martedì 5 maggio 2015

Derrida non ha tempo per la menzogna

“Sarà sempre impossibile provare, in senso stretto, che qualcuno ha mentito, anche se si può provare che non ha detto la verità”. Di che parliamo, dunque? Della filosofia soprammobile, un ricamo. Elaborata al solito, ma Pinocchio ne sapeva di più.
Una “storia” argomentata attorno a una curiosa storia: quella del silenzio della Francia, di De Gaulle, di Mendès-France e di Mitterrand ugualmente, sulla responsabilità nazionale nella persecuzione e lo sterminio degli ebrei francesi. Attorno a un articolo del francesista americano Tony Judt che lo disse. Meravigliandosi, nel suo specifico, del silenzio degli intellettuali, Derrida compreso, più che della politica. E di intellettuali adusi a impegnarsi con veemenza su ogni possibile buona causa. È una menzogna, dice Derrida, perché io con altri 200 ho firmato nel 1992 un appello a Mitterrand che riconoscesse la colpa della Francia. Mitterrand decise di no. Chirac, il suo successore di centro-destra, che aveva avuto col socialista Mitterrand una coabitazione infelice a capo del governo, per prima cosa riconobbe la responsabilità nazionale nello sterminio.
Che verità trarre da questa storia? Derrida non lo dice – è indignato contro Judt. Ma la storia della menzogna finisce per non farla, perché la materia è sfuggente: “La dimensione performativa fa la verità, come dice Agostino”. Ogni Stato e ogni entità che fa il suo diritto fa la verità. Si prenda proprio il delitto più esecrando, lo sterminio: “Ovunque fosse contestata la competenza del Tribunale di Norimberga,  tutta la struttura teorica che stiamo analizzando in questo momento ne sarebbe colpita, o addirittura distrutta. È inutile insistere sulla difficoltà e l’enormità della posta in gioco”. Con esempi non contestabili: “Dov’è oggi la «verità» sulle frontiere nell’ex Jugoslavia”, una volta dissolto lo Stato federale, “in tutte le sue enclaves, separate o inserite in altre enclaves, in Cecenia, in Israele, e in Zaire? Chi dice la verità e chi mente in questi territori?”.
Bene. Ma, non volendo divagare, è vero quello che Judt diceva. Non c’è stato in Francia, e non c’è dopo Chirac, niente di paragonabile a ciò che si è detto e fatto in Germania e Italia sulle responsabilità nello sterminio degli ebrei. Non mobilitazione politica, né ricerca documentaria e analisi storica. E solo due processi, di cui il secondo, a carico del prefetto Papon, il solo d’effetto sull’opinione pubblica, intentato per un intrigo politico. E dunque la verità? Scrittori e giornalisti filotedeschi erano stati giustiziati con giudizio sommario nel 1945, ma come vittime al silenzio.
Per il resto la storia è una demolizione di Hannah Arendt, “Verità e politica” – che è la cosa di lei più onesta, e dritta al punto (corredabile con “Lying in politics: reflections on the Pentagon Papers”). Quel tanto di buono in questo suo saggio, se c’è, è di Alexandre Koyré, delle sue riflessioni semiclandestine del 1943 (“Riflessioni sulla menzogna politica”, tradotto vent’anni fa da S.Nigro), conclude Derrida – insinuante: “Non se se le ha lette, o ne ha sentito parlare”, sapendo che H.Arendt non le cita. Come se Derrida volesse fare i suoi conti con Arendt e Judt. Con Arendt la partita è doppia, Derrida è geloso anche della “disobbedienza civile”. Quella sulla menzogna è lunga, ripetitiva e inconcludente - rabbiosa, astiosa.
Nello specifico, “performativo”, il temine risolutore, Derrida lascia nebuloso: “Voglio precisare anche molto rapidamente, non avendo qui il tempo di dire di più, che mi servo con una certa facilità della parola «performativo», lasciando da parte molti problemi che ho formulato altrove sull’opposizione performativo\constativo,  sui suoi paradossi e soprattutto sui limiti della sua pertinenza e della sua purezza”. Cioè? Altrove è in Derrida, “L’università senza condizioni”: un gioco dell’oca?
Jacques Derrida, Storia della menzogna, Castelvecchi, pp. 111 € 12

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