La pace
di Vestfalia, da cui qui si parte, è inevitabile, Kissinger è pur sempre un
vecchio trattatista. Studioso della balance
of power, nostalgico del Congresso di Vienna, il suo studio di dottorato,
di cui non manca mai di fare menzione. Ma prima di Vienna, e non famigerato,
viene l’equilibrio di potenza “vestfaliano”, il primo e più durevole tra gli
Stati nazionali novellamente costituiti in Europa, col riconoscimento e la
definizione del concetto di sovranità – senza contare che fu il capolavoro del
cardinale Mazzarino, lo statista per eccellenza, come Kissinger lo concepisce.
Nel mondo nuovo post-ideologico e globalizzato ci vorrebbe una Vestfalia della
globalità, un ordine mondiale. Kissinger lo intravede, e sa anche come gli Usa
possono gestirlo – il punto di vista è naturalmente americano. Nell’interesse
proprio e di ogni altro, è ovvio, altrimenti nessuna “pace” tiene.
Di nuovo
dunque cosa ci sarebbe? Che Kissinger a 92 anni è sempre lucido, miglior
analista dei fatti internazionali - con la solita cecità per i fatti economici. E per le
personalità, i Kissinger, come già Bismarck, o Cavour, o Napoleone? No, almeno due punti fanno questo libro
diverso.
La novità
è il posto che Kissinger assegna all’opinione pubblica. A quarant’anni dalla
sconfitta in Vietnam, da molti addebitata al “fronte interno”, alla tensione
antibellica che fotografi e televisioni montarono implacabili, in America,
contro la guerra americana in Vietnam. Qui l’allarme è preventivo. Le opinioni
pubbliche sono sempre eccessive, nella militanza come nella passività, ma oggi
sono qualitativamente diverse, e non per il meglio. Sono praticamente senza
giudizio: l’“interazione quasi costante con uno schermo durante tutto il
giorno” che “televisione, computer e smartphone formano”, è inaffidabile. Per
“la sua enfasi sul fattuale piuttosto che sul concettuale, su valori plasmati dal consenso piuttosto che
dall’introspezione”, dal giudizio. Fattuale per il realista politico è
superficiale: il vizio della navigazione oggi rimette in gioco tutti i dati
della partecipazione, o controllo democratico. Non solo sugli eventi
internazionali, sempre complessi, ma su ogni decisione di politica nazionale,
dalle elezioni presidenziali alle scelte locali. Si perdono “la conoscenza
della storia e della geografia”, e il senso comune, “la mentalità necessaria
per percorrere sentieri politici poco battuti”.
Con
questo limite, se esso non dilagherà sugli sviluppi internazionali, un ordine
mondiale tuttavia si prospetta. Con al centro sempre gli Stati Uniti - nella
“pax americana” cioè, che Kissinger mai pronuncia, insieme lenta e vincolante.
Come un condominio multilaterale, allargato alle potenze asiatiche, Cia, India,
Giappone, e a una voce latino-americana. Se la balance of power, Vienna-Vestfalia, è il pilastro dottrinale del
Kissinger studioso, il multilateralismo è l’opera sua di statista da
cinquant’anni, da quando nel 1969 fu associato alla Nsa, la National Security
Agency, e poi al dipartimento di Stato. Teorizzato nel 1975-76, subito dopo la
crisi del petrolio, è rilanciato ora su scala mondiale. Senza l’Europa.
Oggi come
allora, infatti, nel 1975-76, in entrambe le redazioni del suo
multilateralismo, Kissinger non fa parola dell’Europa. L’Europa è, come sempre,
assente dalla sua geopolitica. Forse in subordine al transatlantismo, che però è
dato più per scontato che professato. E comunque non come soggetto autonomo. Se
non si può dire dunque una novità, l’esclusione dell’Europa dal concerto
mondiale delle potenze è il secondo punto non scontato di questo “ordine
mondiale”. Mancante, magari ancora presente e ingombrante ma senza una sua
propria funzione.
Un multilateralismo, con
assenza inclusa dell’Europa, che è lo stesso che si prospetta a Pechino, va
aggiunto, all’altro estremo del manifesto globale – è un merito di Kissinger,
un demerito? Anche a Pechino l’ordine americano è assunto nei fatti, non
contestato. In un quadro multilaterale: Usa, Cina, India, America Latina
(Brasie-Messico). Con un dubbio: se ci sarà una “potenza Europa”.
Una
lettura che è una ventata di rinfrescante conservatorismo: Kissinger sarà stato
l’ultimo maestro dell’arte diplomatica, ossia della politica intesa a tenere i
popoli fuori della guerra. Lo studio e l’applicazione diplomatica sono in bassa
stima, in questa epoca di wilsonismo a perdere, di moralismo e superficialità.
Mentre le insidie sono dietro l’angolo.
L’esame
di una questione specifica, l’armamento nucleare dell’Iran, basta da solo a far
capire la posta in gioco. L’Iran è un grande paese, ricorda Kissinger, di lunga
e densa tradizione e cultura, con
ambizioni di potenza regionale radicate e robuste, contro un mondo arabo che per più aspetti ha sempre considerato e
considera avverso: religiosi, etnici, militari. I quarant’ani di militantismo
khomeinista hanno radicalizzato questo
scontro: con l’Irak, col sunnismo in Libano e Siria, e ora nello Yemen, contro
l’Arabia Saudita e gli Emirati del Golfo. L’armamento nucleare è inteso a
sancire la rivincita. Ma allora la proliferazione sarebbe incontrollabile: gli
arabi confinanti non vorranno restare indietro. Kissinger non ne fa tanto un
problema di Israele, d’una reazione israeliana (Israele è, come l’Europa, la
grande assente dai suoi scacchieri), ma di reazione del sunnismo, nel Golfo,
nel Medio Oriente, Egitto compreso, in Pakistan. Una questione che per un
lettore qualsiasi può sembrare marginale, e invece no.
Su questo
tema Kissinger è tornato un mese fa sul “Wall Street Journal” con un’analisi
spietata dell’accordo che avrebbe chiuso la vicenda, cofirmata dal segretario di
Stato di Reagan George Shultz. Obama ha buone intenzioni. Ma l’Iran ha
rovesciato la trattativa, “mescolando abilità diplomatica e sfida aperta alle
risoluzioni Onu”: “Per vent’anni, tre presidenti di entrambi i maggiori partiti
hanno sostenuto che l’armamento nucleare iraniano era contrario agli interessi
americani e globali”, l’accordo dà all’Iran “questa possibilità, anche se non
piena per dieci anni”. Senza peraltro controlli reali, praticamente impossibili
in “un paese vasto e con grandi possibilità di camuffamento”. E senza possibili
contromisure: le sanzioni che ora sono state levate saranno difficili da reimporre
all’Onu, e potrebbero isolare gli Stati Uniti più che l’Iran. L’accordo
riconosce all’Iran la capacità e il diritto all’arricchimento dell’uranio, che
era ciò che si voleva prevenire: “L’Iran ha moltiplicato le centrifughe da 100
all’inizio del negoziato dodici anni fa a quasi 20 mila”.
Henry
Kissinger, Ordine mondiale,
Mondadori, pp. 405, ril., € 28
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