appello a Mitterrand che riconoscesse la colpa della Francia.
Mitterrand decise di no. Chirac, il suo successore di centro-destra, che aveva
avuto col socialista Mitterrand una coabitazione infelice a capo del governo,
per prima cosa riconobbe la responsabilità nazionale nello sterminio.
Che
verità trarre da questa storia? Derrida non lo dice – è indignato contro Judt.
Ma la storia della menzogna finisce per non farla, perché la materia è sfuggente:
“La dimensione performativa fa la verità, come dice Agostino”. Ogni Stato e
ogni entità che fa il suo diritto fa la verità. Si prenda proprio il delitto
più esecrando, lo sterminio: “Ovunque fosse contestata la competenza del
Tribunale di Norimberga, tutta la
struttura teorica che stiamo analizzando in questo momento ne sarebbe colpita,
o addirittura distrutta. È inutile insistere sulla difficoltà e l’enormità
della posta in gioco”. Con esempi non contestabili: “Dov’è oggi la «verità»
sulle frontiere nell’ex Jugoslavia”, una volta dissolto lo Stato federale, “in
tutte le sue enclaves, separate o
inserite in altre enclaves, in Cecenia,
in Israele, e in Zaire? Chi dice la verità e chi mente in questi territori?”.
Bene. Ma,
non volendo divagare, è vero quello che Judt diceva. Non c’è stato in Francia,
e non c’è dopo Chirac, niente di paragonabile a ciò che si è detto e fatto in
Germania e Italia sulle responsabilità nello sterminio degli ebrei. Non
mobilitazione politica, né ricerca documentaria e analisi storica. E solo due
processi, di cui il secondo, a carico del prefetto Papon, il solo d’effetto sull’opinione
pubblica, intentato per un intrigo politico. E dunque la verità? Scrittori e
giornalisti filotedeschi erano stati giustiziati con giudizio sommario nel
1945, ma come vittime al silenzio.
Per il resto
la storia è una demolizione di Hannah Arendt, “Verità e politica” – che è la
cosa di lei più onesta, e dritta al punto (corredabile con “Lying in politics: reflections on
the Pentagon Papers”). Quel tanto di buono in questo suo saggio, se c’è, è di
Alexandre Koyré, delle sue riflessioni semiclandestine del 1943 (“Riflessioni
sulla menzogna politica”, tradotto vent’anni fa da S.Nigro), conclude Derrida –
insinuante: “Non se se le ha lette, o ne ha sentito parlare”, sapendo che
H.Arendt non le cita. Come se Derrida volesse fare i suoi conti con Arendt e
Judt. Con Arendt la partita è doppia, Derrida è geloso anche della “disobbedienza
civile”. Quella sulla menzogna è lunga, ripetitiva e inconcludente -
rabbiosa, astiosa.
Nello
specifico, “performativo”, il temine risolutore, Derrida lascia nebuloso: “Voglio
precisare anche molto rapidamente, non avendo qui il tempo di dire di più, che
mi servo con una certa facilità della parola «performativo», lasciando da parte
molti problemi che ho formulato altrove sull’opposizione
performativo\constativo, sui suoi paradossi
e soprattutto sui limiti della sua pertinenza e della sua purezza”. Cioè? Altrove
è in Derrida, “L’università senza condizioni”: un gioco dell’oca?
Jacques
Derrida, Storia della menzogna, Castelvecchi,
pp. 111 € 12
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